Rivista "IBC" XVII, 2009, 3

musei e beni culturali / inchieste e interviste, pubblicazioni, storie e personaggi

Migliaia di siti devastati. Milioni di reperti persi per sempre. Un giro d'affari che si misura in miliardi di euro e coinvolge musei di tutto il mondo. Fabio Isman racconta trent'anni di saccheggio archeologico.
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Vittorio Ferorelli
[IBC]

Lo avevamo incrociato nella primavera del 2008, sulla scalinata del Quirinale. Usciva dalla mostra dei capolavori archeologici restituiti dai musei americani per "incauto acquisto", proprio mentre noi redattori di "IBC" stavamo per entrare. "Non crederete ai vostri occhi" aveva detto. E, una volta dentro, capimmo cosa intendeva... Fabio Isman, inviato speciale e commentatore del "Messaggero", a lungo titolare della Pagina nera di "Art e Dossier", è forse l'unico giornalista italiano, oggi, a registrare con costanza le vicende del nostro patrimonio culturale. Di sicuro, dal 2005, è l'unico a seguire in aula il processo contro Marion True, curatrice del Getty Museum di Malibu, e i commercianti d'arte Robert Hecht e Giacomo Medici. Quando Medici è stato condannato in secondo grado per traffico di reperti rubati (8 anni di reclusione, 10 milioni di euro di risarcimento allo Stato, confisca dei beni sequestrati), il "Messaggero", grazie a lui, è stato il solo giornale italiano a darne notizia.

Il libro che nel 2009 ha dato alle stampe con l'editore Skira (I predatori dell'arte perduta. Il saccheggio dell'archeologia italiana) nasce dalla stessa amara consapevolezza: la sorte del nostro patrimonio, ormai, non fa più notizia. Per reagire a un disinteresse che troppo spesso, suo malgrado, gli concede il privilegio dell'esclusiva, Isman si è detto che quella storia, una buona volta, qualcuno doveva raccontarla. La sua inchiesta è già stata accolta con stupore al Festival del mondo antico di Rimini e al Museo archeologico nazionale di Ferrara, la città che lo ha candidato al Premio Estense e dove questa intervista ha avuto luogo. Il prossimo novembre il volume sarà presentato anche al Museo civico archeologico di Bologna: nel corso dell'incontro, promosso dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna e dalla sua rivista "IBC", l'autore avrà al suo fianco il generale Giovanni Nistri, da due anni comandante dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale.


Il suo libro, Isman, ricostruisce, come altrettanti capitoli di un noir, molti episodi che descrivono i metodi e gli affari illeciti della "Predatori SpA". Chi sono i protagonisti di questa "associazione a delinquere"?

I nomi sono tanti, ma i personaggi chiave sono sempre gli stessi, proprio come nell'organigramma di una società per azioni. Ugo Zottin, il generale che ha preceduto Nistri al Comando dei Carabinieri, ha parlato di una vera e propria piramide. Alla base c'è l'esercito dei tombaroli, la manovalanza: centinaia di persone che scavano di frodo, in fretta e furia. Rimangono per lo più nell'ombra, a meno di non incappare in ritrovamenti clamorosi. Come è successo a Pietro Casasanta, che per il "Wall Street Journal" è il loro "re": è lui che ha strappato dalla terra il Volto d'avorio e la Triade capitolina, due reperti unici al mondo, oggi recuperati. Poi c'è il manipolo dei mediatori e dei trasportatori, quelli che organizzano l'espatrio dei pezzi, che arrivano quindi nei depositi dei grandi ricettatori.

A muovere i fili, qui, sono in pochi: Giacomo Medici, Gianfranco Becchina, Antonio Savoca. È a questo livello che i reperti, ancora sporchi di terra, vengono "ripuliti". Li si affida alle mani di sapienti restauratori (tra i più richiesti c'erano Fritz e Harry Bürki), li si lascia in quarantena per un po' e poi li si passa "in lavatrice". Basta inventarsi un finto collezionista, venderli a una grande casa d'aste, per comprarli subito dopo con un nuovo pedigree, e il lavaggio è fatto. È solo a questo punto che entrano in scena i mercanti d'arte ufficiali, i professionisti dalla facciata rispettabile, raffinati connoisseurs come Robert Hecht o Robin Symes. Et voilà: dalle loro mani "pulite" arrivano a quelle del tutto "immacolate" di chi dirige grandi musei.


Quali sono i musei più compromessi, e quanto è andato perso, fino a oggi, del nostro patrimonio?

I numeri parlano chiaro, anche se in parte si tratta di stime. Se in quarant'anni i reperti recuperati dai Carabinieri sono circa ottocentomila, quelli persi per sempre devono essere milioni. I siti devastati sono migliaia. Su 10 oggetti etruschi o romani presenti sul mercato, 8 sono di provenienza illecita. Il giro di affari annuale si misura in miliardi di euro e coinvolge musei di tutto il mondo. In America: il Jean Paul Getty di Malibu, il Metropolitan di New York, il Museum of Fine Arts di Boston e molti altri (persino universitari). In Giappone: il Museo della cultura antica di Tokyo, il Miho di Shigaraki-no-Sato. Ma anche in Europa ci sono casi che riguardano musei apparentemente insospettabili: molti dei principali istituti della Svizzera e soprattutto la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.


Dopo aver restituito il maltolto, alcuni responsabili di grandi musei internazionali hanno obiettato che, al loro confronto, nessun museo italiano può garantire la stessa visibilità...

Se vale proprio la pena di rispondere, la prima cosa da dire è che, sì, un reperto può anche tornare, ma il suo contesto di origine è perduto per sempre, nessuno può più restituirlo. Inoltre i musei che hanno trafficato in reperti rubati ne hanno resa solo una piccola parte. Si pensi al Getty: nel 2010 riconsegnerà all'Italia la cosiddetta Afrodite di Morgantina, una gigantesca statua di marmo e calcare della fine del V secolo avanti Cristo, ma per ogni pezzo restituito ne conserva ancora almeno sette. Si pensi al Metropolitan: è vero, dopo i rifiuti sdegnosi degli anni scorsi ha finalmente riconsegnato il Cratere di Eufronio,2 però si tiene stretta almeno metà degli oggetti che reclamiamo, così come fanno i musei di Cleveland, Princeton e Boston. E poi, se l'unico criterio valido fosse quello della massima visibilità possibile, tanto varrebbe mettere tutta l'archeologia italiana in piazza San Pietro, o addirittura al Louvre. Chi dice queste cose non sa che l'unicità del patrimonio italiano sta nella sua diffusione. Forse non abbiamo un megamuseo nazionale, ma in compenso ce ne sono tanti, e tutti legati strettamente al territorio.


Il suo "romanzo criminale" copre un arco di oltre trent'anni, dal 1970 ai primi del Duemila. Ma la vera lotta contro i predatori del sottosuolo inizia solo nel 1995. Come mai così tardi?

Non è che prima di allora non si sia concluso nulla. Il Comando dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale è nato nel 1969 e in questo campo ha fatto scuola nel mondo. La sua forza investigativa è cresciuta nel tempo, insieme all'organico, che, dalla quindicina di uomini degli inizi, oggi ne conta circa trecento. È dal punto di vista giudiziario che il Paese non è stato pronto ad affrontare un fenomeno come questo, che avendo spesso i suoi terminali all'estero, e coinvolgendo quindi legislazioni nazionali molto diverse tra loro, è particolarmente complesso. Per troppo tempo le indagini degli investigatori si sono arenate nelle stanze delle varie procure locali, o si sono arrestate ai confini di altre nazioni. Finché il generale Roberto Conforti, a capo del Comando, non ha chiesto e ottenuto la costituzione di un pool di magistrati specializzati nel furto archeologico.

Era il 1995, appunto, ed era un po' come partire dall'anno zero. Uno dei magistrati più anziani del pool, il sostituto procuratore di Roma Paolo Giorgio Ferri, ricorda ancora le enormi difficoltà delle prime rogatorie. Per stilarne una gli occorrevano cinque giorni, e poi una richiesta su due veniva respinta dal giudice delle indagini preliminari. Oggi per una rogatoria gli occorrono cinque ore e, grazie ai precedenti accumulati, è molto più difficile che le sue richieste di indagine vengano respinte. Delle più di diecimila persone inquisite in questi anni, almeno un quarto è passato dalla sua stanza. Oltre a ricostruire il modus operandi dei predatori, il suo lavoro ha creato un formidabile database che tiene traccia di quasi centomila opere fuggite.


Ma il '95 è un anno fondamentale anche sul versante delle indagini: è allora che viene scoperto il primo grande deposito segreto, quello di Medici. Come ha inizio la storia?

In una villa del Circeo vengono rubati un sarcofago e due capitelli romani. La proprietaria si rivolge ai Carabinieri, che in poco tempo rintracciano i pezzi a Londra, nel catalogo di Sotheby's. Provengono dalla Editions Services, una delle società di comodo dietro cui si nasconde l'attività di Medici. Il pubblico ministero di Latina, Riccardo Audino, ottiene da un collega svizzero il permesso di perquisire il deposito della società nel porto franco di Ginevra. E lì, la sorpresa! "È la grotta di Alì Babà", disse uno dei carabinieri presenti. L'archeologa Gilda Bartoloni, incaricata tra gli altri della perizia, racconta che dopo il primo voltastomaco l'entità di quella raccolta le evocò quelle dei più grandi musei italiani: l'Archeologico di Firenze, Villa Giulia a Roma. Vasi greci ed etruschi, ceramiche apule e lucane, cassette di frutta piene zeppe di pezzi provenienti dall'Italia centrale: tremila reperti in attesa di smercio e centinaia di fotografie di oggetti appena scavati, già tornati alla luce nei musei, o nascosti ancora chissà dove. In una sala a parte, tre intere pareti di affreschi pompeiani, staccati senza troppi scrupoli da qualche villa sepolta, forse nella zona di Boscoreale. Per trattare meglio gli affari, le visite all'elegante show-room di Medici si concludevano con un aperitivo, coi gomiti sul tavolo di cristallo che sormontava un enorme capitello. Naturalmente rubato.

Quando il fascicolo, per competenza, passa a Ferri, le indagini sui predatori fanno un salto in avanti decisivo. È come se in un puzzle qualcuno tirasse fuori un gran numero di tessere che prima mancavano: i pezzi cominciano a combaciare. La banca dati degli oggetti rubati si arricchisce di nuove schede. La provenienza dubbia di molti oggetti museali viene provata dalle polaroid scattate dagli stessi scavatori per "certificarne" l'autenticità (e sì, perché in mancanza di giornale di scavo tocca pure arrangiarsi!). Si scoprono così, uno alla volta, gli anelli di quell'unica catena che unisce l'ignoto tombarolo di provincia al direttore del grande museo.


Lei sostiene che in Italia il furto archeologico è un buon affare: sfrutta la ricchezza del passato, non ha quasi nessuna spesa fissa e ne richiede poche per l'avviamento. Basta qualche "collaboratore a progetto" e si parte. È davvero così facile fare soldi scavando per terra?

Sicuramente più facile che mettendosi a spacciare droga. Innanzitutto si rischia molto meno. I reperti trafugati viaggiano tranquillamente da soli, senza bisogno di corrieri e senza attirare l'attenzione dei cani. Il tombarolo colto sul fatto non si attira l'odio sociale che circonda il pusher, è pur sempre considerato una specie di Indiana Jones della domenica. Se proprio gli va male, può essere accusato di scavo clandestino: sai che paura? Nessuna possibilità di processo per direttissima. Pena massima tre anni (attenuanti a parte). Neanche un giorno in carcere. E poi, visti i tempi della giustizia, concrete possibilità di vedersi prescritto il reato.

Senza contare che il crimine archeologico, in proporzione, rende molto più del narcotraffico. Mentre il prezzo della cocaina al dettaglio è sceso ai minimi storici, quello delle antichità è lievitato a dismisura. L'Afrodite di Morgantina ha fruttato quattrocentomila dollari a chi l'ha scavata, ma già un milione e mezzo a chi l'ha fatta uscire dalla Sicilia dopo averla impunemente segata in due. Per non parlare del mercante inglese che l'ha ceduta al Getty: senza neanche la fatica di lavorare nel fango o di segare il marmo, Robin Symes ha intascato ben diciotto milioni di dollari, la cifra più alta mai sborsata per un'antichità.


La sua ricostruzione dei casi più clamorosi dimostra quanto siano utili, anche in questo tipo di indagini, le intercettazioni. C'è speranza che le recenti disposizioni del governo Berlusconi ne ammettano ancora l'uso?

In effetti gran parte di quello che ho scritto, e quindi gran parte del lavoro degli inquirenti, deriva dalle intercettazioni. Perché in questo settore criminale il livello di omertà è altissimo. A suo tempo qualcuno ha pagato questo silenzio fior di quattrini, e del resto l'intera filiera si basa sulla forza di persuasione dei soldi. Risultato: ci sono mafiosi che collaborano, camorristi che "cantano", ma è rarissimo il caso di tombaroli pentiti. Per questo le intercettazioni sono fondamentali. Senza intercettazioni, l'Italia non avrebbe mai più rivisto centinaia di pezzi preziosi e capolavori assoluti come il Volto di avorio o la Triade capitolina. Se il problema sono i costi, basterebbe suggerire che il valore venale di questi pezzi supera di anni luce il costo delle bollette telefoniche. Purtroppo, visto che il livello delle pene previste per questo tipo di reati è troppo basso, le intercettazioni sembrano escluse dalle nuove regole. A meno che le indagini non intersechino le attività di mafia e camorra. Cosa peraltro non rara.


A proposito di regole: viste le dimensioni e le dinamiche della rapina compiuta negli ultimi trent'anni, c'è qualcosa da cambiare nelle norme italiane sulla tutela?

Credo proprio di sì. Le pene, come dicevo, sono troppo lievi per impensierire sul serio i malintenzionati. Ma soprattutto, per come è configurato il reato di ricettazione di beni culturali, gran parte dei processi può finire in fumo, a cominciare da quello che coinvolge Giacomo Medici. Si dovrebbe poter accusare di ricettazione anche l'ultimo proprietario (se non dimostra la propria buona fede) e dunque conteggiare da lì i termini per la prescrizione, altrimenti è molto difficile che qualcuno sia condannato. Perché è evidente che già solo stabilire il momento esatto in cui un oggetto archeologico sia stato scavato in modo abusivo è quasi impossibile. In più, in questi casi, il reato si viene a scoprire anche molto tempo dopo essere stato commesso, cioè solo quando l'oggetto viene messo in mostra. Prima di allora, di quell'oggetto, non se ne immagina neanche l'esistenza.

Ora, visti i tempi assai ridotti dopo cui simili reati diventano non più punibili, il ricettatore, per stare tranquillo, deve solo tenere in quarantena, quanto basta, gli oggetti trafugati. Come faceva Gianfranco Becchina: in uno dei suoi depositi gli oggetti erano accuratamente divisi per annate, in modo da essere smerciati solo dopo i cinque anni stabiliti dal codice... Un disegno di legge del governo Prodi cercava di rimediare, ma poi non se n'è fatto niente e non mi pare che il nuovo governo sia intenzionato a riprenderlo. Così com'è accaduto per un'altra norma che era allo studio, magari meno clamorosa ma progettata con lo stesso spirito: rendere più difficile la vita dei trafficanti. È una misura che scoraggerebbe i cosiddetti "detectoristi", quelli che se ne vanno in giro per i campi con un metal detector. Farlo in Francia, per esempio, senza uno specifico permesso, è vietato; in Italia, invece, si può stare tranquilli. E di questa tranquillità i primi ad approfittare sono i tombaroli.


La "Grande Razzia" è davvero finita con il processo Medici, e le restituzioni dei musei americani, o dobbiamo aspettarci nuove puntate nei prossimi anni?

Di tutte queste vicende, in realtà, conosciamo ancora soltanto pochi frammenti. In Svizzera, per esempio, esistono ancora molti depositi di "arte rubata": alcuni di questi gli inquirenti li hanno già scoperti, e li stanno studiando, ma a tanti altri danno ancora la caccia. Per certi aspetti, comunque, quella stagione sembra conclusa. Secondo alcuni osservatori, dal sistema a piramide, di cui erano beneficiari ricchi collezionisti e grandi musei, si passerà a un traffico molto più banale, ma anche molto più diffuso, quello dei "cocci e coccetti" da mettersi in salotto. Non che la cosa sia meno preoccupante, soprattutto se si pensa ai tagli micidiali già inferti all'amministrazione dei beni culturali, e a quelli che si annunciano ora. Se nell'ultimo trentennio l'Italia è stata il paradiso dei trafficanti di archeologia, è anche perché nello stesso periodo il nostro apparato di tutela è stato indebolito. Tra qualche anno potrebbe essere cancellato del tutto. E allora, chi si opporrà ai predatori?


La storia dell'arte perduta, insomma, è solo all'inizio. Durante l'intervista, Fabio Isman riceve una telefonata: è Gianfranco Becchina, l'uomo che nella sua inchiesta è definito "il re degli scavi clandestini nel Sud e nelle Isole". Vuole uscire allo scoperto. Ha intenzione di farsi intervistare, ma parlerà solo con lui. Anche questo, in fondo, fa parte dei privilegi dell'esclusiva. Intanto, sul "Messaggero", le colonne sono già pronte. Il giornalista riprenderà il suo racconto. Sempre che a qualcuno ancora interessi.


Note

(1) "Nostoi. Capolavori ritrovati", Roma, Palazzo del Quirinale, 21 dicembre 2007 - 30 marzo 2008 (catalogo: Nostoi. Capolavori ritrovati, a cura di L. Godart e S. De Caro, Roma, Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, 2007); si veda in proposito: S. De Caro, M. P. Guermandi, La bellezza restituita, "IBC", XVI, 2008, 1 (Numero speciale 1978-2008), pp. 54-56.

(2) Sulla vicenda del Cratere di Eufronio si veda anche l'intervista a Oscar White Muscarella, l'archeologo in servizio al Metropolitan Museum of Art di New York: F. Di Valerio, E Pandora sta a guardare, "IBC", XV, 2007, 2, pp. 34-36.

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