Rivista "IBC" XIV, 2006, 2
musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi
"L'Odissea dell'oggetto" sta scritto su una pagina di un vecchio taccuino di Sergio Romiti ritrovato tra gli oggetti personali del maestro. Un appunto gettato lì, annotato in maniera rapida e distratta, criptico nel suo isolamento. Odissea richiama direttamente Ulisse ma anche Robinson Crusoe: come loro, Romiti si sentiva un naufrago, della vita, del destino, della condizione umana perennemente sospesa. L'Odissea dell'oggetto è anche il titolo del catalogo della mostra chiusasi a Casa Saraceni, Bologna, il 10 maggio 2006, una mostra nata dalla preziosa, in tutti i sensi preziosa, donazione che la moglie, Giovanna Grassi Romiti, ha deciso di affidare alla Fondazione Cassa di risparmio in Bologna. Un gesto importante per lei che generosamente se ne separa e per la Fondazione che l'accoglie, perché una donazione rappresenta un onore ma anche un onere, una responsabilità da rispettare al meglio.
Soprattutto per un lascito di questo tipo, oltre 50 opere, tra cui alcuni bellissimi disegni giovanili, che vanno ad affiancarsi a quelle che la Fondazione aveva già acquisito nel corso degli anni (a dimostrazione di un interesse e di un apprezzamento vivo da sempre), opere capaci di delineare lungo il corso di cinque decenni l'intera evoluzione artistica della carriera di Romiti. La critica è ormai unanime nel riconoscervi tre periodi fondamentali, tre momenti non indipendenti ma che nel loro svolgersi finiscono con l'essere tre tappe di quello che, sfogliando le pagine del catalogo, appare come un naturale unico movimento, un'onda lunga in cui tutto muta progressivamente ma nulla cambia nella sostanza.
Il primo periodo è quello che va dal 1947 al 1957 circa, quello che risente ancora dell'inevitabile influenza delle avanguardie, espressionismo e cubismo su tutte, dove l'oggetto è presente ma rimasticato, interpretato, filtrato, vittima di un'odissea, appunto, dalla quale ne esce stremato e irriconoscibile. Un'indagine su pochi temi "casalinghi": le mensole, le cucine, i tavoli con sopra le nature morte. E poi le macellerie e le carcasse, le stesse di Carracci e di Rembrandt, delle quali però nulla è rimasto. Solo il gancio, il cosiddetto appiglio, su cui la critica ha molto insistito, a cominciare da Calvesi, interpretandolo in chiave necessariamente metaforica. Riferendosi a questo gruppo di opere Arcangeli ha parlato di "viaggio intellettuale intorno alla propria stanza". Intellettuale, e non sentimentale, perché Romiti elabora attraverso l'analisi meditativa e psicologica, isolato nel suo orgoglioso individualismo fuori da mode a priori, che ha fatto spesso parlare, equivocando, di snobismo e torri d'avorio. Da tali presupposti non può non venire in mente un altro grande solitario bolognese, il più grande dei solitari bolognesi: Giorgio Morandi.
Poi però il rapporto con l'oggetto si fa via via più evanescente, esso diventa semplice traccia, testimone di un passaggio di cui rimane solo la scia. È il preludio al secondo momento dove l'oggetto sparisce in modo definitivo. E non sparisce solo l'oggetto ma anche l'atto che lo vede. È come se calasse il sipario e diventasse tutto nero. Eccoli dunque i famosi "neri" di Romiti, le sue opere probabilmente più rappresentative e originali. Nel nero Romiti rimarrà rinchiuso 15 anni, come fa notare il curatore Marco Antonio Bazzocchi nel suo saggio, gli anni più difficili per lui e più affascinanti per noi. Un buio della mente paragonato da più parti a una pellicola cinematografica bruciata, che scorre a vuoto. Una sequenza (ecco di nuovo la scia, la "stria" come la chiamava lui) interrotta da uno squarcio di luce che irrompe, un bianco abbacinante, forse la luce del proiettore, uno spiraglio (ecco di nuovo l'appiglio, il gancio) per non lasciarla vinta al nero.
Quando Romiti riemerge da questi 15 anni di nero riappaiono i colori. Siamo agli inizi degli anni Novanta. In mezzo c'è un buco di quasi un decennio in cui Romiti lavora poco, si dedica all'incisione, medita il ritiro dalle scene. Quando riemerge il peggio sembra superato. "Remake" chiama queste opere, alludendo a quel cinema che egli amava così tanto (tutti i solitari, pare, amano il cinema): opere caratterizzate da maggiore libertà, leggerezza, disimpegno, come l'età matura reclama. Ma poi un giorno Sergio Romiti si è arreso. Era il 2 marzo 2000. Può sembrare strano che un uomo dopo una vita di tormenti decida di farla finita a 72 anni compiuti, dopo che quasi tutte la burrasche sono alle spalle. Ma è proprio alla fine della vita, quando il corpo, come scrive Giovanna Grassi, diventa solo il veicolo delle debolezze, che la battaglia contro il nero si fa impraticabile. Paradossalmente, continua Giovanna, il darsi alla morte fu, sotto un certo aspetto, la sua ultima dichiarazione d'amore per la vita. La sua lunga testimonianza in catalogo, tanto sincera quanto lucida, accorata e commovente tanta è la partecipazione, è un ritratto impagabile dell'uomo e dell'artista Romiti, pieno di spigoli e d'amore. Amore sofferto, forse imperfetto. Ma del resto "solo in quella imperfezione noi viviamo. E senza saperlo siamo felici".
L'odissea dell'oggetto, a cura di M. A. Bazzocchi, Bologna, Bononia University Press, 2006, 168 p., _ 30,00.
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