Rivista "IBC" XVII, 2009, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, itinerari

Due escursioni ai limiti della città, per riflettere sui paesaggi che abbiamo vicini.
Passeggiate suburbane

Piero Orlandi
[IBC]

Nell'area metropolitana bolognese, i paesaggi più misteriosamente carichi di potenzialità inespresse sono quelli al margine dell'edificato compatto, dove la città, venendo a toccare quel che resta della campagna, si sfrangia in una densità sempre minore e assume forme ibride. Vecchi casolari o ville un tempo circondati dai campi si alternano a piccole lottizzazioni, a parcheggi, ad aree artigianali o industriali ancora non dominanti. Sono paesaggi "molli", nel senso che possono ancora essere plasmati e la loro pianificazione consente una varietà di approcci insolita. Conservare si può, anche se non c'è traccia di storia con la esse maiuscola: monumenti non ce ne sono, resta qualcosa dell'antica viabilità, e un po' di ruderi agricoli. E al contrario, si può anche demolire, perché niente è troppo importante e niente troppo poco. Costruire il nuovo si può, e una volta tanto senza condizionamenti: perché ci si dovrebbe riferire a un contesto così debole e irrigidirlo fino a farne un vincolo per i nuovi progetti?

Percorrere questi luoghi è istruttivo e piacevole. Sono considerati residuali e periferici, ma guardandoli con più affettuosità si lasciano andare e scoprono i loro piccoli tesori: sono silenziosi, lontani dal traffico, pieni di ciclisti, ci sono bar e trattorie, negozi non di grido, e piccoli giardini privati, ma anche grandi spazi verdi pubblici. L'osservazione minuziosa di questi paesaggi suburbani fa venire in mente quel che scriveva Walker Evans in una lettera del febbraio 1934, elencando alcuni dei temi della survey photography: "architecture, american urban taste, commerce small scale, large scale, the city street atmosphere, the street smell, the hateful stuff, women's clubs, fake culture, bad education, religion in decay". Insomma: ogni cosa che stia intorno a un osservatore intenzionato a usare tutti i sensi, mente e memoria compresi, e a cercare i segnali dell'impoverimento di una cultura, della sua transizione, la morte di alcuni modelli e il successo di altri. Migliori? Peggiori?

Chi scrive desidera rivolgere i resoconti di due sue passeggiate suburbane al lettore, e in particolare a chi si occupa di fotografia e di architettura, per indurlo a farne oggetto anche delle loro riflessioni.


A Pian di Macina

Il posto in cui ho passato un sabato pomeriggio è un paese che credo possa piacere. Molti lo direbbero brutto, per le ragioni che si capiranno dalla descrizione che ne darò. Eppure non mi pare lo sia. Ha un bel nome, Pian di Macina, che contiene sia la rassicurante pianura prima di inerpicarsi verso la difficile montagna, sia l'alacrità generosa e necessaria del mulino, del pane, del mugnaio. Confesso che la partecipe condiscendenza con cui l'ho guardato può darsi si debba meno alle sue virtù che alla felice predisposizione dello sguardo di chi, com'ero io quel giorno, si ritrova quasi all'improvviso un'oretta da perdere, e non ha nulla da fare se non guardare cosa fa e come vive il prossimo.

Il centro è una piazza quasi quadrata, con quattro lati molto diversi. Quello orientale è fatto di un edificio a quattro piani con la facciata che fu gialla, oggi è slavata, quasi bianca. Ha tapparelle verdi alle finestre, le finestre sono regolari e tutte bene allineate, con quelle cornici di cemento che si usava fare con la geometrica banalità degli anni Cinquanta. Sotto ci sono un negozio di mosaici, una parrucchiera, due bar e un ristorante, o meglio una trattoria di provincia, tra le poche che possano conservare questo nome.

Sul lato sud, un paio di edifici di altezza diversa, due e tre piani, hanno un alimentari-tabaccheria al piano terreno e due garage con le saracinesche interamente occupate dalla scritta "Passo carraio", una scritta enorme. Questi garage stanno nell'edificio a destra guardando dal centro della piazza, edificio che ha un solo piano con due finestre che ora sono aperte ed esibiscono le loro tende bianche di pizzo raccolte sui due lati. A destra di questa facciata c'è un vuoto che prende l'altezza di due piani ed è coperto dal tetto: lo spazio è occupato solo da una scala senza facciata, aperta, che sale anche a un piano secondo di un edificio più arretrato, dipinto color latte. Questo strano vuoto, che richiama alla mente le scale esterne in legno di certi edifici trentini, funge anche da raccordo angolare con il fabbricato di un solo piano che fa da lato occidentale della piazza.

È il più bello: tre aperture fino a terra, di forma, larghezza e altezza diverse, due con piattabanda e una ad arco ribassato. Tutte chiuse da serrande con le doghe fuori squadro, una addirittura sfondata, probabilmente da un camion. Su una di queste, la scritta pubblicitaria "Mignini mangimi di razza". Due finestre hanno inferriate; da una vedo, all'interno, dei sacchi di mangime. Avvicinandomi, sento anche da fuori l'odore di granaglie. Nella facciata, gialla anche se molto scrostata, una nicchia ad arco è chiusa con una reticella fine fine. Al suo interno ci sono una madonnina e dei gigli rosa di plastica in un vaso. Al di sopra, la facciata è chiusa da una semplice linea orizzontale: sembra una costruzione coloniale, o anche meridionale, con un tetto piano. Spostandosi alle spalle dell'edificio, in un cortile, si capisce che dietro la facciatina principale si nasconde un tetto in coppi a una sola acqua, che dal culmine scende verso la grondaia posta sul retro.

Infine, sul lato settentrionale, la piazza è lambita dalla strada, che viene da ovest e piega a nord, passando attorno a un cedro che tocca la facciata di un brutto edificio giallo-ocra a due piani, forse una scuola, con un'anonima porta in ferro e vetro e le finestre quasi tutte chiuse da tapparelle marroni. Su un lato c'è una porticina con il cartello "Centro anfibi. Centro per la conservazione e il monitoraggio delle specie di anfibi rare e minacciate". Mi chiedo cosa ci sarà dentro. Un gracidare roco e minaccioso, forse.

Nella piazza ci stanno quattro cassonetti dei rifiuti, una cabina del telefono, tre pali di cartelli stradali, un'edicola per giornali proprio nel centro, una ventina di automobili, altrettante fioriere di cemento che delimitano il marciapiede del lato orientale, un rialzo circolare centrale con l'alto palo dell'illuminazione pubblica in alluminio, un gazebo in plastica a righe bianche e blu con i quattro pali di sostegno infilati in blocchi di cemento.

Se mi spingo sotto l'edificio a est, quello dei bar, e guardo verso ovest l'entrata della strada nel paese e a nord la sua uscita, noto quel che segue. La strada è visibile per un tratto di almeno trecento metri, rettilinea e con un dosso che la rende sinuosa, affascinante, finché scompare con una curva a sinistra. Al di sopra c'è una collina con campi, prati, boschi, senza un edificio visibile, alta non più di cinquanta metri. Per un lungo tratto, prima di arrivare al ponte sul fiume Savena, la strada è fiancheggiata, sulla sinistra, da un edificio molto stretto a due piani, con tetto a capanna a due falde. La fronte di questo edificio guarda la piazza da una posizione più arretrata di quella dell'edificio dei mangimi: è una facciatina incredibilmente esile, in America direbbero che è un flat building. Sotto, un garage. Sopra, un balcone con porta-finestra. Non è largo più di tre metri e mezzo, compresi i muri.

Nella parte che va a nord, la strada è meno interessante: ci sono alberi, una scala di sicurezza di ferro che serve la scuola. Verso sud, verso la Futa e Firenze, la strada costeggia, per una cinquantina di metri, degli edifici senza interesse particolare, poi scompare alla vista.

Cosa c'è di bello? La gente che guarda le macchine e le commenta, non avendo molto da fare. Il cartello della Trattoria Lambertini: "Domenica sera e lunedì chiuso. Orario cucina: pranzo 12-14.30. Cena 19-22".

La piazza dietro l'edificio dei mangimi è in realtà un cortile sterrato, o al più inghiaiato, e infatti nel cartello il nome è "Piazza dell'Aia". Pozzanghere, un bancomat e la filiale della Carisbo, la libreria, cartoleria e giocattoli "L'Isola del Tesoro", alcuni edifici antichi restaurati un po' alla carlona, come si dice a Bologna, senza arte né parte, direi senza gusto. Con una selva di camini prefabbricati, scuri alle finestre così perfetti che sembrano di plastica e un muro a scarpa lasciato religiosamente a vista, come i ninnoli nella credenza.

Questo luogo fa venire la voglia di esserci arrivati a piedi dalla collina, magari in un giorno di neve, e di buttarsi infreddoliti nella trattoria a mangiare e a bere lentamente. C'è un'acacia al centro dell'aia, una decina di auto parcheggiate in modo disordinato, vasi di forma diversa con piante diversissime, dagli oleandri alle rose. Odori di cucina molto bolognese: ragù, brodo. Il retro dell'edificio dei mangimi è composto di lamiera di varia grana, di eternit, ha tubi esposti e cavi elettrici in vista, muri molto sconnessi.

"Scusi, lei è un giornalista?", mi chiede uno con un gran sorriso che vuol mascherare l'aggressività che avrebbe manifestato se io non lo avessi smontato con un no secco.


Nel quartiere San Vitale

Se si vuole essere oggettivi, si tratta di nient'altro che di un negozietto di alimentari in periferia. Siamo sotto il "grattacielo" di San Vitale, un mito della Bologna anni Cinquanta. Il negozietto sta in un villino a due piani, credo dei primi del Novecento. Uno di quei bar-tabacchi con il banco bar in alluminio e un altro banco per le sigarette. Lì, invece delle sigarette, c'è la vendita di alimentari. E poi una porticina conduce in un'altra stanzuccia di tre metri per tre, dove mangia gente molto comune, con alle pareti una serie di calendari da meccanici, con le ragazze nude.

"Bologna (Alemanni) 13 via Scandellara". La targa stradale sta a fianco della porta di ingresso di un villino a due piani, con facciata in parte intonacata e in parte a mattoni a vista. Di fronte ci sono delle scuole in mattoni con larghe e belle finestre dagli infissi metallici bianchi, su cui spiccano tende blu scuro, un accostamento insolito ed elegante. Il piazzale di ingresso è stato risistemato recentemente e ora è un grande parcheggio con una fermata dell'autobus e la scritta "55 Scuole Scandellara". Intorno alle scuole c'è un grande giardino recintato. Il luogo è dunque molto urbano, ma la presenza dei giardini della scuola, che si allargano in un grande parco pubblico con pioppi alti almeno venticinque metri, e l'edilizia di tutta la zona (villini con grandi aree verdi, orti, alberi di alto fusto, recinzioni di vario tipo, campi, baracche e garage) danno anche un sapore rurale, un'immagine mista fra la periferia e la frazione di un paese.

La palazzina al numero 13 è a due terzi dello sviluppo della via, se si viene con le spalle al centro della città. Camminando in questa direzione, sullo sfondo della palazzina svetta il grattacielo di San Vitale, di cui vedo 12 dei circa 20 piani. A fianco dell'ingresso con il numero 13, rialzato di qualche scalino, c'è un altro ingresso, con una vetrina più larga di una comune porta, che dà su uno spazio quadrato, la stanza che contiene il piccolo banco bar, il banco di salumeria e generi alimentari, alcune altre scansie, armadi, e un freezer per i gelati confezionati. Attraverso una porticina si accede di qui a un'altra piccola stanza quadrata, una saletta da pranzo con quattro tavoli; e per un'altra apertura si va dalla stanza principale in cucina. In questa trattoria, che non ha un nome, non ha un'insegna, ma ha l'autorevolezza che le proviene da un'esistenza quieta, consapevole e quotidianamente vissuta, vengo a pranzo quasi tutti i venerdì con un amico.

Percorrendo a piedi la strada verso la città, ecco cosa si vede. I ragazzi giocano nel giardino della scuola durante la pausa-pranzo. Giocano a palla: la porta è tra due alberi, lo spazio ristretto li costringe a una specie di pallamano, maschi e femmine giocano insieme, avranno tredici o quattordici anni; la palla non rimbalza, e infatti, quando mi chiedono di raccoglierla da terra e di rispedirla al di là del recinto, mi accorgo che fa parte della vasta e onorata schiera delle palle di carta e nastro adesivo, variante speditiva delle artigianali palle di stracci, carta e calze da donna che fabbricavamo da bambini per giocare scalzi nel corridoio di casa.

La strada è molto varia: ai suoi bordi si susseguono, senza ritmi precisi o comprensibili, spazi aperti e chiusi, marciapiedi e banchine non transitabili, campi e ville, case rurali e scuole materne, trattorie e cantieri edili, edifici in costruzione e vecchie case, alcune con caratteri architettonici di grande interesse. L'immagine più struggente, in questi giorni di inizio primavera, la si coglie in uno spazio verde che fronteggia un lungo edificio di mattoni a due piani, che da quel lato ha una porticina e cinque finestre chiuse, nonché quattro aperture a mezza luna che denotano la sua natura di stalla. Ebbene, tra l'edificio e la recinzione in rete metallica c'è un filare di alberi da frutto in fiore, sette alberelli potati a palmetta, all'antica, ossia con i rami che si aprono solo in due direzioni, per costruire una spalliera di frutta.

È un'immagine antica, antichissima, lungo una strada percorsa da passanti e mezzi di oggi. E poi, poco più avanti, c'è l'Africa. Proprio l'Africa: una strada sterrata e polverosa porta a una lunga serie di cancelli di tutte le fogge, dietro i quali stanno cortili pieni di cataste di oggetti e materiali, capanne, orti, sfasciacarrozze. Sembra di essere in Senegal o in Eritrea; dico così perché questa è l'Africa che conosco, e non c'è differenza con questo angolo di periferia bolognese: polvere, silenzio, molto disordine, una vegetazione spontanea e lussureggiante. E qualche auto usatissima, parcheggiata di sghimbescio.

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