Rivista "IBC" XV, 2007, 1

musei e beni culturali / corrispondenze, progetti e realizzazioni

A Parigi, al numero 37 del quai Branly, un nuovo grande museo propone il rapporto con le culture altre.
Con diverso spirito

Valeria Cicala
[IBC]

"L'Altro è come uno specchio che riflette la nostra immagine, smascherandola e mettendola a nudo, e questo ci spaventa". Così scriveva Ryszard Kapuściński, lo straordinario reporter che sembrava vocato ai paesi e ai luoghi dove ingiustizia e sofferenza non "bucano" lo schermo, in un intervento pubblicato sul domenicale del "Sole 24 Ore" il 21 gennaio 2007, solo tre giorni prima della sua scomparsa.1 Proseguendo nel suo ragionamento, Kapuściński ricordava poi come l'antropologo Bronislaw Malinoswski fosse stato il primo a confrontarsi con le culture degli indigeni del Pacifico "da un punto di vista non eurocentrico". Osservazioni che, con tante altre, potrebbero accompagnare o suggerire spunti a chi si trovasse a Parigi e volesse visitare il Musée del quai Branly; il museo dei quattro continenti (Asia, Africa, America, Oceania), così lo potremmo chiamare, dal momento che non si è voluto dargli un nome, ma solo un'identificazione topografica, già trasformata in sigla.

Il MQB è situato sulla Rive Gauche, ai piedi della Tour Eiffel, icona di una modernità ormai arcaica, che svetta nel cielo più prossimo al nuovo museo. Si trova non lontano dal Palais de Tokyo, dal Museo Guimet o dal Grand Palais, ma i loro profili architettonici, come le loro collezioni, raccontano una storia europea o quella di culture e popoli con cui ci si è confrontati su un piano più paritetico. Ci sono voluti dieci anni di lavori e svariati milioni di euro per realizzarlo. E sono trascorsi ormai diversi mesi dalla sua apertura al pubblico, sufficienti perché la struttura e i suoi artefici assorbissero, senza particolari traumi, le polemiche e le critiche, come pure i giudizi osannanti, che sempre fanno da sottofondo alla realizzazione di un grande progetto. E questo non sfuggiva, anche per i suoi risvolti in qualche misura politici, a tale liturgia.

Nel novembre del 1993 il presidente Mitterand inaugurava una nuova ala del Louvre, all'ombra della Piramide, e consegnava ai francesi un altro segmento espositivo del museo che aggrega milioni di visitatori da ogni parte del pianeta, ma realizzava anche un'altra delle diverse "imprese" culturali a futura memoria di sé. È noto, però, che dietro alle committenze presidenziali, come in larga misura nella progettualità artistica della Francia, è costante da sempre e si rinnova la presenza di una compagine di intellettuali e collezionisti, i quali si sono impegnati nella valorizzazione del patrimonio del loro paese. Questi hanno trasfuso, in chi opera in ambito culturale, la volontà di creare o rinnovare luoghi in cui il piacere di conoscere divenisse consapevolezza di un tessuto storico, memoria critica, esperienza ludica, work in progress di un'intera società.

Ora Chirac lascia il "suo" segno dalle caratteristiche esterne assai diverse, e dai contenuti per molti aspetti strabilianti, grazie anche alla creatività dell'architetto Jean Nouvel. Siamo di fronte a uno spaccato etnografico e antropologico davvero complesso, a una polifonia che richiede un'acustica speciale. Non è questa la sede per riflettere sui mutamenti e sul rapporto tra luoghi dell'arte e paesaggio urbano.2 E neppure per la disamina di un rischio che l'allestimento e lo sguardo di questo museo imperniato sulle culture "altre" non elude: un atteggiamento neocolonialista e, comunque, sempre un punto di partenza occidentale, un tentativo inconscio di risarcimento morale e intellettuale,3 sebbene "les chefs-d'oeuvre du monde entier naissent libres et égaux" fosse il titolo del manifesto redatto nel 1990 da Jacques Kerchache, importante collezionista, che si batté per la realizzazione di un museo autonomo nel quale esporre tutte le raccolte d'arte non occidentale che si trovavano sparse in diversi musei della capitale.4

Ma, fatte queste premesse, è necessario ammettere che già il primo approccio è visivamente diverso e non centrato sull'architettura del museo. Il visitatore viene attratto nella lunga e serpentiforme fila, che dovrà affrontare guardando scorci di un grande scenario di felci e licheni, perché qui la vegetazione è parte dell'allestimento (ben diciottomila metri quadrati di verde), e laddove non ci sono piante si innalzano enormi pareti-vetrate dipinte con cascate di foglie e di rami e chiazze di cielo si specchiano e rimbalzano sulle finestre degli uffici del museo e si convertono nei toni caldi delle lamine che ricoprono parte dell'edificio.

Il Quai Branly non si può raccontare. È un gioco di rimandi, di ombre e di luci ancor prima di attraversare la lunga, candida rampa d'ingresso che si avvolge a un infinito cilindro trasparente nel quale sono stati sistemati gli strumenti musicali, centinaia. Un preambolo a ciò che si vedrà, una prima suggestione rispetto a un lavoro straordinario anche per quanto attiene agli aspetti della catalogazione e della conservazione. Qui tutto è schedato, consultabile per via informatica e si tratta di ben trecentomila oggetti. I sotterranei sono destinati ai materiali non esposti, ma tutti sono forniti di una "carta d'identità". E la loro identità, quella di coloro che queste opere hanno creato, esplode quando si scivola nel percorso espositivo: uno spazio che accoglie in 4.500 metri quadrati 3.500 oggetti.

L'effetto, la sorpresa sono notevoli. Seppure avvezzi a muoverci in una società mediatica che, almeno a livello di immagini, ci mette in relazione con le espressioni della vita anche le più distanti da noi. Intere culture, artisti senza nome e senza età, forze espressive e cromatiche, essenzialità di linee e forme, così apprezzate dalle avanguardie europee di un secolo fa, si dispiegano intrecciandosi. Lasciano incontrare geografie lontane, simboli di una religiosità che associa la fertilità della donna e della terra, di cui si sente la grande magia. La stessa che si coglie nei confronti dell'acqua e che riguarda il mondo degli animali, così frequentemente rappresentati: oggetti di culto, incarnazione di divinità.

Un rapporto con l'orizzonte degli "spiriti" che è divenuto racconto, mito, storia non scritta, ma travasata sulle materie più diverse. Esportata non per scelta. Esaurita, spesso, da una civilizzazione non richiesta, non sempre salvifica e salutare. Intere aree di un continente ci guardano, continuano a guardarci ricche di suggestioni, di misteriose ascendenze che l'Europa ha spesso tentato di riportare al proprio "punto di vista" o delle quali ha distorto i significati o le valenze per una presunzione intellettuale, ma ancora di più espansionistica. Il museo soddisfa ogni genere di curiosità possa avere il visitatore. Gli apparati didattici, le cento postazioni informatiche, l'accessibilità e la chiarezza dei linguaggi sollecitano la voglia di capire, di conoscere. La libreria, le sale per le esposizioni temporanee, il teatro per spettacoli e proiezioni, anche tutti i servizi che compongono questa architettura soffusa, parlano di "altre storie" e vogliono educare, attraverso la conoscenza, al dialogo, a una capacità di convivenza che sia consapevole riconoscimento e non bonaria accondiscendenza.

 

Note

(1) R. Kapuściński, Negli occhi dell'altro, "Il Sole 24 Ore. Domenica", 21 gennaio 2007, p. 37.

(2) Si veda in proposito una riflessione a margine della mostra "Museums", che si è tenuta a Roma, al Museo delle arti del XXI secolo, lo scorso autunno: P. Ciorra, Museo... e poi?, "IBC", XIV, 2006, 4, pp. 34-38.

(3) F. Di Valerio, Oltre lo specchio, "IBC", XIV, 2006, 4, p. 24.

(4) H. Demeude, Le musée du quai Branly, Paris, Editions Scala, 2006, pp. 3-4.

 

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