Rivista "IBC" XVII, 2009, 4
Dossier: Insieme 'in re publica' - Federalismo e beni culturali
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
La Sicilia ha avuto nell'età moderna una lunga e rilevante tradizione in materia di ricerca, tutela e gestione di quelli che oggi si definiscono beni culturali e ambientali. Vale subito la pena di ricordare che l'antenata dell'attuale soprintendenza, l'istituzione in Italia preposta alla tutela e alla gestione del patrimonio culturale, è la Regia Custodia creata in Sicilia da Ferdinando IV nel 1778. Il principe di Biscari, per il val di Noto e il val Demone, e il principe di Torremuzza, per il val di Mazara, furono i primi responsabili di questa istituzione.
Non essendo questo il momento di soffermarsi sul significato ideologico, giuridico e amministrativo della Regia Custodia in rapporto a quella che era stata, fino alla fine del 1700, la legislazione romana e napoletana in materia, si desidera solo ricordare che in Sicilia, nella prima metà del Settecento, si erano avuti puntuali provvedimenti di tutela proposti e sostenuti da amministratori locali. Infatti, nel 1745, il viceré Corsini aveva imposto la conservazione dei boschi del Carpinetto a monte di Mascali, nei quali era celebre il "castagno dei cento cavalli", e la conservazione di tutte le antichità di Taormina. Così del 1757 è il bando del ministro Tanucci per la custodia del Teatro di Taormina, primo esempio di tutela di un singolo monumento.
Questi notevoli segni di tutela ambientale e monumentale sono la prova evidente dell'esistenza, nella Sicilia del Settecento, di una sensibilità culturale e di una "coscienza monumentale e antiquaria che portò a una concreta azione amministrativa e di tutela attraverso strumenti giuridici e l'istituzione di appositi Uffici". Tutto questo per dire che la Regia Custodia non nasce come un fungo istituzionale o come espressione di un vezzo di aristocratici dell'ancien régime. Ma c'è di più. Non è solo l'intellighenzia siciliana a vivere un felice momento di coscienza civile e culturale, sono i vertici stessi del potere a dimostrare piena consapevolezza dei provvedimenti adottati in favore di monumenti rappresentanti "il maggiore, il più bello, il più rimarchevole dei pregi della Sicilia", come si dice nella lettera del Presidente del Regno del 31 agosto 1778 con la quale si conferisce al principe di Biscari l'incarico della Regia Custodia.
Tutto questo fa da sfondo molto significativo se si pensa alla riscoperta fatta nell'epoca nostra, da parte di politici, imprenditori e amministratori, del patrimonio culturale, gestito con le esperienze negative degli "itinerari culturali", dei "giacimenti culturali" e di fantomatici "eventi culturali", in un'epoca in cui l'abusivismo è stato dilagante, mostruosa l'industrializzazione e sconsiderata la gestione del territorio nel quale il patrimonio archeologico e monumentale è quasi totalmente abbandonato a sé stesso. Si vuol dire che, a fronte della negativa situazione di oggi, non bisogna pensare che essa si giustifica perché fondata sul vuoto, sulla mancanza di presupposti, di precedenti, di tradizione: tutte cose che, invece, sono state costantemente ignorate, sottovalutate o irrise.
Le Regie Custodie sono un esempio luminoso, in Sicilia, di coscienza culturale e di valore programmatico e operativo. Con esse si avvia il processo di approccio moderno alla realtà monumentale antica: il Re ordinava ai Regi Custodi di "aver cura" dei Monumenti, di "attendere alla ricerca, alla custodia e alla conservazione". È la prima volta che sono indicati con consapevolezza i cardini fondamentali della gestione dei beni culturali e tutto questo fa molto riflettere nell'epoca in cui la parola "ricerca" è quasi del tutto scomparsa, nell'ora dell'uso, dell'evento, della proposta dove e comunque sia, tanto spettacolare quanto vuota di contenuti, nell'epoca in cui si è perso ogni orientamento. Pare si sia quasi del tutto dimenticato che non ci può essere vera "offerta" del bene culturale se non preceduta da ricerca e da valorizzazione basata su attente opere di conservazione e manutenzione sistematica.
Senza fermarmi sulla storia della Regia Custodia, è dimostrabile come in tutta la prima parte del 1800 fu realizzata in Sicilia una notevole azione e legislazione di tutela. Con l'Unità d'Italia tutto l'apparato spostò a Roma il suo centro: la vecchia e gloriosa Commissione di Antichità e Belle Arti, istituita nell'isola nel 1827 e trasformata nel 1899 in Ufficio Regionale dei Monumenti, veniva sciolta nel 1902 con la legge 185, che per la prima volta unificava la disciplina di tutela del patrimonio culturale su tutto il territorio nazionale. Fu allora che in Sicilia si applicò la vecchia divisione in due Soprintendenze (come le due Custodie del 1700), quella della Sicilia occidentale e quella della Sicilia orientale. Con la legge del 1939, la 1089, esse furono poi specializzate e moltiplicate: tre Soprintendenze alle Antichità, due ai Monumenti, una alle Gallerie e Opere d'arte. Si sono in seguito avute ulteriori moltiplicazioni ma, in definitiva, le Soprintendenze sono rimaste le istituzioni sulle quali si è retto il settore fino all'emanazione della legge del 1975 che istituì il Ministero dei beni culturali e ambientali.
È nello stesso 1975 che la Sicilia torna a essere importante banco di prova nel campo dei beni culturali. In attuazione dello Statuto siciliano, con due decreti del Presidente della Repubblica (635 e 637 del 30 agosto 1975), tutte le competenze in materia di antichità e belle arti, di paesaggio, di accademie e biblioteche venivano trasferite dallo Stato alla Regione. Allo Stato restarono subordinate solo le licenze di esportazione e la facoltà di sostituirsi alla Regione nell'esercizio del diritto di prelazione! Il nuovo assetto regionale è stato successivamente regolamentato da due leggi, la numero 80 dell'1 agosto 1977 e la numero 111 del 7 novembre 1980, l'una riguardante le "norme per la tutela, la valorizzazione e l'uso sociale dei beni culturali e ambientali", l'altra "le norme sulla struttura, il funzionamento e l'organico del personale dell'Amministrazione dei beni culturali".
Tralasciando i complessi problemi che hanno comportato il nuovo assetto delle istituzioni periferiche basate sulla creazione delle soprintendenze uniche con territorio giurisdizionale provinciale e l'organizzazione del personale tecnico-scientifico, il problema di fondo che col tempo ha rivelato i maggiori aspetti negativi della nuova gestione è da ravvisare nel distacco, praticamente totale, rispetto agli orientamenti, alle attività, alle prospettive della politica culturale a livello nazionale. Se è vero, come è vero, che il patrimonio culturale siciliano, soprattutto in campo archeologico, ha una connotazione e un peso tali da costituire, per buona parte, l'antefatto e uno dei cardini portanti che fa cosa strettamente comune con il patrimonio culturale dell'intero Paese, non è possibile accettare l'idea che i criteri applicati nella ricerca, nel restauro, nella conservazione, nella valorizzazione non siano omogenei, interdipendenti, come sono nei presupposti, su tutto il territorio nazionale.
Nulla quaestio sulla necessità di un concreto e produttivo decentramento di carattere amministrativo e gestionale che coinvolga sempre più, ma seriamente e coordinatamente, le realtà locali; tutto questo, però, nel quadro di direttive, prospettive, modi operativi ed esiti di una politica comune, riguardante un Paese che ha sicuramente un'unità inscindibile soprattutto a livello di radici, di quadro genetico, se siamo convinti che non siamo certo uniti solo dalle coste, dalle catene montuose o dai terremoti! Per tornare a un discorso più concreto, si vuol dire che accanto all'esigenza di favorire il processo di scoperta e attivazione delle realtà locali è impellente quella di riprendere e istituzionalizzare il rapporto col corpo comune della realtà nazionale.
Comune o seriamente ispirata a criteri comuni deve essere la materia della formazione e del reclutamento del personale, dell'informazione scientifica, dei criteri da applicare omogeneamente alla tutela, alla conservazione e al restauro, ai metodi applicati nella valorizzazione del patrimonio culturale. Per dare un'idea pratica del problema, non è possibile che si restauri un tempio greco a Paestum in modo diverso e non ispirato agli stessi criteri da come si fa per un tempio greco ad Agrigento, e lo stesso vale per un arco trionfale romano ad Aosta o a Siracusa. Come non sarebbe forse accettabile che le coste si tutelassero per cento metri di profondità in Sicilia, duecento in Campania, trecento in Sardegna!
Questo gravissimo pericolo di parcellizzare il territorio con funzioni operanti a ruota libera (parlo sempre del settore dei beni culturali) in Sicilia è, purtroppo, una realtà. Sì, perché il territorio di giurisdizione ha perduto quei connotati di aree culturalmente omogenee tenuti in conto, come si è visto, già nel 1700, e ha i confini delle attuali province. Si aggiunga che le preposizioni ai vertici di queste istituzioni sono decise da delibere della Giunta di governo. In pratica, e non solo per questo, l'antica, gloriosa Soprintendenza non è più un'istituzione tecnico-scientifica ma, sostanzialmente, un organo politico-amministrativo. Intuibili le conseguenze, soprattutto nel campo delicatissimo dell'esercizio della tutela, operazione a dir poco difficile non solo per la carenza di direttive chiare e comuni, ma soprattutto per l'impossibilità di evitare la morsa dei condizionamenti politici locali. Quale può essere, in queste condizioni, il tanto invocato grado di indipendenza del funzionario dal localismo e dal personalismo sfrenato?
Si è forse capito che in Sicilia, terra che vive in uno stato permanente di contraddizione, fra nobili e altissimi vertici di coscienza culturale e profondi abissi di aberrazione, qualcosa non funziona, e che bisognerebbe correre a qualche riparo, soprattutto per quanto concerne questa "separazione" dal resto del Paese. Le irrinunciabili prerogative unitarie della nazione, volute prima di tutto dalla Costituzione, non si possono tutelare riservando allo Stato solo la facoltà di rilasciare licenze di esportazione e quella di sostituirsi alla Regione nell'esercizio del diritto di prelazione! Mi torna sempre più in mente una considerazione di Claudio Maria Arezzo, storiografo di Carlo V. Di fronte allo storico avvenimento della soppressione, a Siracusa, della Camera Regionale istituita nel 1361, che aveva assicurato alla città intensi e fruttuosi rapporti con la Spagna, egli così si interrogava: "Ora che siamo disgiunti non ci dovesse capitare che fossimo congiunti all'Africa?".
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