Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

Dossier: Insieme 'in re publica' - Federalismo e beni culturali

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Cose d'altri tempi: riflessioni sui sistemi di gestione del patrimonio culturale

Stefano Baia Curioni
[direttore del corso di laurea specialistica in Economia per l'arte, la cultura e la comunicazione all'Università "Bocconi" di Milano]

Un tempo, per descrivere il proprio sistema politico e sociale si doveva metaforicamente ricorrere a uno sguardo straniero. Persiani, viaggiatori orientali immaginati da scrittori europei, guardavano ciò che era ovvio e quotidiano, con la loro ingenuità lo smontavano, e talvolta riuscivano nell'impresa di rendere evidente l'indicibile. Oggi è difficile immaginare un luogo da cui provenire per garantire uno sguardo sufficientemente "ingenuo" e libero sulla contemporaneità. Pure si tratta di un esercizio cruciale. Mai allenato a sufficienza. Perché se non ci sono più censure da ingannare... esistono però continenti da circumnavigare, quelli formati dal disincanto, dalla distrazione, dall'esercizio unilaterale degli interessi.

Eppure basta poco: a Milano (ma in qualunque grande città del Paese) basta prendere una bicicletta e tentare di uscire lungo un'asse a scelta, a nord, a sud... dove si vuole, e guardarsi bene intorno, o prendere un treno e occhieggiare dal finestrino: gli spazi che ci circondano sono un campo di battaglia, ritmato da abbandoni, ruderi, nuove costruzioni spesso violente nel disegno, nei modi, nelle dimensioni, spazi di risulta, interruzioni... Non è il segnale di una battaglia tra progresso disordinato e resistenze tradizionali o, ancora più altamente, il danno collaterale di un epico confronto tra ragione e natura... È più semplice e meno affascinante: è confusione, brutalità, mancanza di pensiero, mancanza di cura, impotenza, esercizio incolto degli interessi, sovente miope, non mediato politicamente: la crescita delle nostre città, la loro diffusione capillare in ogni angolo del territorio, ci sono da tempo sfuggite di mano.

Cambiamo il quadro, andiamo nelle cosiddette città d'arte. A scelta: Venezia, Firenze, Roma... ci sta anche Pisa. Il disegno si ripete. Affollamenti di turisti (ammesso che questa parola abbia ancora un qualunque senso comune) in alcuni grandi plessi cartonificati, che, in modo non paradossale, vivono solo grazie al riflesso di una spettacolarizzazione puramente immaginifica e filmografica (il Colosseo per tutti). Pietre di cui non si sa bene cosa fare e che vengono rimontate a riempire una colossale e inevasa domanda di senso, di cui sovente non si ha nemmeno la percezione. La si pensa nei termini di "avere degli interessi" o "vivere un'esperienza", o "partecipare alla vita degli antichi"... ma forse, al fondo, è "chi erano loro? chi sono io?". E intorno tesori semplicemente ignorati. Sovrumane bellezze circondate dal più sereno disinteresse. L'Italia è anche questo, lo è molto. Una straordinaria, quasi mostruosa, stratificazione di civiltà storiche, letterarie, architettoniche, artistiche, affardellate le une sulle altre, che si estende su ogni metro di un Paese antico e immemore. Vi sono dei punti del Paese in cui questa evidenza è quasi abbagliante. Un esempio tra tanti: Ercolano. Andarci significa incontrare il sovrapporsi in un solo luogo di radicali contraddizioni, in modo quasi illuminante. Vale la pena di riassumerle.

Si sta in uno scavo tagliato in profondità, come una fetta di torta, in mezzo a un conglomerato urbanistico la cui caoticità e illeggibilità è quasi leggendaria. Case interrotte dall'intervento degli archeologi, come se un'onda di mattoni, terrazzi, tetti, antenne e panni fosse stata stoppata improvvisamente e senza ragione dopo aver travolto il "miglio d'oro" delle grandi dimore borboniche, un tempo immerse nel verde e con il mare di fronte... dopo aver impunemente sommerso una piana e le pendici di un vulcano a dispetto di qualunque ricordo e qualunque previdenza. Sotto le case si afferma un'immensa sedimentazione di materiali eruttivi, tufi, frammenti piroclastici, come un'altra onda di tsunami, fatta di pietra grigia, drammatica, interrotta anch'essa dagli scavi.

Ancora più in basso giace una città mummificata, pressoché intatta nella sua catastrofe, con le sue case, le sue vie ortogonali a una spiaggia, che sta per essere ripristinata come un tempo, ma non ha più il mare: riempito dall'eruzione, dal tempo, dagli stessi materiali di riporto dello scavo che hanno dato vita a una sezione di territorio poi edificato. Solo roccia grigia a chiudere il panorama di una città frantumata, piena di morti, di scheletri ancora nelle case o allineati negli antichi depositi marittimi, e di vivi, turisti che si aggirano con guide anche brave e appassionate. Che parlano di Ercolano come se quel che è successo lì fosse davvero in qualche modo raccontabile, e come se il contesto, quelle pareti di roccia intorno, quelle case sopra, non ci fossero, o fossero solo un monito sulla natura provvisoria delle civiltà.

Attorno, verso il litorale, le baracche e le case della Soprintendenza. Un visitor center ancora chiuso, un museo dalle fattezze spigolose e incredibili anch'esso ancora chiuso, uno shop ben tenuto, archeologi che ancora scavano e studiano, molti progetti, molti dei quali esistono e si sviluppano perché una fondazione americana ha finanziato per anni e con ingenti denari la possibilità di sanare il degrado del sito archeologico, eliminando il rischio di crolli, dando copertura a case e mosaici, avviando un programma complessivo e generoso di rilancio, privati al posto dell'impotenza del pubblico. La città è assente, anzi è sopra, ma rivolta altrove.

Ecco, guardare Ercolano è una bella occasione per capire il problema rappresentato dal patrimonio culturale italiano: la sua infinita stratificazione, l'oblio di cui è oggetto, la sua bellezza, la sua apparente incongruenza con il presente, il suo monito per il presente, la difficoltà di capirlo, di farsene qualcosa, di dargli un senso nel contesto, la complessità dei processi che ne consentono l'esistenza, la difficoltà di mantenerlo e ancor più di pensarlo. Guardare l'antica Ercolano non può che determinare lo spazio per uno sguardo sulla città contemporanea. Sono lì insieme, una sotto l'altra. Nello stesso posto, sotto lo stesso vulcano, nella loro apparente incommensurabilità. Ed è ovvio che il problema dell'esistenza, dell'accessibilità, della tutela, della gestione dell'archeologia di Ercolano non può essere pensato, concepito, senza un pensiero rivolto al territorio, alla città di oggi.

Queste le difficoltà, gli orizzonti, entro cui si pone il problema di pensare la tutela del patrimonio culturale del nostro Paese, un'attività che nasce in primo luogo da un pensiero sul presente, sull'ambiente, sui modi del progresso, da un pensiero politico prima che antiquario. Di questo pensiero politico, oggi, in un tempo in cui la questione della gestione del patrimonio è trattata in modo unilateralmente tecnico-erudito o economico, si sente la mancanza e la nostalgia.

Posta questa premessa, si può forse intendere la natura stratificata del dibattito relativo al tema della tutela del patrimonio culturale, un dibattito nato fin dai primi passi delle pratiche pubbliche, la cui presenza si trasmette dalla legge "Bottai" al dettato costituzionale dell'articolo 9: "La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Uno sguardo anche veloce alle carte custodite nell'Archivio di Stato a Roma consente di notare come le battaglie storiche condotte alla luce di questo principio sono state sempre costrette a misurarsi con un pensiero sulla contemporaneità e sulle dinamiche complessive dello sviluppo. Basti pensare alla grande campagna che ha condotto a preservare i centri storici delle città italiane dai piani urbanistici ispirati da distopie modernizzanti, agli interventi per il salvataggio dei colli euganei dalle cave, ma il discorso può essere allargato all'insieme delle azioni svolte dalle innumerevoli soprintendenze italiane negli ultimi cinquant'anni.

In linea di principio, e almeno per un certo periodo anche di fatto, la "tutela" non si è limitata a un esercizio di vincolo. Non è stata composta solo o principalmente da divieti. La tutela è stata il principio ispiratore della gestione del patrimonio, e in un certo senso, nei casi migliori, ha ispirato la gestione e ne ha gerarchizzato le istanze. L'orizzonte della tutela traspare e si declina nelle scelte e nei modi della conservazione (custodia e restauro), tutela è ricerca scientifica, tutela è divulgazione e diffusione dell'educazione al senso del patrimonio. A questa istanza fa riferimento il principio autoritativo, di natura pressoché prefettizia, assegnato alle soprintendenze. Questo è quanto è stato, quanto avrebbe potuto essere, ma certamente non è più.

In tutta onestà è difficile (e a oggi non è stata ancora autenticamente tentata con la necessaria acribia storica) una diagnosi adeguata di quanto è accaduto nel sistema della gestione pubblica del patrimonio culturale italiano. E, diciamolo pure, in mancanza di una radicale diagnosi è difficile immaginare adeguati rimedi. Ma è evidente che da un certo punto in poi, direi dai primi anni Novanta in avanti, è avvenuta una progressiva decadenza, sia sul piano del dibattito implicito nell'azione di tutela, sia nelle capacità pubbliche di esercitarla in modo adeguato. Dagli anni Settanta ai Novanta, all'interno del sistema dei beni culturali e nei suoi rapporti con il sistema politico si sono generate alcune dinamiche che, per ragioni diverse, si sono tradotte in un'eccessiva indulgenza nelle politiche di assunzione e nel successivo consociativismo... Non si può mancare di notare come le soprintendenze italiane si siano riempite di personale di custodia (i numeri erano impressionanti alla fine degli anni Novanta e sono comunque rilevanti ancora oggi), un personale fortemente sindacalizzato, non privo di esplicite connessioni partitiche (per non dire altro), scarsamente incline ad assecondare le necessità di cambiamento.

Ancora, è necessario riconoscere che la formazione specialistica, essenzialmente e forse giustamente storico-artistica, dei funzionari di livello elevato delle soprintendenze non è stata in grado (a parte alcune eccezioni) di reggere la sfida concettuale del confronto tra tutela e sviluppo territoriale, sia per la caoticità con cui questo confronto è avvenuto, sia per l'oggettiva complessità dei processi, sia per il declino relativo della capacità euristica dei quadri ideologici su cui in precedenza si era formato il dibattito. A questa carenza culturale deve legarsi parte dell'oggettivo fallimento di molte istituzioni nel rispondere alla nuova domanda di fruizione culturale che si è manifestata in Italia negli ultimi anni e alle possibili economie da essa generabili.

La stessa struttura delle soprintendenze, organizzate come prefetture culturali e scientifiche, al tempo stesso gerarchizzatissime nei loro processi decisionali e completamente orizzontali nella definizione delle aree di competenza e responsabilità, ha favorito la resistenza al cambiamento delle istituzioni di fronte a nuove domande politiche e di contesto. Fatto sta che, nel tempo, le soprintendenze sono venute progressivamente a isolarsi nei loro rapporti con i territori, tenendo di volta in volta posizioni difficili da giustificare, sia nel senso del rigore vincolistico, sia nel senso della flessibilità, tanto da coltivare nel tempo un'autorappresentazione da "fortini assediati".

Su queste dinamiche già spontaneamente problematiche si è poi innescata una stagione che potremmo benevolmente definire dell'"economicismo di maniera", che guadagnando spazi nelle pieghe della progressiva crisi culturale e finanziaria dello "stato sociale" ha introdotto nel sistema una prospettiva riduttiva, a volte grezza, quasi sempre poi fallace sul piano dei risultati pratici, per cui il patrimonio è diventato un mero "fattore di produzione" per territori, città, comuni, aziende private. La grezza unilateralità di un approccio privatistico ed economicistico inconsapevole della natura dei problemi impliciti nella questione del patrimonio culturale e l'arroccamento duro, altrettanto unilaterale, dei puristi (che talvolta ha anche coperto sistemi specifici di interessi) si sono saldati in un blocco che, tra antitesi dichiarate e alleanze inaspettate, ha di fatto paralizzato lo sviluppo del sistema da quasi vent'anni. Questa stagione, accompagnata dalla progressiva riduzione della questione politica del patrimonio culturale alla questione squisitamente tecnica della sua gestione, ha prodotto nell'ordine:

· lo smantellamento progressivo delle competenze delle soprintendenze, che in alcuni casi sono state private dei territori, in altri delle risorse umane in grado di effettuare un presidio autentico, in tutti i casi del ruolo politico implicito nella tutela;

· la crescita problematica di un ristretto numero di operatori privati, comunque per natura non in grado di vicariare gli spazi lasciati liberi dalla "ritirata" del settore pubblico;

· e soprattutto una sequenza di "sperimentazioni" gestionali, reciprocamente disomogenee, non legate da un comune disegno, che hanno fatto perdere l'opportunità di un recupero istituzionale autentico. Si allude in particolare alle cosiddette "autonomie" (delle grandi soprintendenze archeologiche, oggi commissariate, e dei cosiddetti poli museali) condotte a metà, lasciate a metà, e anche alle esperienze fondazionali (l'Egizio) che mostrano oggi segni di qualche dinamica dopo anni di drammatiche incertezze.

Ciò non toglie che, pur all'interno di tanta confusione, si siano potuti registrare alcuni poli o casi di autentica eccellenza e crescita, l'estensione dell'accessibilità, la creazione occasionale di buoni rapporti tra pubblico e privato, la formazione di alcune ottime competenze organizzative per eventi e mostre, un certo sviluppo del settore editoriale (oggi, ahimè, messo alle corde dalla crisi), l'apertura di spazi e modalità di rapporti con il pubblico impensabili anche solo dieci anni fa.

Non si tratta più di fare vittimismi o di indulgere in ottimismi. Basta lamento e, speriamo, basta trionfalismi di facciata. La posizione di chi scrive è già stata in altra sede enunciata: è necessario procedere a una re-istituzionalizzazione della questione della gestione del patrimonio (creando enti capaci di guadagnarsi indipendenza culturale e sostenibilità economica attraverso la convergenza di risorse pubbliche e private a tutti i livelli territoriali), l'adozione di adeguate, fondate e consapevoli competenze manageriali e tecnologiche, il rinnovamento delle conoscenze storico-critiche e scientifiche. Questo con buona pace di chi, certo pur con buon fondamento giuridico, predica la radicale indipendenza e separazione tra le funzioni pubbliche e quelle private: al di fuori di un indirizzo di quest'ordine sarà improbabile assistere a rinascite.

Cos'ha a che fare questo quadro anamnestico con la questione del decentramento alle Regioni delle attività di tutela? Credo tutto, in realtà. Uno dei processi, fin qui non menzionati, che ha influito sul sistema dei beni culturali italiani portando incertezze e confusioni, è stato quello connesso alla riforma del titolo V, che ha introdotto due concetti: la possibilità di scindere tutela e gestione (conservazione e valorizzazione) e la necessità di prevedere un decentramento e una delega, alle Regioni, delle competenze relative alla gestione del patrimonio. Il dibattito, anche aspro, che ha seguito questo indirizzo è recentemente confluito prima nel Codice "Urbani" e poi nel Testo unico riformato, nel quale si è ribadita la necessità di una centralità statale delle attività di tutela. Quali sono le ragioni del contendere? In sintesi:

· l'istanza cogente di scaricare le strutture statali centrali di compiti che incidono direttamente sui processi di sviluppo e sulla morfologia dei territori, e degli oneri che tali compiti producono;

· la necessità di aggirare la burocratizzazione delle soprintendenze, percepita come eccessiva e non capace di relazionarsi alle istanze di governo locale dei territori e dei sistemi sociali;

a cui si oppongono:

· la necessità che il patrimonio della nazione venga tutelato e gestito con criteri omogenei su tutto il territorio e nei confronti di tutta la cittadinanza;

· il dubbio che la varietà di influenze a cui sono sottoposte le istituzioni locali possa determinare una lesione significativa dell'efficacia della tutela e soprattutto l'innesco di comportamenti drammaticamente disomogenei, con una perdita delle caratteristiche unitarie del patrimonio.

Cosa fare, cosa attendersi, dunque? Lo stato delle cose è questo: il mantenimento di un'autentica prospettiva centralizzata, che superi la prospettiva vincolistica nelle istanze di tutela è di fatto impedito dalla scissione delle attività di tutela da quelle di gestione del patrimonio, e anche dal decadimento oggettivo delle istituzioni storicamente preposte a questo scopo. L'evoluzione, significativa rispetto a solo un lustro fa, è che effettivamente ora le soprintendenze sono alle corde, come personale, come prestigio, e talvolta anche come capacità operative... ciò che il centro può fare, che lo Stato può fare, oggi, sul piano della tutela pare soprattutto un'azione meramente vincolistica, l'ombra di quanto è accaduto fino a un quindicennio fa.

È qualcosa. È di oggi, per esempio, la notizia della vendita dell'archivio di Vasari da parte del suo proprietario, in punto di morte, a un gruppo di acquirenti internazionali. A prescindere dalla poca chiarezza sulle dinamiche e sulle ragioni profonde di questo fatto e della straordinaria valutazione economica raggiunta (130 milioni), appare chiaro che questo atto non implica l'uscita del patrimonio dal Paese o la sua indisponibilità per gli studiosi solo per la presenza di rigide competenze vincolistiche in capo alla soprintendenza. Se l'archivio Vasari resta in Italia questo è dovuto alla rete vincolistica dello Stato. Se l'archivio Vasari è depositato in un armadio di una casa privata, ed è conservato grazie alla cura, ma anche agli inevitabili arbitri, di un privato cittadino, questo è dovuto ai limiti dell'azione pubblica. Del resto non si tratta certo di un caso isolato. Molte famiglie italiane hanno di fatto, per anni, vicariato lo Stato proprio in un'attività di tutela, decentrata, non riconosciuta, non appoggiata, gravante unicamente sulle loro economie. Basti pensare al patrimonio di ville e castelli italiani e alle difficoltà di rapporto tra chiunque abbia provato a gestirlo e gli enti pubblici preposti alla tutela... basti pensare al patrimonio che si è dissolto nelle tensioni provocate da queste frizioni.

È sufficiente questa impostazione? Per il momento è quanto c'è e, con ogni evidenza, è bene resti. Centralizzata e pubblica, operante sui territori. Si potrebbe poi discutere se essa possa durare nel tempo, nel caso, non improbabile, che non si riuscisse a porre rimedio alle troppe, storiche, lacune dell'impianto di intervento pubblico nel settore. In proposito, data la natura di questo contributo, mi limiterei a dare alcune semplici indicazioni di natura circostanziale ed ecologica:

· Sarebbe un errore e un'illusione immaginare che la funzione pubblica, politica, relativa alla tutela-gestione del patrimonio (quella che va oltre i vincoli), possa in qualche modo essere vicariata da privati. I privati che operano imprenditorialmente sui mercati delle industrie culturali non possono farsi carico di funzioni pubbliche in modo continuativo, a meno di non poter usufruire di forti posizioni di rendita, e comunque con grandi difficoltà negoziali e logiche (dovrebbero autolimitare i propri profitti per ragioni di bene comune). I regimi concessori, comunque possano essere intesi come global o limited services, non sono quindi idonei a questo scopo. Tale azione deve e dovrà essere svolta da istituzioni finanziate e partecipate dal pubblico, siano esse centrali o decentrate, regionali o locali, l'importante è che siano "buone", ovvero caratterizzate da adeguato livello di competenze e di autonomia. La valutazione del loro dimensionamento e della loro massa critica dipende ovviamente dai casi.

· Questo intervento non può limitarsi alla gestione di singole collezioni o plessi, ma deve trovare momenti di forte coordinamento territoriale e interagire con le politiche di sviluppo. Politica culturale e politica economica devono trovare aree di interconnessione, non perché la cultura sia funzionale all'economia, ma perché essa rappresenta un bisogno strutturale e il suo sviluppo un fine della crescita e della ricchezza. Ma una politica culturale di quest'ordine deve avere istituzioni in grado di reggerla. Queste istituzioni oggi non ci sono o non sanno di esserci.

· Esiste un oggettivo problema di forma istituzionale all'interno della molteplicità di assetti, tutti parzialmente insoddisfacenti, che ruotano attorno all'istituto della fondazione, soprattutto in vista di forme di collaborazione pubblico-privato.

· Paradossalmente sarebbe necessario smettere le sperimentazioni per avviare un autentico percorso di rifondazione. Approfitto indebitamente di questa occasione per proporre di mettere una moratoria a ogni esperimento e di avviare una presa di responsabilità riguardo alla gravità della questione. Questo, auspicabilmente, potrebbe implicare la rinuncia alle unilateralità inutili, in particolare quelle che hanno visto lo scontro tra posizioni economicistiche e "beniculturaliste", per orientare il dibattito attorno all'unica forma di unilateralità tollerabile, quella necessaria ad assumersi il compito storico di definire lo spazio e la rilevanza dell'arte come fatto simultaneamente politico, economico, civile, giuridico e umano. Ovvero: occorre almeno tentare di mettersi al livello dell'articolo 9 della Costituzione, per poter dialogare con esso e magari potenziarne gli effetti. Un compito che riguarda lo Stato, e in modo diverso i privati, un compito che speriamo non sia diluito dal decentramento regionale. Cose forse di altri tempi. Forse del futuro.

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