Rivista "IBC" XIV, 2006, 3

Dossier: Facile a dirsi - Come divulgare la cultura

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"Mistero" si può dire

Cinzia Dal Maso
[giornalista, collaboratrice de "la Repubblica", Roma]

Puntare dritto all'uomo. Parlare dell'uomo, oltre che delle pietre. Di chi ha messo le pietre una sull'altra, chi ha pensato come disporle, chi le ha frequentate negli anni e nei secoli. La ricetta della comunicazione sta qui. Nel settore dei beni culturali come altrove. Semplice, in apparenza, eppure così rara a trovarsi. Generalmente si dice che la gente vuole sentire storie, racconti. Che il racconto stimola partecipazione, genera emozione e sa così veicolare il messaggio. Ma cos'è una storia, se non storia di uomini? Certo, i monumenti suscitano in noi anzitutto un'emozione estetica. Ma non è questa la molla principale della meraviglia, della curiosità, della partecipazione.

La cupola del Brunelleschi strabilia per perfezione, ma la mente va a chi l'ha saputa ideare. Le piramidi d'Egitto ci lasciano senza fiato al solo ammirarle, ma la reazione empatica è ben altra, viene dall'immaginare chi le ha costruite, quando e come. Per non parlare della follia collettiva, l'ossessione quasi morbosa per le mummie, uomini del passato che possiamo toccare con mano. Ci fanno sentire il contatto diretto con la vita vera di centinaia o migliaia di anni fa. È un moto che viene spontaneo, sorge dal profondo. Colpisce tutti, è genuinamente popolare. Perché è inutile disquisire dottamente su come il dialogo col passato sia elemento fondante di una società civile. Di quanto una prospettiva storica aiuti a guardare con maggiore obiettività al presente. E di come il monumento antico sia la rappresentazione fisica, visibile dell'identità culturale, e per questo comunicativamente molto più efficace di qualsiasi discorso o documento storico. Se lo si conserva in naftalina, imbalsamato nel suo ruolo di rudere del passato, non comunica proprio nulla.

E non basta neppure restituirgli il contorno, ricostruire il contesto che col tempo ha perduto, far vedere com'era. Serve a capire molto di più, ma non è sufficiente per farlo diventare patrimonio realmente condiviso. Bisogna far conoscere l'uomo che lo ha realizzato. Raccontare come e perché l'ha fatto, la sua storia. Qualsiasi altra cosa è inganno, e provoca immediatamente noia, distacco, lontananza. Tutti noi sappiamo bene che dietro ogni pietra c'è sempre l'uomo che l'ha costruita, dietro un paesaggio c'è l'uomo che l'ha plasmato. E questi uomini del passato devono emergere con forza, erompere dai colori, dai mattoni, dalle pietre, dai paesaggi per parlare direttamente con noi, uomini d'oggi. Solo così il monumento viene realmente vissuto nel presente e non solo ammirato. Diventa genuinamente contemporaneo. L'uomo parla con l'uomo, non già con le pietre o la terra.

Dar vita a tale dialogo non è facile. Il rischio di banalizzazione è sempre in agguato. Come capita, per esempio, a molto cinema di argomento storico. Dovrebbe essere uno strumento privilegiato per far rivivere il passato, e invece è il bersaglio prediletto degli strali degli storici di professione. Fa leva sul fascino del primitivo, dicono, di ciò che stimola curiosità perché lontano da noi. Ma al contempo mostra quanto questo "primitivo" sia in realtà vicino a noi. Mostra una vita quotidiana molto simile alla nostra, che induce lo spettatore a sentire il dramma come personale. Perdendo così ogni spessore storico, tutto quel che fa l'uomo del passato necessariamente diverso da noi.

Mentre è proprio questa diversità la vera ricchezza della storia e ciò che arricchisce l'uomo d'oggi. Recuperarla in tutta la sua varietà, far sì che diventi forza attiva del contemporaneo, richiede uno sforzo di mediazione culturale complesso. Fatto di profonda e non episodica conoscenza del passato e delle leggi della comunicazione. E poi di sensibilità, intuizione, curiosità, immaginazione. È a tutti gli effetti un'arte, l'arte di parlare dell'uomo all'uomo. È un mestiere, una forma di comunicazione come altre, che al pari del cinema o della pubblicità esige in chi la esercita grande professionalità e creatività.

E capacità di stimolare la fantasia. Perché il passato è per definizione inconoscibile nella sua totalità, per quanto lo si indaghi conserverà sempre angoli oscuri, "misteriosi". È l'ultima terra incognita rimasta all'uomo moderno oramai incapace di seguire la scienza al di là dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo. Il passato è la nostra riserva inesauribile di scoperte. E, dove le scoperte non possono giungere, per l'appunto di fantasia. Parte del nostro passato la possiamo solamente immaginare. Ci affascina anche per questo.

Esistono oggi artisti capaci di tanto? Ci sono sempre stati, il dialogo col passato non è di certo prerogativa del contemporaneo. Ogni epoca, ogni luogo lo ha espresso a modo suo. Noi lo facciamo a modo nostro, con consapevole ma partecipato distacco. L'uomo d'oggi è antropologo per vocazione. E lo facciamo rivolgendoci a tutti, nessuno escluso: i grandi numeri sono una nostra conquista. Non è conquista nuovissima ma ha saputo evolversi col tempo, raggiungendo negli ultimi anni connotazioni di urgenza inconsuete. Oggi la gente viaggia di più, ha più curiosità e sete di conoscenza. In una parola c'è più "domanda" di cultura, di sapere chi siamo e da dove veniamo. E l'educazione non avviene oramai più solo sui banchi di scuola ma nei tempi più disparati e attraverso i canali più disparati: giornali e riviste, radio e tv, musei e mostre, libri e documentari, conferenze pubbliche e lezioni-spettacolo. Oggi il progresso delle idee e del pensiero collettivi passa attraverso la comunicazione.

La comunicazione ha assunto un ruolo educativo importantissimo. Ha una cruciale funzione civile, e una grande responsabilità che forse fatica ancora ad assumersi fino in fondo. In particolare la comunicazione del patrimonio culturale vanta sicuramente molti artisti tra le sue file ma è in realtà ancora poco definita nei contorni. Mancano regole precise, puntuali standard di qualità. Eppure, il diritto di tutti i cittadini alla conoscenza del passato non può più essere lasciato al caso, all'improvvisazione per quanto eccelsa. Al giorno d'oggi non si può prescindere dalla professionalità. E, nel nostro caso, dalla consapevolezza di quanto sia cruciale comunicare il significato profondo della moderna ricerca sul passato, stimolare nel pubblico una consuetudine costante, partecipata e proficua con il proprio passato.

In ciò la carta stampata è forse privilegiata rispetto ad altri media. Da sempre la frequentano storici, storici dell'arte, della letteratura, del pensiero. Addetti ai lavori che hanno il dono naturale di saper comunicare senza pedanteria, convinti che semplice e popolare non siano affatto sinonimi di superficiale. E consapevoli che le conoscenze e le innovazioni vanno comunicate se si vuole che diventino patrimonio condiviso. Che l'ampliarsi del divario fra mondo della ricerca e collettività non giova a nessuno. Ma il loro numero è sempre stato esiguo, e in genere i loro contributi si confinavano e si confinano nelle pagine culturali. Pagine che non tutti leggono, che molti saltano a piè pari. Pagine che non a caso stanno slittando sempre più verso il fondo dei giornali.

La cronaca invece, si sa, la leggono tutti. La cronaca è ontologicamente popolare. Ma generalmente in cronaca scrive il cronista, che non è necessariamente esperto di storia passata. Scrive di fretta, come tutti. Lui però, che non ha le mani in pasta, rischia più di altri di sbagliare, non valutare correttamente, fraintendere, non cogliere nel segno. È vero che oggi, nell'era della specializzazione, si ricorre sempre più al giornalista esperto nei singoli argomenti. Ma la necessità di un esperto di storia o d'arte si è avvertita solo ultimamente e tuttora non è sempre una priorità. La storia tutti credono di conoscerla. Mentre la scienza, per esempio, è da sempre considerata "difficile" da comprendere, e si è manifestata presto la necessità di creare una figura professionale che sappia mediare tra il ricercatore e il pubblico, raccontare la scienza alla gente con linguaggio chiaro e semplice.

Da tempo esiste il cosiddetto "giornalista scientifico", esistono scuole di comunicazione della scienza e una riflessione su teorie e metodi. Tuttavia molto spesso tale divulgazione si è limitata a presentare al pubblico i principi della scienza, i risultati delle ricerche, trascurando o trattando solo sommariamente i processi che hanno condotto alla scoperta. Trascurando l'uomo: lo scienziato, le sue fatiche, le sue intuizioni, la sua storia, il suo mondo. E troppo spesso oggi il divulgatore scientifico racconta con lo stesso arido metodo anche il passato dell'uomo. Questo perché ha capito che il nostro passato piace alla gente, interessa e fa audience. Così oggi capita sovente di vedere i nostri antenati considerati alla stregua di un principio della fisica e presentati come tali. Con rigidità eccessiva e poco dinamismo. Si racconta la scoperta privandola troppo del suo lato "umano" e dinamico, e si consulta l'esperto di turno che la valuta.

Ciò trova in parte giustificazione nel fatto che al giorno d'oggi la tecnologia sa aiutare tutte le altre discipline a scoprire quel che prima pareva impossibile. Un esempio per tutti è la rivoluzione dell'analisi al carbonio 14 che in archeologia ha consentito di dare un'età a oggetti antichi prima analizzabili solo in base a criteri stilistici. Ma tale compito fondamentale della tecnologia non deve distrarci e farci credere che sia lei la protagonista. Ci dice che l'uomo moderno è technologicus e oramai non può più vivere senza le proprie "appendici tecnologiche", dal banale cellulare fino agli strumenti più sofisticati. Ma nel nostro caso questi forniscono solo un aiuto a ricostruire in modo sempre più preciso quello che è e rimane l'oggetto principale del nostro discorso, l'uomo e la sua storia.

Oggi però il tecnicismo dell'esposizione piace molto perché condensa brevità, sensazionalismo e incisività. Sa catturare l'attenzione del lettore distratto, com'è ogni lettore di giornale. Sa urlare la notizia, anche se poi magari ne spiega poco il significato. Al punto che il pericolo di ampie cadute nella superficialità è reale e pressante: oggi troppa divulgazione si limita alla cronaca spicciola, alla curiosità, all'aneddotica. Non racconta la storia ma brandelli di storia in salsa sensazionalistica. Fa passare messaggi estremamente semplificati nei contenuti che solo apparentemente rispondono a domande, ma in realtà non aiutano a capire e mancano dello spessore necessario per diventare patrimonio comune. Non fanno cultura ma business, il business del "sai perché", che più o meno consapevolmente specula sulla sete di conoscenza della gente. È fenomeno così evidente e paradossale da diventare persino oggetto di satira. Fiorello alla radio. Sublime.

La cronaca però non può prescindere dalla forza della notizia. Verrebbe meno al suo compito se non lo facesse. E deve farlo con ogni mezzo. Persino usando, nel parlare del nostro passato, l'abusato e troppo bersagliato "mistero". Nelle parole dei ricercatori, il mistero pare essere il simbolo della cattiva comunicazione. Dicono che ammanta il nostro passato di un'aura irreale che non gli si addice, alimenta fantasie troppo fantasiose. Al punto che qualche comunicatore oggi è giunto a vantarsi di non usare mai la parola incriminata. Alessandro Cecchi Paone, per esempio, dice di aver proibito a tutto il suo staff di parlare di mistero in qualsivoglia circostanza. Io invece ne parlo spesso, con convinzione. Convinta che una comunicazione efficace debba far leva in ugual misura su conoscenze, immaginazione, emotività. Perché la conoscenza viene dall'immaginazione, cioè da quel senso di mistero che spinge a scoprire l'ignoto.

È ciò che attrae, che stimola la curiosità, nell'informazione ma in primo luogo nella ricerca stessa. Lo diceva anche Albert Einstein: il senso del mistero è "il più bel sentimento che si possa provare; è la sorgente di ogni vera arte, di ogni vera scienza". E continuava: "Chi non ha mai conosciuto questa emozione, è come se fosse morto. Chi non possiede il dono della meraviglia, è come se avesse gli occhi spenti". L'emozione del mistero dà la vita. La meraviglia è un dono che accende gli occhi. Sono parole forti, esplosive. Assolvono il mistero da ogni possibile accusa di vacuità e irrealtà e gli restituiscono tutta la potenza di motore della ricerca. Quando dunque nel comunicare si fa leva sulla suggestione del "mistero", non si fa che riattivare nel pubblico il medesimo meccanismo che ha stimolato nel ricercatore la curiosità e lo ha portato alla scoperta. Non bisogna mai uccidere tutto questo, appiattirlo in rigore freddo ed eccessivo. Nessuna ricerca è davvero così. La ricerca sull'uomo non potrà mai esserlo.

Sdoganiamo dunque il tanto vituperato "mistero", purché al momento del coinvolgimento del lettore faccia seguito nella comunicazione il massimo rigore nell'esposizione. È vero, molti si limitano a evocare il mistero senza poi spiegare nulla, contribuendo anzi a incrementare i falsi miti. Ma c'è anche chi sa proseguire il discorso con vere informazioni. Semplici, chiare, evocative ma di contenuto. Chi sa usare la notizia come pretesto per raccontare al lettore un mondo, o per ragionare assieme al lettore su dibattiti in corso, interrogativi ancora aperti. Chi è convinto che la notizia non sia mai il fine ma un mezzo, un'occasione di riflessione sull'attualità del passato e il suo uso nella società contemporanea. Chi si esprime con un linguaggio semplice, accessibile a tutti, ma non teme di inserire nel discorso anche qualche parola tecnica, ovviamente spiegandola. Perché così la conoscenza rimane viva, e il vocabolario della gente non inaridisce. In definitiva, chi si impegna a fare vera e seria informazione, vera attualità. E non il subdolo business del "sai perché".

 

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