Rivista "IBC" XIII, 2005, 3
convegni e seminari, linguaggi
Scrivendo al Senato veneziano il 12 aprile 1612, il grande storico Paolo Sarpi, frate servita e consulente giuridico (in iure) della Serenissima Repubblica, rifletteva sulla necessità "di custodir il mare e di navigar per quello". Una necessità essenziale per il benessere economico e la floridezza commerciale dell'unico Stato politicamente indipendente nell'Italia della Controriforma e della dominazione spagnola. Il "mare" cui Sarpi si riferisce è, ovviamente, l'Adriatico, base della potenza finanziaria e militare di Venezia, il mare "Superiore" degli antichi portolani e delle carte nautiche (il Tirreno, invece, era il mare "Inferiore"), grande "Colfo" sulle cui coste si affacciano civiltà ed etnie diverse, ma tutte accomunate da una forte identità marinara. La terminologia usata da Sarpi è emblematica di una concezione geopolitica straordinariamente moderna: il "Colfo" (cioè golfo, ovvero mare semichiuso) implica una visione di unitarietà antropologica, che sa distinguere le reciproche fisionomie nazionali, pur nell'accezione dell'egemonia di Venezia sull'Adriatico, la quale ha "le forze maritime per diffenderlo e custodirlo".
Certamente, la trattatistica storico-politica veneziana ha esaminato il rapporto cruciale e imprescindibile intrattenuto dalla "terraferma" con l'Adriatico, divenuto nei secoli fonte di approvvigionamento di risorse e lucrosa opportunità di traffici mercantili. La costa romagnola, e altresì la regione emiliana nel suo complesso, ha invece trascurato un poco ingenerosamente la sua fisionomia marinara e le sue coste lambite dalle acque ricche di sale dell'Adriatico. Il rapporto tradizionale è piuttosto con le acque dolci del Po, il mare interno che non mancò di suggestionare Jorge Luis Borges, che lo descrive nell'Atlante come un "mare di acque dolci indefinito e forse interminabile". Lo dimostrano anche i recenti e benemeriti interventi di restauro dei molini natanti, costruiti dai maestri d'ascia in legno robusto, destinati alla macina del granoturco e alla produzione di polenta e farina, ottima per impanare lucci e storioni, monumenti di un epos popolare e folclorico splendidamente raccontato da Riccardo Bacchelli nel Mulino del Po.
Eppure, il complesso quadro morfologico e idrografico dell'Emilia-Romagna padana non può essere compreso e "custodito" in maniera appropriata se non lo si colloca nel più ampio ecosistema del mare Adriatico, che dal Po riceve nutrimento e vita, restituendo in cambio un immenso patrimonio di biologia marina e di prelibatezze alimentari. Il molinaro che spende la sua vita sugli argini e nelle golene, non è troppo diverso dal pescatore che sfida le insidie dei flutti col trabaccolo o il bragozzo: sono entrambe figure eroiche di ceti indigenti e subalterni, abituate alla fatica e alla fame, mosse da un insopprimibile istinto di emancipazione, alle quali la regione emiliano-romagnola, oggi una delle più ricche d'Europa, deve il suo primato di opulenza.
L'area sovranazionale del bacino adriatico rappresenta d'altronde, specialmente oggi con la fine della cold war e la disgregazione della Federazione Jugoslava, uno dei contesti geopolitici di maggiore interesse, nel quale le nuove configurazioni statali sostituitesi all'indistinto blocco dei paesi socialisti rivendicano lecitamente le proprie prerogative politiche e linguistiche. Se si torna per un attimo alla sistemazione dell'Europa peninsulare dopo la pace di Versailles (1919-1923), si comprendono senza difficoltà le ragioni della controversia relativa ai possedimenti costieri nell'Adriatico sorta tra il governo italiano, all'epoca guidato dal lucano Francesco Saverio Nitti, e lo stato serbo-croato-sloveno, divenuto, dopo il declino dell'impero asburgico di Austria-Ungheria, il principale antagonista dell'Italia nella difesa degli interessi in quel mare interno che per secoli aveva corrisposto al "Colfo di Venezia".
L'Istria e la Dalmazia erano in larga maggioranza slave per lingua, popolazione e tradizioni, mentre Fiume, autoproclamatasi italiana senza contiguità territoriale con la patria, diveniva il tragico emblema di un conflitto diplomatico destinato a risolversi in maniera fallimentare con il velleitario tentativo di D'Annunzio, di cui la reggenza del Carnaro rappresentò il risvolto più grottesco e inverosimile. Non che il trattato di Rapallo firmato il 12 novembre 1920 dal nuovo governo italiano di Giolitti-Sforza e il principe Alessandro I Karageorgević, reggente dal 1918 e poi re dal '21 al '34 della multietnica nazione serbo-croata-slovena, rimediasse a una realtà di conflitti e di contrasti che si faceva sempre più critica e difficilmente governabile. Ma se non altro il laborioso negoziato portò al mantenimento di Zara e del golfo di Fiume, in cambio della rinuncia alla Dalmazia. Il quadro era reso d'altronde ancora più delicato dalla eterogenea composizione delle coste orientali dell'Adriatico, dove serbi ortodossi e croati-sloveni cattolici convivevano con le numerose minoranze allogene: tedeschi, ungheresi, romeni, italiani, cui si aggiungeva una cospicua comunità di turchi musulmani.
Le analogie con la realtà di oggi sono molte, come si vede, ma per fortuna molte sono anche le differenze. Nel quadro dell'Europa comunitaria, la costituzione di soggetti nazionali autonomi come la Slovenia, la Croazia e la Serbia-Bosnia, non può che facilitare il progredire delle relazioni culturali e diplomatiche. Essendo ormai divenuta impossibile una guerra tra i paesi dell'Europa occidentale e orientale, non si pone più il problema della sicurezza delle frontiere, con un vantaggio immenso nell'ambito della Comunità, al cui interno l'"idea" nazionale prova il bisogno di rivedere le sue concezioni e i suoi tradizionali orientamenti. I fatti sono già a questo punto, il pensiero di molti cittadini europei ancora no. È un deficit culturale al quale bisogna porre rimedio, attraverso un incremento di conoscenza storica e di consapevolezza civica, specialmente là dove si avverta l'esigenza di assicurare in modo irreversibile l'unità degli Stati membri.
Dietro simili e molte altre sollecitazioni, la Facoltà di lingue e letterature straniere dell'Università di Bologna ha organizzato una "Scuola estiva in studi adriatici", che si è tenuta - né avrebbe potuto essere altrove - a Rimini dal 4 al 16 luglio 2005.1 L'iniziativa nasce da una idea di Alberto Destro, germanista di fama e preside della Facoltà, in collaborazione con due italianisti, Luisa Avellini e chi scrive. La scommessa è stata quella di sottoporre all'approvazione del Senato accademico (un po' come faceva Sarpi quando avanzava i suoi "consulti" al Senato veneziano) un progetto dai contenuti didattici e culturali ispirati a un forte convincimento pluridisciplinare, al cui interno potessero trovare accoglienza competenze storiche, economiche, politologiche, linguistico-letterarie. Studiare il mare Adriatico come luogo di contatti, scambi, incontri: di uomini, di merci, di libri, di idee.
È questo il disegno semplice, ma difficile da tracciare nelle sue linee essenziali, cui la Scuola si ispira. Ovvero, considerare il mare Adriatico per ciò che effettivamente è stato nella storia europea dell'Età moderna: un incrocio, anzi un canale di smistamento, tra le nazioni dell'Europa continentale e le regioni dell'area sudorientale, attraverso il quale confluivano, contaminandosi, energie intellettuali di diversa provenienza geografica ed estrazione culturale, che si esprimevano in molte lingue, talora omeoglotte talaltra alloglotte, scritte in alfabeti diversi: tedesco e austriaco, ungherese, slavo stocavico e slavo čacavico, veneziano di terraferma e veneziano d'oltremare, italiano, albanese, greco, moresco, turco, lingua franca dei mercanti, dialetti dei pescatori romagnoli e marchigiani, gergo dei pirati uscocchi.
Gli strumenti della comparatistica, per quanto sofisticati, appaiono insufficienti a illustrare un quadro così articolato e composito, entro il cui orizzonte spirituale si conguagliano fedi o dottrine religiose che altrove si fronteggiano con le armi degli eserciti, mentre i comportamenti sociali, sessuali, alimentari, igienico-sanitari si mescolano fino a confondersi, e dove persino la tecnica nautica risente di una sua cifra letteraria e avventurosa, nella quale riecheggia il mito invincibile della flotta romana, il cui fascino epico si lascia ancora avvertire - scrive Sarpi - "per il tempo presente, quando non resta della repubblica romana altro che il nome". È lo stesso mito al quale si richiamerà la coalizione delle forze navali europee in occasione della battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, durante la quale le forze cristiane comandate da don Giovanni d'Austria annientarono la flotta ottomana del pascià Mehmet Ali, riportando così l'Adriatico entro la sfera della civiltà europea e mettendo fine al predominio turco sul Mediterraneo.
Custodire e difendere, appunto, secondo il monito sarpiano. Ma custodire, e conservare, significa innanzitutto conoscere, esaminare, ordinare, confrontare. Per conseguire questi risultati, la Scuola ha trovato l'intelligente sostegno da parte della città che verso l'Adriatico è debitrice di un immenso sviluppo economico e sociale dagli anni Sessanta in poi. Piccolo borgo di pescatori e ortolani, con il boom successivo alla ricostruzione postbellica, Rimini si candida a divenire una capitale europea del mare, perfezionando un modello di strutture e servizi destinato a rappresentare, nell'arco di un ventennio, un episodio centrale della nostra recente storia economica. E qui si innesta l'altra sfida della Scuola: misurarsi con il fenomeno del turismo di costa, per studiarne a fondo la protostoria culturale e le premesse sociali, e verificarne le connessioni di longue durée con il bacino adriatico, che di quel fenomeno costituisce lo specchio di Narciso. Certo occorre in via preliminare sfatare quel pregiudizio negativo secondo cui il turismo balneare rappresenta una implacabile Gorgone per chiunque manifesti doti e attitudini intellettuali. Ed è proprio la nuova realtà politica scaturita dal collasso del socialismo reale e dal frantumarsi del blocco sovietico a rendere necessario un mutamento di mentalità, dove alla figura antropologica del turista nordico viene ad affiancarsi, e talora a concorrere, una inedita categoria di bagnante, che giunge dai luoghi segnati dal Danubio, dalla Moscova, dalla Vistola, dal Volga.
I riflessi di questo cambiamento geografico si configurano culturalmente come nuove necessità didattiche: nelle scuole dove ci si forma alla professione turistica si studierà il russo invece del tedesco, l'ucraino invece del francese, il polacco invece dell'inglese. Saranno familiari non più regioni quali la Baviera o la Renania o la Sassonia, bensì quelle più a Est della Boemia, della Moldavia, della Valacchia, della Carelia. Sempre di bionde si tratta, beninteso, e per il tombeur de femmes rivierasco il sex appeal della turista è senz'altro garantito. Ma bisognerà pur apprendere nuovi costumi e nuovi comportamenti, individuare nuove forme di mediazione linguistica, cimentarsi con un più ricco e vasto dominio di tradizioni. L'impresa è complessa ma non impossibile: e il tramite diretto è rappresentato appunto da quella sorta di comunità marinara dell'Adriatico che ora la storia, con le sue fasi alterne, ci riconsegna, e che può agire, come in passato, quale anello intermedio nel processo di intersezione - e ricongiunzione - tra Europa occidentale e orientale.
Non è un caso che la Provincia di Rimini, sponsor della Scuola in partnership con il Comune di Rimini e l'Ateneo bolognese, si stia dedicando con successo al coordinamento di un "Programma di iniziativa comunitaria" denominato "Interreg 3 A Transfrontaliero Adriatico", con finalità di ricerca e di sviluppo sociale nell'ambito dei territori adriatici. È un'ulteriore prova di quanto fortemente sia sentita l'esigenza dell'elaborazione comune di modelli conoscitivi, nella cui progettazione trovino posto implicazioni giuridiche e complementi economici. Quanto alla tipologia internazionale dell'Adriatico, andrà ricordato che proprio la presenza dei villeggianti tedeschi e scandinavi dei primi anni Sessanta contribuì a rendere effettivo il processo di riappacificazione dei popoli dopo la tragedia del nazifascismo e del secondo conflitto mondiale. È, forse, la prima fase del percorso accidentato e tutt'altro che lineare avente come scopo finale il conseguimento di un'Europa comunitaria. Non è inesatto affermare che il processo costituente europeo iniziasse appunto in un settore marginale della vita politica come quello turistico e vacanziero, in apparenza privo di sostanziale funzione storica, ma in realtà fattore di primo piano nel ristabilimento di una concezione europea basata sugli ideali del progresso collettivo e della equità sociale.
Oggi l'azione condotta in paesi come la Croazia e l'Albania per acquisire uno standard di vita compatibile con i livelli occidentali induce necessariamente a ripensare gli orizzonti geografici e antropologici dell'industria turistica romagnola, il cui sostentamento dipende sempre di più dalle presenze slavofone, anch'esse veramente europee, seppur ancora imperfettamente percepite sul piano politico-sociale, spesso a causa di una ostilità di maniera ereditata dalla seconda metà del secolo scorso (il Novecento, s'intende), e tuttora in evoluzione verso forme di intolleranza meno ottuse rispetto al passato, e nondimeno radicate in taluni abiti mentali largamente diffusi.
Ma qui il confronto tra centro (Ovest) e periferia (Est) trova la sua dialettica giustificazione proprio negli eventi storici ai quali il mare Adriatico ha fatto da sfondo tra XVI e XIX secolo. Non di soli conflitti si tratta, bensì di forze concorrenti a determinare una identità costiera e marinara incline a rafforzarsi in modo unilaterale, ma lasciando aperte tutte le opportunità dello scambio materiale e culturale, messo in evidenza, per limitarsi a citare uno degli esempi più significativi, dalla legge agraria veneziana per i domini di Istria e Dalmazia promulgata nella seconda metà del XVIII secolo. E basta soffermarsi per un attimo sulla toponomastica della costa orientale dell'Adriatico, per sottolineare ancora una volta la straordinaria forza degli scambi linguistici e commerciali. Il lessico toponimico, così importante dal punto di vista culturale e tanto istruttivo per la problematica politico-sociale, può aggiungere infatti elementi essenziali a questa plurisecolare storia di convivenze e contaminazioni.
In nessun altra parte d'Europa, la duplice forma, italiana e slava, dei nomi di luogo del litorale o dell'arcipelago dalmatico e istriano costituisce il contrassegno indelebile di una presenza mansueta e pacifica, non sempre priva in ogni senso di avidità coloniale ma perlomeno incapace di una strategia di sopraffazione militare. I due piani linguistici, l'italiano e lo slavo, esprimono così anche uno statuto politico, anzi etnico, la cui motivazione primaria conserva intatta l'idea dell'autonomia: Rijeka o Fiume, Rovinj o Rovigno, Krk o Veglia, Cres o Cherso, Rab o Arbe, Zadar o Zara, Sibenik o Sebenico, Split o Spalato, Hvar o Lesina, Dubrovnik o Ragusa, Lastovo o Lagosta non sono opposizioni ma sinonimi. È una lunga serie di designazioni che solo oggi può entrare nella coscienza europea senza sollecitare inutili rivendicazioni nazionalistiche, né provocare belligeranti invocazioni di proprietà territoriale.
Di tutto ciò - e di altro - la "Scuola estiva in studi adriatici" intende dar conto. Le ragioni didattiche non hanno senso se non sono collegate al dinamismo spontaneo del dato sociale. Al presente, l'europeismo rischia di trovarsi senza inquadramento politico, e pertanto di immobilizzarsi in sé stesso: per uscire dall'impasse occorre una idea che raffiguri un superamento graduale della divisione nei popoli, e che tenga altresì conto dei fattori di instabilità sovranazionali, nei quali si riflettono il movimento migratorio e la domanda di eliminazione delle barriere di classe, oggi non più determinate in base al ceto ma dalla provenienza geografica. Per rispondere a siffatte esigenze, la Scuola è stata congegnata in modo da valorizzare le diverse competenze scientifiche, lasciando interagire maestri e studenti nella formula dialettica del seminario, affinché il dialogo a plurime voci possa realizzarsi in maniera adeguata alle richieste di conoscenza che le nuove generazioni manifestano con sempre maggiore insistenza.
Si è parlato di viaggi e grand tours, di traffici mercantili e avventure letterarie, di leggi marittime e tradizioni navali, di libri che passano da una costa all'altra e da una lingua all'altra, di uomini che cercano riparo al di là del mare, di cognizioni che giungono dalla costa frontaliera. Abbiamo ascoltato storie su Goethe, rimasto affascinato dalla luce opaca delle albe adriatiche, e sui governatori veneziani, educati sui libri di Sarpi, inviati nelle isole dalmatiche e ionie a protezione delle fondamenta economiche della Repubblica. Si è riflettuto sulla questione albanese e sulle minoranze linguistiche, sulla cultura materiale, sull'industria del loisir legata al mito del mare; si è avvertito infine quel senso di nostalgia del passato che l'Adriatico talvolta ispira nei temperamenti saturnini. Pluralità, discussione, confronto, integrazione sono le parole d'ordine della Scuola. In questo contesto, la letteratura, intesa come l'espressione più alta di valori e modelli collettivi, acquista davvero una nuova fisionomia, iscrivendosi nei cicli storici dell'Età moderna e venendo ad assumere un ruolo fondamentale nella prospettiva di un collegamento interdisciplinare.
Bisognerà ricordarsi di fare come Erodoto quando navigava nello Ionio, nell'Adriatico, nel Mediterraneo: geografo itinerante, dalla sua "ricerca" (historìe) nasce la storiografia, lo studio dei popoli (periegesi) e delle loro tradizioni, la demografia. Al pari di Erodoto dobbiamo sforzarci di istituire un nesso tra le forme istituzionali del sapere e l'allargamento del "nostro" mondo (ecumène), destinato ad ampliarsi in modo inarrestabile. Siamo tenuti, insomma, a ripensare la stessa impostazione teorica del logos, ovvero dell'insegnamento e delle idee pedagogiche. La conoscenza storica, culturale, antropologica del Mare Adriatico può aiutarci in questo confronto. Indurci cioè alla descrizione del carattere composito di quel peculiare, irripetibile sistema sociale ed etnico che appunto l'Adriatico ha espresso nel corso dei secoli: condizione irrinunciabile per ogni proposito di libertà e democrazia.
Nota
(1) Per maggiori informazioni sul programma e sui relatori: ww.unibo.it/Portale/Relazioni+Internazionali/Summer+School/summer/Adriatic+Sea.htm .
Azioni sul documento