Rivista "IBC" XIV, 2006, 2

Dossier: Oltre il Codice

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Lineamenti degli interventi correttivi e integrativi e correttivi: i beni culturali

Daniele Carletti
[Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali]

Ancora una volta l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, con encomiabile tempismo, ha offerto agli "addetti ai lavori" l'opportunità di incontrarsi e scambiare informazioni e idee, ma anche di illustrare e chiarire cosa "bolle in pentola" nel settore della legislazione dei beni culturali. Nella precedente occasione (maggio 2004), si trattò di delineare e commentare i tratti salienti del Codice dei beni culturali e del paesaggio, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore: gran parte degli intervenuti a quell'incontro furono assai severi nel valutare prima facie un testo che aveva mosso i primissimi passi. Mi piace pensare che, a una successiva e più meditata lettura, e tenendo conto di questo anno e mezzo di esperienza applicativa, quei primi giudizi siano stati rivisti e, quanto meno, parzialmente corretti in senso positivo.

Negli stessi giorni del seminario erano in corso a Roma, tra i rappresentanti delle istituzioni interessate, una serie di sedute tecniche propedeutiche alla riunione politica della Conferenza unificata, chiamata a esprimersi sugli schemi di decreti modificativi del Codice, elaborati dal Ministero in attuazione dell'articolo 10, comma 4, della Legge 6 luglio 2002, n. 137, recante la delega alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali.

Si tratta di due distinti provvedimenti, l'uno relativo alla materia dei beni culturali, l'altro a quella del paesaggio, predisposti da due commissioni appositamente costituite presso l'Ufficio legislativo del Ministero. La scelta di proporre le modifiche in via disgiunta per i singoli settori scaturisce dalla consapevolezza del diverso grado di incisività degli interventi e dalla conseguente, diversificata risposta che in ordine a essi si è avuta nel confronto con le Regioni e gli enti territoriali minori.

In questa sede mi soffermerò sul primo di tali provvedimenti, concernente le Parti I, II e V del Codice. Trattandosi della prima riforma organica dell'ordinamento di settore, precedentemente costituito dalle leggi "Bottai" del 1939 e dalla normativa sugli archivi del 1963, il Codice paga certamente lo scotto della novità e, al di là delle prevedibili difficoltà incontrate dagli operatori nell'adeguarsi a una logica parzialmente nuova, ha evidenziato, in talune sue disposizioni, mende di natura formale suscettibili di ingenerare equivoci interpretativi e, dunque, applicazioni difformi. Occorreva poi tener conto delle disposizioni intervenute successivamente nelle materie disciplinate e di quelle che nel frattempo sono venute meno, in forma sia esplicita che implicita.

Si è così proceduto, da un lato, alla riformulazione di alcune proposizioni normative, onde rendere più intelligibile la volontà del legislatore e favorirne l'efficace attuazione; dall'altro, alla espunzione dal testo previgente delle disposizioni abrogate, ovvero alla sua integrazione o comunque al coordinamento con le norme sopravvenute. Il lavoro è stato condotto, naturalmente, in aderenza ai medesimi principi e limiti posti dal legislatore delegante ai redattori del Codice, con particolare riguardo all'indicazione relativa allo "snellimento e abbreviazione dei procedimenti" e al divieto di "ulteriori restrizioni alla proprietà privata", fermi rimanendo gli attuali strumenti della tutela. Nell'impossibilità di dar conto di tutti i "ritocchi" proposti, vorrei soffermarmi solo sugli interventi di maggior rilievo.

 

Iniziamo dalla questione delle collezioni numismatiche e dalla recente disposizione di cui all'articolo 2-decies del Decreto legge 26 aprile 2005, n. 63, introdotto dalla Legge di conversione 25 giugno 2005, n. 109. Con essa, in primo luogo (comma 1), si è proceduto alla sostituzione della formula contenuta alla lettera b) dell'Allegato A, parte A, numero 13 del Codice, con la seguente proposizione: "Collezioni aventi interesse storico, paleontologico, etnografico o numismatico, a eccezione delle monete antiche e moderne di modesto valore o ripetitive, o conosciute in molti esemplari o non considerate rarissime, ovvero di cui esiste un notevole numero di esemplari tutti uguali".

Ricordiamo che l'Allegato in parola riproduce fedelmente il documento costituente allegato sia del Regolamento CEE n. 3911/92 sulla esportazione di beni culturali oltre le frontiere dell'Unione europea (UE), sia della direttiva CEE n. 93/7 sulla restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro. Il Codice riporta detto documento per un duplice scopo: segnalare le tipologie di beni culturali in ordine alle quali vige l'obbligo di dichiarazione preventiva di esercizio del commercio e di annotazione dettagliata delle operazioni commerciali nell'apposito registro (articolo 63); individuare le tipologie di beni culturali la cui esportazione fuori dal territorio UE abbisogna della licenza rilasciata dagli uffici di esportazione (articolo 74).

In secondo luogo (comma 2), il richiamato articolo 2-decies del Decreto legge n. 63/05 ha sottratto le monete aventi le caratteristiche sopra descritte dall'obbligo di denuncia previsto dall'articolo 59 del Codice, imposto a tutti coloro che trasferiscono la proprietà o la detenzione di beni culturali anche ai fini dell'eventuale esercizio dell'acquisto in via di prelazione da parte dello Stato o degli enti territoriali.

In sostanza, la norma in questione ha preteso di differenziare le monete antiche dalle altre cose suscettibili di tutela, attribuendo a esse una sorta di status di bene culturale minore, per effetto del quale è stata rimessa al proprietario, e non all'autorità competente, la valutazione circa la sussistenza e il grado dell'interesse culturale posseduto. I parametri di detta valutazione sono dalla norma stessa individuati, come si è visto, nel "modesto valore", nella "ripetitività", nel "notevole numero di esemplari tutti uguali", ecc.; e sulla scorta di essi il proprietario può decidere di non denunciare ai competenti organi ministeriali (soprintendenze di settore) gli atti che comportino il trasferimento della proprietà o della detenzione, in quanto riferibili a monete di poco o punto interesse culturale.

Al di là delle conseguenze pratiche, la novella legislativa ha indubbiamente introdotto nel sistema della tutela elementi di incertezza e di squilibrio che andavano prontamente eliminati, pur senza sottovalutare l'esigenza di conferire alle cose di interesse numismatico una maggiore visibilità nell'ambito degli oggetti meritevoli di tutela, così come richiesto dal mondo del collezionismo.

Tale è la finalità delle modifiche predisposte al riguardo dalla competente Commissione, aventi a oggetto l'articolo 10 del Codice. In virtù di esse, mentre al comma 3, lettera e), accanto ai tradizionali criteri di valutazione circa la valenza culturale delle collezioni, ereditati dalla legge fondamentale del '39 (tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali), si inserisce la "rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica", al comma 4, lettera b), si evidenzia come l'interesse numismatico debba essere rinvenuto nella rarità o nel pregio delle singole monete, elementi da giudicare in rapporto "all'epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione".

Come a dire che non è possibile valutare l'interesse numismatico in base a criteri come la "ripetitività" (o serialità) o il "notevole numero" o il "modesto valore" (di mercato, si intende), che non possono assumersi validi in assoluto, per tutte le epoche e le culture, e possono rivelarsi fuorvianti; ma è invece necessario, a tale scopo, avere riguardo al pregio o alla rarità del "pezzo", ricavandoli dal grado di raffinatezza delle tecniche di conio, dalle leghe utilizzate e dalla percentuale in esse di metallo nobile e, dunque, in ultima analisi, dall'epoca cui risale la moneta. In quest'ottica, la serialità non è indizio di minor valore culturale, in quanto, com'è noto, i rinvenimenti di "tesoretti", ossia proprio di serie di monete spesso della stessa epoca e dello stesso valore, costituiscono eventi di grande rilievo perché permettono la ricostruzione dei flussi monetari dell'antichità e, conseguentemente, delle vicende legate agli scambi e ai commerci del mondo antico.

 

Una delle modifiche di maggior rilievo riguarda il comma 10 dell'articolo 12. Nel testo vigente, tale norma fa salva l'applicabilità delle disposizioni (articolo 27, commi 8, 10, 12, 13 e 13-bis, del Decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella Legge 24 novembre 2003, n. 226) che hanno introdotto una procedura transitoria per la verifica dell'interesse culturale degli immobili pubblici e nelle quali, tra l'altro, è stabilito che, "in sede di prima applicazione", la mancata comunicazione al richiedente dei risultati della verifica, da parte dei competenti uffici del Ministero, entro il termine di 120 giorni dalla richiesta "equivale a esito negativo della verifica".

Tali disposizioni, unitamente a quelle contenute ai primi sette commi dello stesso articolo 27, che hanno introdotto nell'ordinamento - nelle more dell'approvazione del Codice - l'istituto della verifica dell'interesse culturale per i beni di appartenenza pubblica, disciplinando le forme di presentazione della relativa richiesta e le conseguenze derivanti dai possibili esiti del procedimento, risultano oramai inapplicabili.

Ciò avviene in quanto - a prescindere dalla facile constatazione che, con l'entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio (1 maggio 2004), la procedura "a regime" della verifica in questione ha sostituito a ogni effetto quella delineata nell'articolo 27 del Decreto legge n. 26/2003 - deve comunque considerarsi esaurita quella fase di "prima applicazione" dell'istituto medesimo, cui era funzionale la procedura disciplinata in via transitoria dai commi 8-12 del predetto articolo 27 (e, più in dettaglio, dal Decreto interdirigenziale 6 febbraio 2004, sottoscritto dal capodipartimento per i beni culturali e paesaggistici e dal direttore generale dell'Agenzia del demanio in attuazione delle disposizioni citate, così come previsto dal comma 9 dello stesso articolo). Infatti, la fase di prima applicazione non poteva che coincidere con il lasso di tempo intercorrente tra l'avvio e la conclusione delle operazioni di verifica in ordine ai beni inclusi negli elenchi predisposti e presentati ai sensi del menzionato decreto.

Ma c'è una ulteriore, importante ragione da addurre: l'attuale impossibilità di ricorrere al meccanismo del silenzio-assenso, previsto dal comma 10 dell'articolo 27, la cui inapplicabilità ai procedimenti concernenti i beni culturali e paesaggistici è stata formalmente sancita dall'articolo 20, comma 4, della Legge n. 241/90 (nel testo novellato dall'articolo 3, comma 6-ter del Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, così come modificato dalla Legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80), che certo costituisce principio generale dell'ordinamento.

Tali motivi sono alla base del duplice intervento proposto: da un lato, sostituire, al comma 10 dell'articolo 12 del Codice, la disposizione di salvaguardia appena descritta con una proposizione normativa che, in risposta alle esigenze di speditezza che da sempre accompagnano le procedure di dismissione degli immobili pubblici, cui spesso si ricorre per "aggiustare" i conti dello Stato, conferma il termine finale di 120 giorni per la conclusione del procedimento di verifica; dall'altro, abrogare espressamente i commi dall'1 al 12 del più volte richiamato articolo 27 del Decreto legge n. 269/2003.

 

Altra innovazione da segnalare è quella relativa agli articoli 29 e 182 in tema di formazione professionale dei restauratori e dei loro collaboratori. Le modifiche apportate all'articolo 29 perseguono una duplice finalità.

In primo luogo (comma 9), come riconoscimento della tradizione italiana del restauro e del livello di eccellenza che contraddistingue gli operatori e le scuole del settore, lo scopo è attribuire all'esame conclusivo dei corsi di restauro svolti presso le "scuole di alta formazione e di studio" il valore di esame di Stato e, al contempo, sancire l'equiparazione del titolo rilasciato a seguito del superamento di detto esame al diploma universitario di secondo livello (laurea specialistica o magistrale). Viene in tal modo conferita dignità formale all'equivalenza che, nella sostanza, ossia nell'esercizio dell'attività professionale, risulta già stabilita dall'articolo 7, comma 1, del Decreto ministeriale 3 agosto 2000, n. 294 ("Regolamento concernente individuazione dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici").

In secondo luogo (comma 11), l'obiettivo è coinvolgere le università nella elaborazione e conclusione di accordi finalizzati alla creazione di centri di ricerca, sperimentazione, studio e attuazione di interventi in materia di restauro, riconoscendo altresì alle medesime istituzioni un ruolo paritario, rispetto al Ministero e alle Regioni, nella istituzione, presso i suddetti centri, di corsi di alta formazione per l'insegnamento del restauro.

La disciplina relativa all'insegnamento del restauro, contenuta nell'articolo 29 del Codice, potrà dirsi "a regime" soltanto allorché saranno operanti i decreti attuativi previsti dai commi 7, 8 e 9 del medesimo articolo, nei quali sono definiti i profili di competenza dei soggetti da formare, i criteri e gli standard di qualità del percorso formativo, le modalità di accreditamento e i requisiti di organizzazione e funzionamento delle scuole. Da quel momento, la qualifica di restauratore potrà essere acquisita esclusivamente in base alla predetta disciplina.

Medio tempore valgono le disposizioni transitorie di cui all'articolo 182 del Codice, alle quali la Commissione ha ritenuto di dover porre mano affinché - fermo restando il riferimento alla regolamentazione vigente (contenuta nel Decreto ministeriale 3 agosto 2000 come modificato dal Decreto ministeriale 24 ottobre 2001, n. 420) - tale riferimento risulti più chiaro ed esaustivo, indicando in modo dettagliato requisiti e procedure finalizzati al conseguimento delle qualifiche di restauratore e collaboratore restauratore di beni culturali.

 

Da ultimo vorrei accennare al complesso delle norme disciplinanti la valorizzazione, dettate nel Titolo II della Parte seconda del Codice. L'esigenza della quale occorreva farsi carico era quella di correggere norme che, in sede di concreta applicazione, si sono mostrate non pienamente adeguate all'obiettivo perseguito. La principale causa è stata da più parti individuata nella "ritrosia" del legislatore nel consentire, ai soggetti istituzionali titolari della funzione di valorizzazione, di affidarsi agli strumenti e alle logiche di tipo privatistico laddove, per carenza di strutture o di risorse adeguate, non risulti possibile il perseguimento diretto dell'interesse pubblico alla migliore valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica; avendo piuttosto scelto di creare degli ibridi difficilmente gestibili e scarsamente attraenti per i potenziali investitori.

Inoltre, è stata avvertita la necessità di sganciare gli accordi interistituzionali per la valorizzazione integrata, previsti dall'articolo 112, dalla dimensione regionale, riferendoli ad ambiti territoriali di estensione anche più limitata, essendo rilevante, ai fini della valorizzazione, la "vocazione" culturale del territorio, piuttosto che la sua ampiezza.

Infine, si è dovuto tener conto di un indirizzo teorico che negli ultimi tempi ha costituito oggetto di acceso dibattito politico e di particolare attenzione da parte degli organi di informazione. Mi riferisco alla tesi secondo cui la gestione dei musei deve essere improntata a logiche imprenditoriali ed essere, dunque, capace di produrre reddito; tesi che trae spunto dall'impropria comparazione dei nostri "luoghi della cultura" con omologhe istituzioni straniere, soprattutto statunitensi, le quali - si assume - riescono a conseguire utili in misura almeno adeguata alla copertura delle spese di gestione.

In realtà, com'è noto a tutti gli esperti del settore, negli Stati Uniti, paese dove più diffusa è la presenza di musei a gestione privata, si considera un grande successo quando un istituto riesce a coprire con introiti propri (biglietteria, ristorante, bookshop, ecc.) il 18-20% delle spese. Il resto viene coperto con il patrimonio liquido del museo, derivante dalla donazione originaria e incrementato dalle ulteriori, successive donazioni private (di notevole entità perché incoraggiate da una totale defiscalizzazione) nonché con i contributi pubblici. In mancanza di tali requisiti, l'idea di "mettere a reddito" i musei italiani si risolverebbe istantaneamente nella chiusura di tutti i musei e monumenti italiani, con la sola eccezione del Colosseo, unico monumento i cui introiti di biglietteria attualmente superano i costi di gestione.

Le disposizioni in materia di valorizzazione, già concordate con i rappresentanti regionali nelle riunioni tecniche preparatorie della Conferenza unificata, e sulle quali quest'ultima si è espressa favorevolmente, sono state ulteriormente rivisitate su specifica indicazione delle Commissioni parlamentari, al fine di delineare più chiaramente i vari piani dell'azione amministrativa orientata alla valorizzazione del patrimonio culturale. Si è così operata una netta distinzione tra fase della individuazione degli obiettivi, fase della pianificazione strategica e della programmazione, fase infine dello svolgimento delle concrete attività.

Si è voluto dare particolare risalto alla seconda fase, confermando a questo scopo, quale strumento deputato, l'accordo tra Stato, Regioni e autonomie locali, ma prevedendo anche, in alternativa a esso, la costituzione di appositi soggetti giuridici cui affidare l'elaborazione dei piani strategici di valorizzazione culturale e il loro sviluppo. Ovviamente, le scelte strategiche vanno riferite a un territorio in ragione delle sue omogeneità culturali e della sua vocazione economica, cosicché esse non necessariamente debbono avere riguardo a una specifica circoscrizione amministrativa. A tale scopo si è introdotta la nozione di "ambito territoriale definito", utilizzando una formula già nota, nella sostanza, alla legislazione regionale nonché agli studi di economia del territorio sviluppati presso le strutture di ricerca universitarie.

Per quanto riguarda la fase attuativa della valorizzazione, è stato previsto che le singole attività in cui essa si concretizza, quando non svolte direttamente dalle amministrazioni per il tramite delle proprie strutture interne, siano affidate in concessione a terzi con i sistemi dell'evidenza pubblica. All'affidamento in concessione possono provvedere sia le singole amministrazioni titolari della funzione di valorizzazione, sia i soggetti giuridici appositamente costituiti per la pianificazione strategica, quando a essi sia stato conferito l'uso dei beni da valorizzare. I rapporti con i concessionari restano regolati dal contratto di servizio, i cui contenuti tuttavia sono stati arricchiti: si è stabilito, infatti, il sostanziale recepimento, nel contratto, del progetto di gestione e della relativa tempistica, così come approvati dal Ministero. Vi debbono inoltre essere indicati i livelli qualitativi delle attività, le singole professionalità degli addetti, i servizi essenziali alla pubblica fruizione del bene, che debbono essere comunque garantiti.

Le modifiche proposte dal Ministero per i beni e le attività culturali alle norme vigenti sono orientate a differenziare in modo netto la funzione di valorizzazione culturale, tipica dell'istituzione museale, dalle singole attività a essa strumentali (servizi di accoglienza e ospitalità, biglietteria), queste sì suscettibili di produrre reddito; e a creare le premesse per efficaci sinergie tra le attività di valorizzazione, i settori produttivi maggiormente interessati e le infrastrutture, facendo dei siti culturali il volano di uno sviluppo economico capace di coinvolgere tutta l'area di pertinenza.

 

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