Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

Dossier: Insieme 'in re publica' - Federalismo e beni culturali

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Dai Real Siti ai nuovi luoghi della cultura: verso una Campania 'felix'

Stefano De Caro
[direttore generale alle Antichità, Ministero per i beni e le attività culturali]

La Campania rappresenta, per l'eccellenza del suo patrimonio culturale e la complessità, passata e presente, della sua storia, uno dei casi più interessanti di studio della gestione dei beni culturali nel nostro Paese, e, in questo momento, uno dei nodi del dibattito politico in vista di un eventuale futuro svolgimento di essa verso un assetto più decentrato. Nodo tanto più arduo quando si consideri il ruolo strategico che i beni culturali hanno assunto (o almeno sono stati candidati ad assumere) in alcune aree della Campania a seguito della crisi di altre attività economiche: per esempio nei Campi Flegrei o sulla costa vesuviana, dopo la chiusura dell'Italsider di Bagnoli e delle altre industrie su cui si era puntato dopo l'Unità d'Italia per risolvere il problema dell'occupazione di una delle aree più densamente popolate del Paese.

La storia della gestione del patrimonio culturale in Campania è del tutto peculiare, perché se pur non mancano, nei periodi precedenti, episodi che l'accomunano alla storia di altre regioni d'Italia caratterizzate dallo sviluppo di una civiltà urbana (in tal senso è un bel documento l'editto, tra i primi in Italia, emanato dalla municipalità di Capua nel 1519 a protezione dell'Anfiteatro Campano), essa conserva per molti aspetti, nei suoi tratti fondamentali, l'impronta della gestione centralistica dell'età borbonica. Fino al 1860 le collezioni d'arte reali e i maggiori siti archeologici (Pompei, Ercolano, Stabia, Pozzuoli, l'Anfiteatro Campano, gli stessi scavi di Paestum) erano gestiti dall'unica Soprintendenza Generale per il Real Museo Borbonico di Napoli e per gli Scavi di Terraferma (ossia fino a Capo Colonna): una gestione del tutto centralizzata, per lungo tempo addirittura affidata al Ministero della Real Casa, in quanto si trattava del patrimonio privato dei Re.

Non che fossero mancati tentativi di modernizzare la concezione del patrimonio culturale applicando a esso l'idea che potesse servire, oltre che alla gloria della dinastia, al progresso civile del Regno, ma i tentativi operati in tal senso, affidandone al ministro degli Interni l'amministrazione, erano stati immediatamente revocati dopo il periodo francese. Vano era stato anche, nella stessa età murattiana, il tentativo ancora più lucido e moderno del direttore del Museo di Napoli, Michele Arditi, di attuare una riforma che promuovesse la costituzione di musei nelle città capoluogo delle province del Regno, nella convinzione che legando a essi l'impegno delle classi colte, chiamate a costituire e patrocinare con le loro donazioni questi nuovi musei come atto di orgogliosa munificenza nei riguardi del luogo natio, questo avrebbe giovato al potenziamento delle città (la cui debolezza era sentita come una delle maggiori carenze nella struttura socio-politica dello Stato). Questa riforma, infatti, non fu mai attuata e la gestione restò miopemente ancorata, oltre che all'idea dell'unico centrale Museo Borbonico, all'idea dei "Real Siti", la cui visita era generosamente accordata come grazioso omaggio del sovrano ai visitatori illustri (omaggio ovviamente gratuito, salvo le mance ai custodi, che non ricevevano salario).

L'Unità d'Italia apportò una ventata di novità nel settore, soprattutto perché segnò la vittoria delle più moderne idee di Giuseppe Fiorelli, fautore di una gestione del patrimonio più aggiornata e adatta alla dimensione ormai da turismo di massa assunta, per esempio, da un sito come Pompei, dove non a caso, per la prima volta in Italia, si introdusse il biglietto d'ingresso. Fiorelli restava tuttavia il maggior sostenitore dell'ipotesi di una gestione centralizzata della nuova Amministrazione unitaria, contro chi avrebbe desiderato una gestione più rispettosa delle tradizioni culturali locali, e non a caso fu scelto come primo direttore generale delle Antichità e Belle Arti. Per contro, tuttavia, nei decenni successivi all'Unità, la ristrutturazione amministrativa del territorio nazionale, e meridionale in particolare, con la creazione delle nuove province e con la necessità di potenziare nelle città capoluogo le funzioni culturali fino ad allora concentrate nell'ex capitale (teatri, scuole, musei), innescò una politica di creazione di musei provinciali che si è protratta in Campania ai primi decenni del Novecento. Così a Capua, col Museo Provinciale Campano (1874), a Benevento nella Rocca dei Rettori (1893), a Salerno con i Musei Provinciali (1928), ad Avellino col Museo Irpino (1934).

In un primo momento presso alcuni di questi musei si concentrò la stessa attività di tutela, affidata dal Ministero, nel 1876, alle locali "Commissioni conservatrici dei monumenti e oggetti d'antiche e belle arti" costituite presso le Prefetture in tutte le province (dal 1884 "Delegazioni regionali", e dal 1891 "Uffici tecnici regionali", fino al 1907, quando nacquero le Soprintendenze); ma la pur meritoria attività svolta da alcune di esse non riuscì a impedire che in siti come Cuma o Capua continuasse il grave fenomeno degli scavi e del commercio clandestino di antichità. Col tempo i musei provinciali, nati e vissuti sull'attivismo di personalità di singoli studiosi, senza una reale struttura legislativa e amministrativa di supporto, e privi di collegamento con l'attività di tutela svolta dalle soprintendenze statali (un'eccezione felice fu, nel Salernitano, l'attività di Venturino Panebianco), finirono per perdere la loro funzione originaria di catalizzatori della cultura provinciale, crisi che essi vivono tuttora.

Dopo la Seconda guerra mondiale la dimensione del patrimonio culturale campano è venuta progressivamente crescendo, soprattutto per la creazione di nuovi musei e parchi archeologici, nati sia per effetto dell'attività di tutela - che è stata resa necessaria dalla straordinaria espansione dell'attività edilizia (legale, e ahimè soprattutto abusiva) e ha prodotto un enorme arricchimento del patrimonio archeologico - sia per effetto del crescente desiderio delle comunità locali di vedere valorizzati sul posto i rinvenimenti, anche grazie all'azione di sensibilizzazione condotta da nascenti associazioni amatoriali. Le soprintendenze, dal canto loro, hanno appoggiato questa azione quale fondamentale supporto all'attività di tutela condotta dai loro "uffici scavi", sensibili antenne sul territorio dell'amministrazione statale.

Nel corso degli ultimi decenni - soprattutto con fondi della Cassa del Mezzogiorno, del Comitato interministeriale per la programmazione economica, della Regione, eccetera - sono stati così istituiti aree e musei archeologici di grande interesse intrinseco, come le ville di Stabiae e di Oplontis, il nuovo museo dell'antica Capua di Santa Maria Capua Vetere, i musei di Pithecusae a Lacco Ameno, di Nola, di Cimitile, di Sarno, di Mondragone, di Sessa Aurunca, di Teano, di Alife, di Maddaloni, di Acerra, dell'antica Atella a Succivo, di San Lorenzo Maggiore e Santa Chiara a Napoli, di Vico Equense, di Piano di Sorrento, di Pontecagnano, di Atena Lucana, di Eboli, di Morra de' Sanctis, di Montesarchio, il percorso archeologico sul Rione Terra di Pozzuoli (per citare i maggiori).1 Creati tutti con grande impegno e partecipazione delle comunità locali, spesso utilizzando immobili monumentali inutilizzati e in abbandono messi a disposizione dalle Amministrazioni locali, tutti questi musei erano (e sono) affidati a una disponibilità di risorse pubbliche del tutto insufficienti, e vivono di vita asfittica, privi di personale in misura adeguata e delle risorse necessarie allo svolgimento dei compiti per i quali sono stati istituiti, essendo del tutto inadeguati i contributi ordinari erogati dalla Regione con la pur recentemente approvata Legge regionale sui "Musei e raccolte di Enti locali e di interesse locale" (numero 12 del 23 febbraio 2005).

Questo fenomeno di enorme accrescimento del patrimonio culturale campano, sviluppatosi quasi spontaneamente, sulla base di accordi alquanto generici e diversi da caso a caso, ma regolarmente approvati dall'Amministrazione centrale del Ministero per i beni culturali, era già arrivato a un punto di svolta al momento della programmazione dei fondi strutturali europei 2000-2006 e degli investimenti dei fondi per le aree sottosviluppate. In quel momento appariva evidente, infatti, come il Ministero avesse imboccato, e già da tempo, un percorso di riduzione di risorse per la gestione, talché appariva del tutto impossibile per le soprintendenze prevedere di impegnarsi nella gestione di nuovi musei, siti archeologici o altri complessi culturali (impossibilità confermata da indicazioni ufficiali del Ministero). D'altro canto la Regione Campania (in ciò sospinta dalla volontà delle comunità locali) chiedeva di usufruire della competenza delle stesse soprintendenze e della disponibilità dei materiali artistici e archeologici statali per iniziare un nuovo ciclo di investimenti nel settore, il più ingente mai messo in atto nell'area, e forse in tutto il Paese: ben 600 milioni di euro stanziati sull'asse denominato "Risorse culturali", che prevedeva, oltre al restauro di "luoghi della cultura" già esistenti, anche il loro ampliamento, nonché l'istituzione di nuovi.

Tale discrasia, tra l'intendimento della Regione e quello dell'Amministrazione statale di non gestire più in futuro nuovi musei e siti archeologici, fu superata nel 2001 con un accordo tra il ministro dei beni culturali dell'epoca e il presidente della Regione, che all'articolo 7 prevedeva appositamente la necessità di sperimentare nuove forme di gestione, diverse dalla tradizionale gestione statale, in ciò muovendosi sulla traccia di quel conferimento o trasferimento di funzioni di gestione alle autonomie territoriali previsti dalle leggi 59-1997 e 127-1997. Non a caso la società che la Regione Campania deliberò di costituire in vista di tale trasferimento, la SCaBeC SpA (Società campana beni culturali), si rifaceva nel nome e nel modello organizzativo a quella SIBeC SpA (Società italiana beni culturali) che lo stesso Ministero aveva avuto mandato dal Parlamento di costituire (articolo 10 della Legge 352-1997) in vista dell'attuazione, in forma privatistica, di alcune funzioni proprie quali "la promozione e il sostegno finanziario, tecnico-economico e organizzativo di progetti e altre iniziative di investimento per la realizzazione di interventi di restauro, recupero e valorizzazione dei beni culturali".

In realtà le vicende successive hanno dovuto fare i conti con un diverso indirizzo. Sul fronte statale, infatti, al posto della SIBeC, mai decollata, è stata costituita la ArCuS SpA (Arte cultura spettacolo), con compiti orientati alla valorizzazione del patrimonio culturale nella sua relazione con le infrastrutture (Legge 16 ottobre 2003, numero 291, "Disposizioni in materia di interventi per i beni e le attività culturali, lo sport, l'università e la ricerca e costituzione della Società per lo sviluppo dell'arte, della cultura e dello spettacolo"). Sul fronte regionale la SCaBeC, che dopo una prima fase di struttura societaria totalmente pubblica è diventata una società a partecipazione minoritaria privata, ha incontrato numerose difficoltà di carattere normativo e politico che hanno a lungo impedito l'applicazione dell'accordo del marzo 2001. Sicché solo di recente (nel febbraio 2009) il ministro per i beni e le attività culturali e il presidente della Regione Campania hanno firmato un nuovo accordo per dar corso, mutatis legibus, ad "accordi di valorizzazione" che permettano di gestire alcuni dei grandi "luoghi della cultura" (Campi Flegrei, Velia, eccetera). Luoghi che sono stati oggetto di intervento del Programma operativo regionale (POR) 2000-2006 o che auspicabilmente lo saranno nel prossimo (come Capri, che, nonostante sia uno dei più celebri luoghi turistici del Paese, ha un livello di gestione del suo patrimonio culturale del tutto inadeguato).

Nonostante la buona volontà delle istituzioni, il compito non è affatto facile data l'assenza in Campania di quegli sponsor istituzionali (le fondazioni bancarie) che hanno reso possibile le poche recenti esperienze consolidate, non a caso tutte in Italia centro-settentrionale (il Museo Egizio di Torino, i parchi archeologici di Val di Cornia e di Aquileia); e tuttavia è un compito ineludibile, a pena di vanificare gli enormi sforzi fin qui compiuti e di privare questo già tormentato territorio di un'occasione fondamentale per il suo sviluppo. In assenza dei soggetti privati (se non quelli presenti come soci minoritari nella SCaBeC) lo sforzo della gestione finirà per ricadere totalmente sulle spalle pubbliche. In questa luce si comprende come diventi assolutamente fondamentale che la programmazione di tale sforzo si integri con quella dei nuovi fondi strutturali, in una visione unitaria dello sviluppo del territorio regionale che riesca a superare anche alcuni limiti manifestatisi nell'attuazione del POR 2000-2006. È così necessario giungere a una migliore integrazione tra gli ambiti di finanziamento e al superamento della separazione tra la visione ambientale e quella culturale (per esempio tra i Parchi nazionali e regionali di ambito naturalistico e quelli archeologici).

Per risolvere questa frammentarietà non esistono scorciatoie né misure "straordinarie". La strada principe è, da un lato, la riconsiderazione di una strategia globale per i musei campani, a prescindere dalla loro titolarità. Non è ragionevole prevedere la creazione di nuovi musei fino a che non si disporrà di un piano di gestione per quelli esistenti: la necessità di valorizzare i materiali delle pur notevolissime nuove scoperte archeologiche (si pensi a quelle della metropolitana di Napoli, o del depuratore di Poggiomarino, o della stazione di Afragola) dovrà essere soddisfatta nell'ambito delle strutture museali esistenti; e il problema della tutela, gestione e valorizzazione dei crescenti materiali messi in luce con l'attività di archeologia preventiva dovrà trovare soluzione in strutture di nuova concezione, come grandi depositi a scala provinciale attrezzati a laboratori di ricerca e documentazione, affidati alla collaborazione tra soprintendenze, enti locali e università. Sul versante della valorizzazione dei beni immobili (aree e parchi archeologici, siti monumentali), la soluzione non può che derivare dalla redazione del Piano paesistico regionale. Esso, come delineato nella terza parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è lo strumento unitario sia per la tutela dell'ambiente naturale e culturale sia per lo sviluppo armonico, all'interno del territorio, di tutte le azioni volte al suo sviluppo. Costruirlo, in Campania come nel resto d'Italia, è un lavoro complesso, ma pienamente possibile, sulla base delle conoscenze e delle esperienze disponibili e degli studi fin qui condotti.

Un momento di possibile svolta è costituito dalle prossime elezioni regionali: fatalmente segneranno un momento di pausa nell'attività amministrativa, e tuttavia offriranno anche la possibilità di dibattere questi problemi in chiave propositiva. Speriamo che le forze politiche colgano questa occasione. L'ultima, forse, per un'insperata Campania nuovamente Felix.


Nota

(1) Una lista pressoché completa è nel sito: www.culturacampania.rai.it/site/it-IT/Patrimonio_Culturale/Musei/.

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