Rivista "IBC" XII, 2004, 2

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne

Inquieto, ingegnoso, affabulatore, e attivissimo: è il ritratto del Seicento artistico romagnolo disegnato dalle due grandi mostre di Cesena e di Rimini.
Romagna barocca

Elisabetta Landi
[IBC]

Irrequieto, nostalgico, contraddittorio. Ma creativo e tutt'altro che isolato. Così fu, in Romagna, il secolo barocco. Lo raccontano due grandi mostre, "Storie Barocche. Da Guercino a Serra e Savolini nella Romagna del Seicento" e "Seicento inquieto. Arte e cultura a Rimini fra Cagnacci e Guercino" allestite rispettivamente a Cesena (dal 28 febbraio) e a Rimini (dal 27 marzo) fino al 27 giugno 2004. Di scena l'arte e la cultura di queste province legatizie, trattenute a stento dalle strategie pontificie entro i confini angusti di una periferia apparentemente tranquilla alla quale il mondo laico, degli intellettuali e dei pittori, non accettò di rassegnarsi. Tanto da rispondere con un'immagine personalissima ai centri collegati: Roma, le Marche, la Toscana, il Veneto e, dall'aprirsi del XVI secolo, sempre di più Bologna, la seconda capitale. Senza contare l'arrivo di opere "foreste" e il passaggio di nomi prestigiosi.

Non si spiegherebbe altrimenti, ancora alla metà del Settecento, l'innesto della grande pittura napoletana, introdotta a Cesena dal molfettano Giaquinto, nel duomo e nella chiesa del Suffragio, con brani da lasciare senza fiato. Complice, nel caso, la trama delle relazioni intessute in questa parte della costa adriatica, che fu per tradizione un crocevia ed un polo di attrazione culturale. E soprattutto nel Seicento, anche se in Romagna, come altrove, non mancavano di farsi sentire le conseguenze dell'asservimento del Paese agli interessi delle case regnanti. Eppure, nonostante l'inevitabile marginalizzazione e la minaccia di un inaridimento progressivo, aggravato dagli effetti del terremoto del 1672, la situazione risulta tutt'altro che stagnante. Dietro l'apparenza di una vita cittadina sonnacchiosa, gli sforzi indeboliti dell'aristocrazia in declino conservavano pur sempre il ricordo del mecenatismo malatestiano, rispondendo alla forte concorrenza dei governatori pontifici e degli ordini religiosi e garantendo, in questo modo, il dinamismo della vita artistica romagnola.

Inseparabile da quella intellettuale. Basti pensare alla nascita, nel 1614, della Gambalunghiana di Rimini, una delle biblioteche pubbliche laiche più antiche d'Europa. Del resto dalla Romagna si infittivano le corrispondenze degli studiosi con le istituzioni europee e non veniva sottovaluta la portata innovatrice di Galilei, Naudet, Ignazio di Loyola. Fiorivano riflessioni sulla storia locale - esemplare per il recupero dell'identità di Rimini quella del Clementini, data alle stampe entro il 1627 - mentre nelle accademie si tessevano simbologie che si intrecciavano all'iconografia visionaria della controriforma. Un registro, per la varietà delle immagini, del rinnovamento sociale e religioso. È nelle pale d'altare come nei dipinti di più piccolo formato che si apprezza il carattere di una civiltà figurativa defilata dai cantieri del barocco, il più enfatico e trionfante, ma che ha lasciato comunque un'eredità di capolavori della quale mancava prima d'ora una mappa artistica aggiornata.

Ne traccia il percorso per il territorio cesenate la mostra "Storie Barocche" (www.malatestiana.it/sezioni/mostre), che insieme alla manifestazione riminese svolge una panoramica sulla pittura romagnola del Seicento a mezzo secolo di distanza dalla prima ricognizione di Francesco Arcangeli. Sono un centinaio le opere proposte, allineate nelle sale della Biblioteca Malatestiana e nel settecentesco Palazzo Romagnoli, riaperto al pubblico per l'occasione. Con l'integrazione di alcune importanti edifici religiosi: la Cattedrale, la chiesa dei Servi e soprattutto San Domenico, un vero e proprio pantheon della cultura artistica locale, dov'è possibile ammirare altri capolavori collegati alla mostra per rappresentatività di stile. Un'esposizione diffusa in un itinerario, dunque, per ricostruire quella complessa civiltà d'arte e di cultura. Come negli auspici degli enti promotori: il Comune di Cesena, l'Istituzione Biblioteca Malatestiana e la Fondazione della Cassa di risparmio, sostenuti dal patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali, della Regione Emilia-Romagna con l'Istituto per i beni culturali e la Soprintendenza per i beni librari e documentari, insieme alle Soprintendenze per il patrimonio storico artistico e demoetnoantropologico, per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna, e per i beni architettonici e il paesaggio di Ravenna.

Tre le sezioni progettate dal comitato scientifico composto da Andrea Emiliani, Marina Cellini, Biagio Dradi Maraldi e Daniela Savoia, con l'appoggio di un comitato d'onore costituito da Jadranka Bentini, Rosaria Campioni, Giordano Conti, Anna Maria Iannucci, Luigi Malnati ed Ezio Raimondi. La prima, dedicata agli influssi della pittura del Seicento sull'area romagnola, si intitola Le presenze e i modelli proposti agli Artisti cesenati, protagonisti del settore successivo. Segue una rassegna di Tessere del Barocco, ovvero spunti di riflessione sulla civiltà artistica e materiale illustrata dai trattati a stampa: dalle immagini della città alla panoramica sulla vita intellettuale di quel secolo tra editori, accademici, letterati, scienziati e musicisti, con un'attenzione particolare per il collezionismo librario e un'appendice sulla produzione ceramica romagnola e cesenate. Sezioni illustrate dal catalogo dell'esposizione, a cura di Marina Cellini, con l'introduzione di Andrea Emiliani e il contributo di studiosi e di esperti di settore che hanno indagato la composita vicenda artistica della regione.1

Terra di passaggio fu, in effetti, la Romagna: qui convergevano numerose opere e si incontravano le culture. Come accade nei territori che si affacciano sul mare. Molti, per questo, gli ingredienti dell'esperienza figurativa da Ravenna a San Marino: sostanzialmente policentrica ed influenzata da modelli pittorici d'importazione. Almeno fino alla prima metà del Seicento, quando appaiono predominanti modelli pittorici d'importazione. Domina, ben radicata già dalla fine del XVI secolo, la maniera marchigiana, rappresentata da alcune pale di Federico Zuccari. Opere oggi conservate in altre sedi, ma che lasciarono un'impronta profonda sui romagnoli. Senza trascurare i transiti di quadri importanti sulle strade di Cesena - da Roma, la pala del Rosario del cavalier d'Arpino per la chiesa cesenate di San Domenico - e i rientri delle maestranze romagnole dal CentroItalia, come nel caso di Ferraù Fenzoni. Con l'aggiunta di arrivi dal Veneto e dalla Lombardia, in primis Monsù Bernardo, danese allievo di Rembrandt fattosi "romano"; quindi Paolo Piazza, Ottino e Saraceni, autore del San Carlo Borromeo nella chiesa dei Servi (1676). Poi, dalla vicina Toscana, Passignano, Santi di Tito, il Pomarancio e Cigoli, artista granducale i cui lavori per l'ordine domenicano di Cesena ebbero conseguenze rilevantissime sulla produzione locale. Scorreva, lungo la via Flaminia e attraverso gli Appennini, una cultura "forestiera", controriformata e di maniera, recepita, tra gli altri, dai forlivesi Modigliani: raffinatissima la tela di Gianfrancesco per San Domenico.

Poi, fino agli anni Quaranta, per dirla con Arcangeli "la scena cesenate sembra vuotarsi" e portare a esaurimento la prolungata stagione manierista, perché "troppo grave" era "lo sbalzo tra il vecchio costume artistico e i modi, strepitosamente barocchi, del nuovo secolo". Penseranno a colmare questo divario Orazio Gentileschi e lo Spadarino, lasciando una testimonianza strepitosa di un "caravaggismo in chiaro" nelle vicine Ancona e Fabriano intorno al secondo decennio del Seicento. Una rivelazione, per i romagnoli, e soprattutto per i cesenati che di qui, da queste opere sontuose, metteranno a punto un linguaggio capace di risvegliare finalmente la pittura romagnola, assopita su modelli ripetitivi, risollevando la regione dal ruolo di territorio da colonizzare.

L'impresa riesce grazie anche al confronto con Bologna, l'altro referente importantissimo per motivazioni artistiche, oltre che politiche e religiose. Bologna, a quelle date, voleva dire classicismo e classicismo significava Reni, del quale stavano arrivando in Romagna opere eloquenti. Quindi Albani, Domenichino, Gessi, Massari e Cantarini "il Pesarese". Ma, poco dopo, Bologna fu Guercino. E non è un caso che le due mostre, di Rimini e Cesena, portino nel sottotitolo il nome del centese. Un esempio autorevole da imitare, prima dell'infeudazione quasi esclusiva della Romagna da parte del bolognese Cignani, nell'ultimo quarto del Seicento.

Dall'aprirsi del quinto decennio si infittiscono, in Romagna, le committenze al Guercino. Dagli ordini religiosi, come nel caso dei cappuccini di Cesena e di Forlì, che gli richiesero rispettivamente il San Francesco che riceve le stimmate (Cesena, Pinacoteca comunale) e il San Giovanni Battista (Forlì, Pinacoteca comunale). Ma anche dagli aristocratici: ad esempio il San Girolamo (Rimini, Museo della città), voluto dal padre teatino Tommaso principe di Carpegna per l'oratorio riminese dedicato al santo, o la Santa Margherita, ora ai Musei Vaticani: una rivelazione, per il giovane Savolini. Merito del conte Alessandro Martinelli di Cesena, che ne fece dono ai minori conventuali. Non poteva, ai cesenati, sfuggire la portata di questo linguaggio. E non soltanto a Savolini, ma anche al suo maestro, Cristoforo Serra, a Giovan Battista Razzani e, soprattutto, a Cagnacci. L'ala aggiornata della pittura romagnola.

È sulle rive del Savio che si precisa l'identità specifica, la più seducente, della cultura artistica locale. Grazie, soprattutto, al santarcangiolese Guido Cagnacci (1601-1663), la cui pittura servirà di esempio a tutti i cesenati come una sintesi potente del Seicento europeo. A partire da Guercino. Presso il Barbieri, infatti, Guido risiedette a Roma nel 1622, nel quartiere di San Lorenzo in Lucina, frequentato dai caravaggeschi: Honthorst, Ter Brugghen, Vouet. Un'occasione per approfittare di questi formidabili contatti, mettendo a punto, dopo un orientamento bolognese e in special modo reniano, una pittura veramente internazionale e senza paragoni nella nostra regione. Da protagonista europeo. Tanto che terminò la sua carriera alla corte imperiale di Leopoldo d'Asburgo, trasferendosi a Vienna dopo un soggiorno a Venezia (1650-1659).

Non c'è dubbio che la sua autonomia di artista sentimentale e spregiudicato lo rendesse particolarmente richiesto per una pittura profana, gradita al versante laico della committenza, come testimoniano le sue languide e sensuali Cleopatre. È nelle opere dove la sperimentazione di Guercino e Cantarini si fonde alla pittura di Veermer che l'artista raggiunge risultati sorprendenti. Come testimoniano i capolavori presentati alle due esposizioni, che insieme costituiscono quasi un'antologica sul santarcangiolese, a poco più di dieci anni dalla mostra monografica del 1993.

Nel caso di Cesena, la celeberrima Allegoria della Vanità e della penitenza e il Sant'Andrea Apostolo, tra le perle della Galleria dei dipinti antichi della Cassa di risparmio, cui si aggiungono due ritratti da collezioni private, Ragazzo e San Bernardino da Siena. Opere di modernità straordinaria, dipinte nel genere delle "teste di carattere" introdotto in Romagna da Monsù Bernardo, autore della Santa Caterina della Pinacoteca comunale di Cesena: una tela di piccolo formato che si potrebbe intitolare Fanciulla che legge, benché di soggetto sacro. Del resto, in Romagna circolavano le sperimentazioni pittoriche più ardite e lo si comprende molto bene visitando la sezione della mostra riminese dedicata a Cagnacci.

È soprattutto a Castel Sismondo che figurano gli esempi del naturalismo forte del maestro, declinato con preziosità epidermiche di matrice nordica. Si comincia col lume notturno del Sant'Antonio Abate del Museo della Città, quasi un dipinto spagnolo, per passare alla luce radente da teatrino improvvisato della pala per San Giovanni Battista (Madonna col Bambino, Sant'Andrea Corsini, santa Teresa d'Avila e Santa Maria Maddalena de' Pazzi), dipinta intorno al 1630. Poi è la volta della celeberrima Vocazione di San Matteo (Rimini, Museo civico), del San Sisto della parrocchiale di Saludecio, del San Giuseppe con Sant'Eligio e Gesù Bambino della collegiata di Santarcangelo, della Madonna col Bambino già Sacrati Strozzi, ora alla Pinacoteca nazionale di Ferrara e di altri capolavori che testimoniano dell'ala più raffinata della pittura di ispirazione romana e classicista, da ricordare Vouet: dalla Madonna della rosa (collezione privata) al Ritratto di giovane frate e al Davide e Golia (Columbia Museum of Art).

Un patrimonio di idee e di suggestioni, consegnato dal santarcangiolese ai pittori cesenati. Prima di tutto a Cristoforo Serra (Cesena, 1600-1689), l'altro protagonista, geniale, del Seicento romagnolo. "Gentiluomo dilettante di pittura" e capitano delle truppe pontificie, fu impegnato nella difesa del porto di Cesenatico. Questo non gli impedì di esprimersi come artista, grandissimo, e di abitare a sua volta col Guercino, un anno dopo Cagnacci (1623). E mentre il Barbieri si impegnava alla pala di Santa Petronilla per la basilica di San Pietro, anche Serra, come il santarcangiolese, s'intratteneva con i caravaggeschi: questa volta, Serodine e Borgianni. Suggestioni fortissime, che approfondite su Valentin de Boulogne e su Stomer si trasferivano a Cesena intorno al 1630, nella tela per i cappuccini (Ultima Cena). Come dire, un altro grande respiro, in terra romagnola - e non se ne vedranno di simili, nella vicina Emilia - a pochi anni dall'esecuzione della tela riminese del Cagnacci per San Giovanni Battista. E un manifesto di quel "naturalismo audace" che si ripete, ma con in più ricordi dal Guercino, nell'illuminazione radente del Sant'Ubaldo (Cesena, San Domenico), nel Suicidio di Lucrezia (Cesena, Galleria dei dipinti antichi della Cassa di risparmio) e nella luce ferma e addensata dell'Immacolata Concezione per la chiesa cesenate di Sant'Agostino. Tra i capolavori di Cristoforo Serra, da ricordare Loves e lo Zalone per le forme lievitanti e gonfie di colore che sollevano i protagonisti, senza contraddirne la fisicità.

Contrasti tipici nel maestro, nemmeno lui "avvezzo ai mezzi toni" ma energico e determinato, abituato com'era "a comandar soldati e a cambiar moglie con rapidità". E "finanche presuntuoso, se non fosse sorretto da grande maestria". Un caratteraccio, insomma, quasi come il Caravaggio. E chissà come avrebbe risposto al contino Algarotti quando, di passaggio per Cesena nel 1761, giudicò "un gran ragù di colore" gli stacchi cromatici vigorosi delle tele per Sant'Anna (I Santi Gioachino e Anna, Forlì, Pinacoteca comunale; I Santi Filippo Apostolo e Francesca Romana, Cesena, Pinacoteca comunale): opere per lui troppo barocche.

Altra personalità di spicco nel panorama pittorico cesenate l'allievo del Serra, Cristoforo Savolini (Cesena, 1639-1677), recuperato agli studi di recente. Un interprete, al pari del maestro, del naturalismo appassionato di radice guercinesca ed emiliana, ma aperto alle sollecitazioni del barocco europeo. Tredici le opere presentate in mostra di questa "brillante e ingegnosa meteora", spentasi troppo presto, in modo tragico e romanzesco per un incidente a cavallo, quando l'artista, non ancora quarantenne, entrò al galoppo nel chiostro di un convento e finì decapitato da una spranga che attraversava le colonne. Sempre nel segno del furore caravaggesco.

Ma se per il focoso Cristoforo Serra fu determinante Michelangelo Merisi, Savolini, piuttosto, guardò a Cagnacci, del quale fu abile copista. Lo si scorge nella Sant'Apollonia fascinosa del Miracolo di San Donnino (1671), in San Domenico a Cesena. Unica opera firmata del pittore e perciò centro gravitazionale dal quale la critica partì per ricostruire un catalogo confuso, troppo spesso, con quello del maestro. Capolavoro assoluto La morte di Seneca (Cesena, Galleria dei dipinti antichi della Cassa di risparmio). Tela spettacolare, tra i pezzi forti della mostra, per la quale l'artista si ispirò ad uno studio di Guido Reni. Un volto senile drammatico ed emaciato, quello di un vecchio mendicante incontrato a Ripa Grande, a Roma, dal maestro bolognese, che dopo averlo disegnato lo modellò in scultura, come racconta una sezione del percorso espositivo. Della "testa del Seneca" ricordata dal Malvasia approfittò il Savolini, per realizzare in questo dipinto uno dei brani di naturalismo più spietato e impressionante del Seicento italiano.

Che fu un "Seicento inquieto", almeno per la Romagna, come ha illustrato la mostra riminese, capitolo successivo di questo itinerario attraverso l'esperienza figurativa del territorio (www.600inquieto.it). Un'indagine moderna, a mezzo secolo di distanza dalla prima ricognizione avviata da Francesco Arcangeli nel 1952 con la "Mostra della pittura del '600 a Rimini". Allora la sede fu la sala dell'Arengo. Oggi la mostra si estende con ben duecento opere in Castel Sismondo, la fortezza a difesa delle mura occidentali della città, completata da Sigismondo Pandolfo Malatesta alla metà del Quattrocento. Un complesso monumentale, restaurato nel 1997 dalla Fondazione della Cassa di risparmio che ha promosso l'esposizione in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna, la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico, e, per Rimini, la Provincia, il Comune e la Diocesi, insieme alla Biblioteca civica Gambalunghiana e ai Musei comunali.

Anche in questo caso il comitato scientifico composto da Jadranka Bentini, Paola Delbianco, Andrea Emiliani, Angelo Mazza, Antonio Paolucci, Pier Giorgio Pasini ed Enzo Pruccoli ha scelto di suddividere il percorso espositivo in tre sezioni: le prime due dedicate alla città e l'ultima di argomento figurativo, così da offrire un'immagine della vicenda di quel secolo, ad integrazione del percorso avviato con la mostra sul Trecento (1995) e con quella su Sigismondo Pandolfo Malatesta (2001). I primi due settori ricostruiscono infatti la storia cittadina, dalle strutture religiose a quelle civili, attraverso oggetti selezionati tra migliaia di pezzi. Sono oreficerie, ceramiche, medaglie, tessuti - tra i quali un arazzo dal Museo della Città - strumentazioni, carte d'archivio, stampe, legature e oggetti rari, che con alcuni ritratti allargano l'attenzione sull'ambiente riminese. Ma è soprattutto la terza parte della rassegna ad indagare, con sezioni distinte, le aree di influenza sulla civiltà pittorica del territorio, con una serie di dipinti provenienti da collezioni sia italiane che straniere e da edifici minori del contado. Capolavori, in molti casi, dove si incrociano le culture artistiche più diverse.

Anche a Rimini prevale l'influsso delle Marche e del manierismo zuccaresco, cui si conformano, ad apertura della mostra, le Storie di San Marino (1595) del durantino Giorgio Picchi (Rimini, chiesa dei santi Bartolomeo e Marino). Tele monumentali, dove l'autore dilata in forme visionarie luoghi noti riminesi, offrendo una variante bizzarra ed umorosa del Cinquecento marchigiano. E se dal Montefeltro non arrivò a Rimini nemmeno un quadro di Federico Barocci, furono i conterranei, e gli imitatori, a sedurre la Romagna con lo stile soave del maestro: un modello, per Giovanni Laurentini detto l'Arrigoni, che ne lasciò testimonianza in alcune chiese della città (dei Servi, delle Grazie, del Suffragio e in San Bernardino). Un registro dell'iconografia devota dell'urbinate, presentata in mostra in un'apposita sezione dove si documenta la diffusione della pittura di maniera e controriformata in area romagnola.

Un ampio settore, con capolavori assoluti, documenta poi l'altro polo di riferimento per la cultura figurativa della regione: il Veneto, con la sua grande pittura. Favoriti dalle rotte agevoli dell'Adriatico, a Venezia guardavano non soltanto i pittori ma anche i musicisti. E soprattutto i mercanti. Mentre i veneti transitavano attraverso la regione. Così non sorprende entrare nelle chiese riminesi e scoprire capolavori assoluti, scelti dagli organizzatori dell'esposizione per documentare questo versante di cultura: di Pasquale Ottino i due teleri in San Giuliano (San Lorenzo Giustiniani, San Giorgio), destinati ad affiancare una grande pala del Veronese; dell'estroso Paolo Piazza, un artista che varrebbe la pena riscoprire, la Trinità in San Giovanni Battista (1611). Opera spettacolare, la più grande nel territorio, commissionata dall'ordine dei cappuccini insieme alla Deposizione di Palma il Giovane, ora in Santa Maria della Colonnella. Riunite nella sezione dedicata alle relazioni tra Rimini e Venezia, le due opere evidenziano l'impatto della pittura lagunare insieme ad altri pezzi, prestati da importanti istituzioni romagnole. Dal Museo della Città le telette del Maffei già nella sacrestia del Tempio Malatestiano e il Filosofo del caposcuola "tenebroso" Langetti, tra i capolavori di quelle collezioni. Dall'Istituto Prati di Forlì, invece, la Lucrezia di Pietro Ricchi, pittore lucchese fattosi veneziano in questa tela fastosa, dove l'eroina si trasforma in un'antica divinità opulenta.

Fino a qui, espressioni di una cultura artistica d'importazione, motivata da un momento di "vuoto" nella produzione locale e veicolata perciò dall'esterno. Occorrerà aspettare la svolta di metà Seicento per arrivare ad un naturalismo di impronta romagnola ma di respiro internazionale, testimoniato in mostra dalla sezione La pittura moderna tra sacro e profano, la più spettacolare dell'esposizione. Una parata dei dipinti del Cagnacci già esaminati cui si affiancano, in precedenza, altre anticipazioni significative del caravaggismo in area regionale. L'impressionante Pietà del Pomarancio per la chiesa parrocchiale di Mondaino (1625) e, soprattutto, la Maddalena di Giovanni Francesco Guerrieri da Fossombrone (Fano, Fondazione Cassa di risparmio, 1611). Un omaggio sontuoso a Gentileschi, ma con un'occhiata a Rubens. E un modello fondamentale per l'altro grande protagonista della pittura riminese del Seicento, Giovanni Battista Nagli, detto il Centino dalla città di provenienza (documentato a Rimini dal 1629-1675). Un artista di religiosità sincera, la cui attività romagnola, certamente più discreta ed appartata rispetto a quella del Cagnacci, non gli impedì di raggiungere i vertici di un naturalismo di grandissimo respiro come nel Santo vescovo della pinacoteca riminese (1645 circa), da confrontarsi allo Zurbaran, e di allinearsi autorevolmente alla pittura del Seicento europeo. Una civiltà figurativa con la quale si confronterà direttamente collaborando con Monsù Bernardo alla decorazione dell'oratorio di Santa Maria in Acumine, ricostituito in mostra con le sue grandi tele (1655).

Il percorso espositivo si conclude nel segno del Cagnacci con una copia pregevole, da una raccolta privata, della Conversione della Maddalena: opera celeberrima, forse il capolavoro del santarcangiolese, dipinta a Vienna nella maturità dell'artista e conservata a Pasadena (USA), nella collezione Norton Simon. La tela, che per disposizioni testamentarie non può lasciare l'istituzione di appartenenza, viene proposta in copia dai curatori della mostra come una sintesi del Seicento romagnolo: per modernità e naturalezza, per la poetica degli affetti, per sobrietà e per l'esaltazione della luce. Ma soprattutto, suggerisce Anna Faiella, per la profondità, coltissima, della simbologia, suggerita da una committenza sulla quale non concordano gli studiosi ed intonata al tema della rigenerazione, evocato nel ricorso all'immagine antica del serpente cui sembra alludere, velatamente, l'atteggiarsi attorto della protagonista, culminante nel modernissimo chignon e nell'andamento serpentino dei monili. Una metafora della necessità di una rinascita che può avvenire grazie al confondersi del piede dell'angelo androgino con il fianco della Maddalena. Un accorgimento prospettico ingenuo, altrimenti, in termini formali, ma che si giustifica unicamente nel suo utilizzo a fini edificanti per questo racconto, moralizzato e teatrale, ispirato al tema della rinuncia ai vizi. "Storia barocca", come piaceva alla controriforma.


Note

(1) Storie Barocche. Da Guercino a Serra e Savolini nella Romagna del Seicento, a cura di M. Cellini, Bologna, Abacus Edizioni, 2004.

(2) Seicento inquieto. Arte e cultura a Rimini fra Cagnacci e Guercino, a cura di A. Mazza e P. G. Pasini, Milano, Federico Motta Editore, 2004.

 

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