Rivista "IBC" XIII, 2005, 4

biblioteche e archivi / convegni e seminari, interventi

Gli archivi degli architetti rivelano voci e raccontano storie ogni volta diverse, a seconda delle esigenze e delle abilità particolari dei ricercatori che li interrogano.
Tutti i segni di un fondo

Gloria Bianchino
[direttrice del Centro studi e archivio della comunicazione dell'Università di Parma]

Il 23 settembre 2005 a Bologna, nell'ambito di "Artelibro. Festival del libro d'arte" ( www.artelibro.it), la Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna ha promosso il convegno "Architetture di carta", dedicato agli archivi di architettura. Numerosi istituti culturali conservano fondi di architetti e ingegneri, spesso indagati e valorizzati in modo insufficiente. Disegni, relazioni di progetto, fotografie e corrispondenze epistolari costituiscono patrimoni documentari di straordinario interesse, non soltanto per la storia dell'architettura ma anche per una migliore conoscenza del nostro paese e del suo sviluppo urbanistico recente. Durante il convegno sono stati illustrati alcuni progetti di ricerca e di valorizzazione, con l'approfondimento di tematiche specifiche: il trattamento dei documenti (riordino, inventariazione e catalogazione) e la costituzione di banche dati con relative immagini, per favorire un accesso sempre più ampio. Pubblichiamo in queste pagine l'intervento di Gloria Bianchino, direttrice del Centro studi e archivio della comunicazione (CSAC) dell'Università di Parma ( www.unipr.it/arpa/csac/home.htm).

 

Scrive José Saramago in Tutti i nomi: "Per non perdere il bandolo della matassa in un argomento così trascendentale, conviene sapere prima di tutto dove sono ubicati e come funzionano gli archivi e gli schedari. Sono divisi, strutturalmente e fondamentalmente, o, se vogliamo usare parole semplici in obbedienza alle leggi di natura, in due grandi aree, quella con gli archivi e gli schedari dei morti e quella con gli schedari e gli archivi dei vivi". Purtroppo un sistema di schedatura così apparentemente semplice non funziona per gli archivi dei nostri architetti perché, riprendendo le parole di Saramago: "Gli incartamenti di coloro che non sono più in vita sono sistemati alla bell'e meglio nella parte posteriore dell'edificio la cui parete di fondo, a seguito dell'aumento impari del numero dei defunti, dev'essere sistematicamente abbattuta e rialzata di nuovo alcuni metri più avanti".1 Una realtà costruita e pensata solo attraverso gli archivi e i documenti, e il depositario di tutto questo ben di Dio è il Signor José, un onesto e solerte funzionario che passa la vita, un po' come tutti noi, a raccogliere ritagli, oggetti, francobolli, cartoline, a costruire cioè una realtà parallela. Un bravo funzionario, un esempio di abnegazione nel lavoro, fino a quando non si imbatte in una serie di ritagli di giornali e nella foto di una sconosciuta. Il mite funzionario diventa ladro e falsario pur di rintracciare la donna senza volto.

Mi scuso per la lunga citazione ma il bel libro di Saramago sembra un omaggio a tutti noi che frequentiamo gli archivi, sembra voler svelare i recessi segreti del fare ricerca attraverso "le carte", i disegni, i documenti. Una metafora del nostro lavoro di schedatori, anzi, meglio, di ricercatori. Schedare è fare ricerca e fare ricerca è sempre un percorso individuale: per questo non credo a un sistema di catalogazione assoluto. Ogni ricercatore, davanti a un archivio, ha necessariamente un approccio diverso, ascolta quanto le carte hanno da dire con orecchie diverse.

C'è l'archivio, il fondo dell'architetto, ma questo dato apparentemente oggettivo finisce per avere diversi percorsi di lettura a seconda delle diverse formazioni dei diversi approcci. C'è l'inventario, l'elenco dei progetti, ma vi sono anche i disegni, le piante. Ricostruiscono un edificio, come è stato costruito, i diversi passaggi, i ripensamenti dell'architetto, le diverse soluzioni formali. Ma c'è anche il diverso modo di disegnare, la cultura del disegno che fa capo a una scuola, a una diversa formazione. La pianta di un disegno di architettura ci dice quando il disegno è stato eseguito, se all'inizio del Novecento, se in epoca razionalista, se a metà degli anni Sessanta e così via, perché risponde a diversi stilemi di scrittura, a diversi modelli, a scuole diverse di progettazione. Con interpretazioni critiche diverse a seconda dei diversi modelli di progettualità architettonica.

Il razionalismo prima, ma soprattutto il neorazionalismo progettuale come recupero dell'avanguardia perduta degli anni Trenta, e il nuovo e diverso rapporto con la storia e col paesaggio, emergono attraverso l'analisi dei disegni di alcuni dei protagonisti: da Ignazio Gardella a Milano, per esempio, a Carlo Ajmonino a Roma. Il primo, attraverso il rapporto con il passato, con la storia, ripensa la cultura della Bauhaus, anche attraverso il disegno; il secondo a Roma ha un percorso diverso perché qui, invece, pesa il rapporto con l'avanguardia futurista e con le ricerche della critica sulle avanguardie, anche le più recenti, come la Pop Art. Scelte che diventano opzioni di stile grafico e di resa nei disegni di architettura.

E questo è un modo, antico forse, ma ancora attuale, per fare ricerca. Certo collegato più alla storia dell'arte che non a quella dell'architettura, ma per esempio Giulio Carlo Argan, allievo di Lionello Venturi, che nel dopoguerra ha introdotto in Italia la ricerca del Warburg, intendeva la funzione del critico, dello storico, come interprete globale, e quindi la divisione fra il modello di ricerca dello storico dell'architettura e quello dello storico dell'arte era per lui da superare. È Argan, infatti, a proporre una interpretazione delle opere collegata alla committenza, alla riflessione filosofica, alla scrittura letteraria.

Ma vorrei tornare al problema della analisi del progetto e alle sue possibili strade. Ogni architetto si è formato su un insieme di manuali di architettura diverso, fin dai manuali di grafica o di composizione che insegnano a progettare sulla base delle tipologie. Un disegno degli anni Trenta, se si lega alla scuola romana o di Marcello Piacentini o di Pier Luigi Nervi, lo comprendi subito, esistono scritture diverse, anche e proprio il tipo di strumenti grafici usati: per esempio il carboncino per Nervi, la matita per Giò Ponti oppure una matita sottilissima per Gardella (il cui disegno era infatti molto astratto). Ajmonino per esempio era legato, per cambiare periodo, alla scuola romana degli anni Sessanta o Settanta e i suoi rapporti potevano essere con Tano Festa o Mario Ceroli. Naturalmente questa potrebbe sembrare un'analisi formalista, ma ci porta a capire i rapporti con il contesto, il nesso con le diverse situazioni storiche, e anche questo mi sembra quindi un percorso di ricerca indispensabile.

Un altro problema è quello del collegamento fra diversi archivi di architettura oppure, all'interno dello stesso archivio, fra i diversi momenti della ricerca. Faccio un esempio, quello di Ettore Sottsass, che comincia in clima Jugend: i suoi disegni degli inizi sono legati alla civiltà del mondo austro-ungarico. Poi frequenta Luigi Spazzapan a Torino e scopre una dimensione del segno e della pittura che ha a che fare con la storia dell'arte e non con la tradizione del disegno architettonico. Finita la guerra è fra i protagonisti e gli organizzatori della mostra "Arte astratta e concreta" che viene fatta a Milano e poi a Roma insieme a Bruno Munari, Max Bill e tanti altri. Sottsass partecipa al Movimento d'arte concreta nel 1948, i suoi disegni sono nelle cartelle pubblicate dal movimento e, dei due che presenta, uno è attento alla scrittura segnica americana, l'altro alla scrittura francese: per fare due nomi, Pollock e Soulanges. Quindi Sottsass diventa architetto razionalista, come mostrano per esempio le costruzioni per l'INA-Casa. Poi in tutti i suoi disegni degli anni Cinquanta, come quelli per tappeti e stoffe, la scrittura di Sottsass è del tutto legata all'informale. Quindi, dopo altri passaggi che non sto a riassumere, diventa architetto radicale e contesta la progettazione architettonica tradizionale, anche e proprio attraverso il disegno, che è legato al fumetto, alla cultura pop. Dunque non è possibile restare all'interno della storia di un archivio per costruirne le matrici o comprenderne lo sviluppo.

Faccio notare che mai, per quanto sappia, un economista è stato chiamato a studiare la storia di un archivio di architettura; ora, però, mentre sta nascendo un discorso legato alle imprese, la ricostruzione delle concrete vicende dei diversi progetti potrebbe essere meglio analizzata partendo dai materiali, dai costi, dalle difficoltà di realizzazione, dai mutamenti di parere della committenza, dai conflitti interni alla struttura di progettazione, ecc.

Un'altra possibile chiave di ricerca negli archivi è legata al problema del restauro degli edifici; molte volte degli archivi storici, depositati presso collezioni pubbliche o studi privati, vengono utilizzati per il restauro di strutture danneggiate oppure distrutte. Posso ricordare due casi dei quali ho avuto diretta esperienza: quando è stato distrutto il Padiglione d'arte contemporanea (PAC) di Gardella, i progetti originali, che erano conservati al Centro studi e archivio della comunicazione dell'Università di Parma, sono stati utilizzati per una ricostruzione filologica importante; la stessa cosa è avvenuta dopo la vicenda dell'aereo che si è infilato a metà del grattacielo Pirelli. Posso aggiungere che nel caso del grattacielo Pirelli i restauratori si sono preoccupati anche di ricostruire i materiali utilizzando vecchie pubblicità e lettere e altri materiali di archivio, per ritrovare le imprese o operare un restauro con i medesimi materiali.

Bisogna aggiungere che la definizione di "archivio" viene dalla tradizione degli archivi pubblici, di stato o comunali, o privati, e anche la distinzione notarile fra archivio "vivo" e archivio "morto" mi sembra superata o inadeguata. Infatti ogni volta che si consulta, che si attraversa un archivio, lo si trasforma e se ne muta il senso; l'archivio non era morto anche se chi lo ha disegnato è scomparso, ma diventa vivo ogni volta che lo si interroga secondo un differente punto di vista. Dunque tutti gli archivi sono vivi se sono consultati. Credo che il dibattito eterno e un poco defatigante sulla schedatura degli archivi, su come costruire una scheda tipo, su come procedere nella organizzazione del catalogo, su come metterlo on line, debba essere riconsiderato alla luce di una necessità urgente e non ulteriormente procrastinabile: pubblicare tutti gli archivi in raccolte pubbliche, in modo da permettere un'informazione immediata, indispensabile per gli studiosi e per i giovani. Esiste il problema della conservazione dei materiali: gli archivi cartacei sono delicatissimi, e non è possibile fare accedere gli studiosi ai lucidi, per esempio quelli degli anni Trenta, che sono molto fragili, come ben sanno coloro che ne sono responsabili a vario titolo. Il trasferimento su supporto informatico dei materiali cartacei appare, quindi, irrinunciabile.

Vorrei chiudere ancora con Saramago e ancora con una visione di un archivio, la kafkiana "Conservatoria Generale dell'Anagrafe":

 

Malgrado il fastidioso problema della parete di fondo [...] è altamente lodevole lo spirito di previsione degli architetti storici che progettarono la Conservatoria Generale dell'Anagrafe, proponendo e difendendo, contro le opinioni conservatrici di certi spiriti taccagni rivolti al passato, l'installazione di cinque gigantesche strutture di scaffali che si ergono fino al soffitto alle spalle degli impiegati, più arretrata la sommità della scaffalatura di centro, che sfiora quasi la grande sedia del conservatore, più prossime al bancone quelle delle scaffalature laterali estreme, mentre le altre due restano, per così dire, a metà strada. Considerate ciclopiche e sovrumane da tutti gli osservatori, queste costruzioni si estendono all'interno dell'edificio più di quanto la vista riesca a cogliere, anche perché da un certo punto in poi comincia a regnare l'oscurità e le lampade si accendono solo quando è necessario consultare qualche pratica.

 

Credo che questo di Saramago sia un modo per esorcizzare, come del resto faceva Kafka, la presenza assurda di una memoria talmente dilatata e incombente da diventare uno spazio illeggibile ed estraniato.

 

Note

(1) J. Saramago, Tutti i nomi, Torino, Einaudi, 2001, p. 5.

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