Rivista "IBC" XIV, 2006, 3

musei e beni culturali / mostre e rassegne, itinerari, storie e personaggi

Bologna e Roma riscoprono il Carracci per antonomasia: artista-mito già nel Seicento, pittore modernissimo nello stile, nelle scelte e nel destino finale.
Annibale rinato

Elisabetta Landi
[IBC]

Torna a Bologna Annibale Carracci (Bologna, 1560 - Roma, 1609), protagonista di una mostra straordinaria. La prima dedicata interamente all'artista, già comprimario della rassegna sui Carracci (1956) e della retrospettiva sulla cultura pittorica emiliana del Cinque e del Seicento ("Nell'età del Correggio e dei Carracci", 1986). Ma mai primo attore, nel panorama espositivo generale, nonostante la centralità del suo ruolo, riconosciuto universalmente grazie a una fama d'eccezione. Perché fu Annibale il bolognese che più di ogni altro riuscì ad accedere a una celebrità internazionale. Nel Seicento fu un mito, onorato in vita da committenze prestigiose, celebrato in morte da una sepoltura al Pantheon, e accanto a Raffaello.

E "Raffaello rinato" era chiamato ai suoi tempi, quando nobili e prelati se ne contendevano i dipinti. Committenti spietati, responsabili della nevrosi, malattia modernissima, che lo portò alla morte: nemmeno cinquantenne, tormentato e di instabili umori. Oggi lo chiameremmo "stress", ma fu forse delusione. Disappunto per un mecenatismo munifico in apparenza, ma in realtà schiacciante; non all'altezza del mondo che sognava, da artista consapevole quale era, cosciente dei valori anche morali divulgati con il suo lavoro: mercificato avidamente, e divorato da una richiesta spesso indifferente a quell'anima che lui generosamente trasfondeva nelle tele, nei disegni e negli affreschi.

Opere famose nei musei di tutto il mondo. Roma, Bologna, Londra, Oxford, Parigi, Madrid, Dresda, Vienna, San Pietroburgo e Washington: fin oltre oceano si ammirano i suoi capolavori. "Non c'è dubbio che si tratti di lui, quando in un museo francese un vecchio cartellino reca la dicitura Le Carrache", osserva Eugenio Riccomini, curatore della mostra con Daniele Benati. E forse è proprio questa dispersione del suo operato ad aver fatto rinviare nel tempo un appuntamento doveroso. Un ritardo del quale ora si fa l'ammenda, con un'esposizione a tutto tondo che ne riesamina l'attività nella sua intera ampiezza. Vale a dire da Bologna fino a Roma, le due "patrie" del grande bolognese.

Grazie alla promozione di questi due Comuni, dal 22 settembre 2006 al 7 gennaio 2007 è possibile ammirare i capolavori di Annibale nelle sale del Museo civico archeologico del capoluogo emiliano-romagnolo, e successivamente a Roma, nel Chiostro del Bramante, dove si potrà visitare l'esposizione dal 23 gennaio al 6 maggio 2007. Sono ottanta i dipinti, e altrettanti i disegni, selezionati dai curatori e da uno staff di esperti di settore. Opere celeberrime, prodotte in parte proprio qui, nella città delle Due Torri, opere che oggi tornano a dialogare con i percorsi cittadini dove il maestro le aveva pensate. Perché la mostra "Annibale Carracci" è un'esposizione "diffusa", che dipana il suo racconto oltre le sale museali, attraverso importanti monumenti di Bologna. Quegli edifici dove lavorò il pittore, affiancato dall'équipe, o dove lasciarono tesori d'arte gli artisti "carracceschi": le chiese, quelle dei Santi Gregorio e Siro, di San Domenico, di San Martino, la Cattedrale, e i palazzi, Fava, Magnani e Sampieri, visitabili per l'occasione come pure la Galleria Farnese, che sarà aperta al pubblico di Roma (www.mostracarracci.it).

Ma chi fu Annibale, questo "sacro, profano, grave e vero pittore universale", come lo definì Giulio Mancini, l'erudito amico dei Carracci? Di origini modeste - era figlio di un sarto, la cui famiglia proveniva da Cremona - l'artista bolognese, fratello di Agostino, esordì con il cugino Ludovico, ma guardò inizialmente a Passerotti e a Prospero Fontana. Da subito, però, fu un pittore "moderno", in questo agevolato da importanti commissioni che lo portarono a primeggiare sugli altri due parenti: La crocefissione in San Niccolò a Bologna (1583), suo debutto ufficiale; La deposizione ora a Parma e il correggesco Battesimo di Cristo per la chiesa dei Santi Gregorio e Siro (1585); La Madonna di San Matteo (1588), conservata a Dresda, cui tenne dietro la serie fortunata dei fregi nei palazzi bolognesi Fava (Storie di Giasone, 1584) e Magnani (Storie di Romolo, 1590), affrontata con le decorazioni della casa Sampieri (1592) dalla "ditta" dei Carracci.

Una ditta che ben presto si sciolse, perché gli affreschi, il manifesto artistico della famiglia, erano piaciuti, e Annibale era stato chiamato a Roma. Dove si era capito che quelle opere segnavano una svolta irreversibile, che avrebbe cambiato il corso della storia dell'arte. Per questo, di lì a poco, la fama dispiegò le ali fino alla città dei papi, dove al maestro si dischiusero formidabili occasioni. Il mestiere di Annibale era gradito, e non soltanto per la varietà nell'uso di molteplici linguaggi, quanto, soprattutto, perché l'artista era salutato, e a giusta ragione, come un innovatore. Anche se attingeva al passato e si guardava intorno, convinto com'era che per trovare una scappatoia alle convenzioni della pittura manierista si dovesse creare un linguaggio nuovo, che unificasse finalmente i vari modi delle diverse scuole pittoriche italiane.

"Chi fassi buon pittor cerca e desia, il disegno di Roma abbia alla mano, la mossa con l'ombrar veneziano e il degno colorir di Lombardia, di Michelangel la terribil via, il vero naturale di Tiziano, del Correggio lo stil puro e sovrano, di Raffael la giusta simmetria, del Tibaldi il decoro e il fondamento, del dotto Primaticcio l'inventare, e un po' di grazia del Parmigianino". Rime di Agostino, il fratello pittore, incisore e uomo di cultura: un manifesto, ancora adesso, del "programma" degli "Incamminati", come si dicevano gli accademici che si riunivano nel nome dei Carracci. Certo, i fratelli Annibale e Agostino e il cugino Ludovico la pagarono cara, la varietà di questo "piano" di lavoro. Benché la loro fama resistesse al trascorrere del tempo, fino al XIX secolo, e comunque prima di Roberto Longhi, vennero bollati di eclettismo. E di accademia. Un marchio che escludeva l'innovazione.

Ma innovatori furono, i Carracci, e specialmente Annibale, "anarchico e sperimentale" nel definire con caratteri duraturi i settori figurativi che proprio in quegli anni, quelli della Controriforma, si stavano precisando: la storia sacra e la mitologia, il ritratto, il paesaggio e i cosiddetti "soggetti bassi", la caricatura e la scena di genere, vale a dire la raffigurazione di scene di argomento popolare. E tutto questo sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini, quando linguisti ed eruditi, storiografi, geografi e scienziati lavoravano a un unico sogno: unificare settori diversi di un progetto "nazionale" nel quale, per la pittura, Annibale ebbe un ruolo ben chiaro. Fu un linguaggio "italiano" importantissimo, il suo; forse il primo, nell'età moderna: sempre, ovviamente, dopo Raffaello.

L'altra possibilità era Caravaggio, e ci si è spesso chiesti quale fosse, in realtà, il rapporto tra questi due pittori, entrambi di origini lombarde. Chi era più moderno: Annibale o il Merisi? Si favoleggiò di una rivalità tra i due, che si conobbero, a Roma, collaborando alla comune impresa della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. In realtà nessun antagonismo tra questi primi attori, come voleva la critica della metà del Novecento, propensa a vedere in Carracci un nemico per il Caravaggio. Il quale, invece, per il bolognese ebbe una grandissima stima, tanto che fu suo interlocutore in un dialogo serrato, carico di conseguenze per la storia pittorica italiana. Che fosse la curiosità intelligentissima e sorprendente per la natura perseguita da Annibale Carracci, ben comprensibile nella città dell'Aldrovandi, o il naturalismo estremo con il quale il Merisi provocava uno scandalo dopo l'altro, resta il fatto che dalle opere di questi due maestri nacque la pittura del Seicento. All'aprirsi del secolo, il clamore suscitato dalle tele caravaggesche in San Luigi dei Francesi non fu minore della sorpresa per gli affreschi di palazzo Farnese (1601). La grande pittura del Seicento nasceva proprio allora, da quelle opere dipinte in momenti vicini, e quasi gomito a gomito.

Nella capitale Annibale, insieme ad Agostino, era approdato nel 1595, lasciando a casa il cugino Ludovico ad allevare schiere di giovani pittori. Il cardinale Odoardo Farnese voleva per la volta della galleria del suo palazzo un Trionfo di Bacco e Arianna, un soggetto profano che esaltasse la potenza dell'amore e facesse infuriare il papa, Clemente VIII, della rivale famiglia Aldobrandini, terrorizzato a ogni sospetto di licenziosità figurativa. E in entrambi i casi venne accontentato. Mettendo a punto un organismo grandioso quanto innovativo, ma che passava pur sempre attraverso la Sistina, Annibale dipanò un corteggio degli dei da risvegliare il sogno dell'antico, sviluppando le premesse avviate nei palazzi bolognesi Fava e Magnani e proiettando sul soffitto reale una struttura prospettica dipinta. Finti riquadri sul soffitto vero, ma così credibili da ingannare su una realtà fittizia. Uno spazio illusorio ma tangibile, come a teatro, dove si inseguono le storie raccontate: oltre al carro delle divinità, Polifemo e Galatea, e Aurora e Cefalo e Glauco e Scilla, queste ultime eseguite da Agostino Carracci.

Nacque un modo nuovo di vedere la decorazione, che sarebbe sfociata nell'affresco barocco. Così Annibale gettava un ponte a due arcate: l'uno verso l'età di Michelangelo, di Raffaello e del Correggio; l'altro verso la stagione di Rubens, del Lanfranco e del Baciccio. E in un momento in cui più che mai si rendeva necessaria una pittura comprensibile a tutti, quasi un "libro degli ignoranti", mentre invece il manierismo richiedeva pur sempre un "filtro", una mediazione intellettuale. Ma anche quando dipingeva divinità, santi ed eroi, Annibale non trascurava in nessun caso di verificare ogni volta sul vero ciò che ritraeva, non perdeva il senso della realtà, come se quei sogni si potessero verificare. La vittoria della strada "lombarda", come osserva Benati, alla quale Caravaggio dava un'altra, personale risonanza. E che il Carracci stesso interpretava dipingendo in "dialetto", ma con esiti non meno sublimi, quando ritraeva scene quotidiane: celeberrimi il Mangiafagioli e la Macelleria, ma anche i ritratti che potremmo già definire "teste di carattere". Né la sua riforma dimentica il paesaggio, per il quale inventa, nei lunettoni della Doria Pamphilij (Fuga in Egitto, 1603) un'ambientazione classica della campagna romana, inaugurando un genere "moderno" come lo praticheranno Lorrain, Domenichino e Poussin. E consegnando esempi insuperati di pittura di storia di impronta classicista.

Poi, dal 1605, la perdita della memoria, l'oblio, il rifiuto di continuare nonostante le proteste degli allievi e l'incalzare delle committenze. Due ore al giorno, non di più: si impegna per iscritto questo genio esaurito, privo di energie per un'attività frenetica, da togliere il respiro. Forse contribuì l'affronto dell'obolo modesto con il quale il cardinal Farnese lo remunerò dell'impresa titanica della galleria? Un progressivo declino, che si ripercorre fino alla morte dell'artista, nel 1609, lungo una serie di ritratti, dipinti e disegni, con i quali Annibale si interrogava, studiando il proprio stato di salute e registrando giorno per giorno la sua vicenda personale. Dall'Annibale bolognese all'Annibale romano.

Ora, riunire queste due personalità è proprio l'ambizione della mostra. Molte, le sezioni che ripercorrono la biografia dell'artista: "Una vita negli autoritratti", con la famosa tela di Brera (Autoritratto con altre figure); "Il laboratorio del 'vivo'", testimoniato dai lavori di più intenso realismo come il Ragazzo che beve; "L'Accademia degli Incamminati", sugli esordi bolognesi; "Un furioso amore per la vera pittura italiana", sull'incontro con Venezia; "Alla ricerca di nuovi sbocchi professionali"; "Roma: il sogno dell'antico e la lezione dei moderni"; "Al servizio del cardinale Odoardo Farnese"; "Il nuovo Raffaello".

Iniziative didattiche corredano poi la manifestazione, integrata da un percorso che racconta ai bambini cosa succedeva nella "bottega" dei Carracci, mentre un supporto multimediale permette con alcuni filmati, ai più frettolosi, la visita virtuale agli affreschi bolognesi Fava, Magnani e Sampieri e alla galleria Farnese. E non è tutto, perché la visita comprende l'allestimento espositivo intitolato "Annibale, talento e impazienza", pensato espressamente presso la Pinacoteca nazionale di Bologna per consentire al pubblico una visibilità completa sulla produzione di Annibale conservata in città ( www.pinacotecabologna.it).

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