Rivista "IBC" XIII, 2005, 2

musei e beni culturali / interventi

Lapidi, statue, iscrizioni, monumenti, per le strade o nei musei, sono segni che raccontano storie. Sempre che si riesca a vederli...
L'umore di Goethe

Giuseppe Muscardini
[Biblioteca dei Musei civici d'arte antica di Ferrara]

Era novembre. A passi lunghi attraversai il Ponte dell'Accademia, con il timore di arrivare in ritardo all'inaugurazione della mostra intitolata "Carpaccio. Pittore di storie". Il sole smunto calava impietosamente sulla laguna, portandosi dietro una coltre di buio che tutto pareva avvolgere e inghiottire, smorzando i bagliori della palla dorata che da secoli campeggia alla Punta della Dogana. Un incipit, questo, più adatto a un'opera di narrativa che all'argomento di cui voglio trattare. Ma la contaminazione è necessaria, e non solo per l'innegabile fascino della città lagunare al tramonto, quanto per la formidabile intuizione di Manlio Cancogni all'interno delle prime pagine di un vecchio catalogo del 1967 su Carpaccio, sfogliato in treno nel tragitto da Ferrara a Venezia.

Nella presentazione al volume, Cancogni suggeriva di far vagare l'occhio spostandolo dall'odierna e variopinta realtà veneziana all'ampia superficie delle tele del Carpaccio, per cogliere così nei particolari, nei dettagli, nelle più minute pennellate, quella consonanza fra veridicità e rappresentazione urbana che diversamente non si potrebbe percepire. Il passo recitava testualmente:

 

A chiunque è capitato, almeno una volta, di andare a spasso per una strada già vista, d'aggirarsi per un quartiere già conosciuto, e di osservarlo, scoprirlo nei suoi particolari come se fosse la prima volta che lo percorre, ingressi, botteghe, vetrine, insegne, finestre, cornicioni, grondaie, godendoselo pezzetto per pezzetto, abbandonato al puro piacere dello sguardo. Ebbene, io penso che questa sia la via più giusta per capire la pittura del Carpaccio. I suoi quadri non chiedono di più di quanto la realtà non chiedesse a lui: lasciarsi vedere, lasciarsi scoprire, senza che nulla ne resti fuori.

 

L'eccessiva attenzione da me riposta al paesaggio, con il conseguente ritardo all'inaugurazione della mostra, nasceva dal nuovo quanto sapido consiglio, e maturai così fra calli e sestieri la personale certezza che quell'"educazione alla vista" mi avrebbe consentito di apprezzare i celebri cicli pittorici di Sant'Orsola e di Santo Stefano, collocati per l'occasione negli appositi ambienti espositivi dell'Accademia, verso i quali mi stavo frettolosamente dirigendo.

Ne uscii con una concezione diversa in merito al godimento di un'opera d'arte. Ma più banalmente ne uscii con la convinzione che molti dettagli documentari sparsi nelle città italiane, avrebbero favorito l'attenta lettura della realtà storica e artistica, se fossero stati più raggiungibili dall'occhio, già poco allenato, di una persona di medie capacità visive. Molte lapidi e iscrizioni, in strada e sulle facciate dei sontuosi palazzi, erano troppo in alto, o troppo distanti perché si potesse cogliere il senso compiuto di frasi pur retoriche e desuete, dettate da secoli. A volte l'occhio non percepiva dal basso il senso di quelle iscrizioni e le parole perdevano di significato perché frammentate dalla lontananza o dall'usura del tempo.

Nell'estate del 2002, nel corso delle riprese in esterna di un fortunato documentario su Lucrezia Borgia, il regista Florestano Vancini richiese un opportuno intervento di restauro al Comune, teso a "riempire" di nero i caratteri consunti in un'iscrizione posta nella parte alta del muro di Casa Romei, in cui si ricordava l'assassinio di Ercole Strozzi, avvenuto per ragioni ancora oggi oscure nella notte fra il 5 e il 6 giugno 1508: "Per notturno agguato / qui / cadeva trafitto / Ercole di Tito Strozzi / poeta e filologo / rinomatissimo / 1508". Allo stesso modo l'altezza di una bianca lapide collocata sul frontone dell'ex sede della Banca Commerciale, esattamente davanti all'orologio del Castello Estense, oggi non permette di informare degnamente quanti ancora lo ignorano che Carlo Goldoni soggiornò nel febbraio 1731 ne "l'allora Albergo San Marco dov'era la Posta dei cavalli", poi abbattuto per lasciare il posto all'attuale edificio.

Disattenzioni che avrebbero di certo indignato il puntiglioso Johann Wolfgang Goethe. Stando alle pagine del Viaggio in Italia, la sua visita a Ferrara fu guastata, il 16 ottobre 1786, dalla nettissima percezione dell'incuria in cui versava la presunta cella del Tasso, ma ancor più dall'assoluta mancanza di notizie storiche sulla detenzione del poeta nel complesso di Sant'Anna. Infastidito, Goethe scrive testualmente: "In tutto il palazzo, del resto, non c'è nessuno che sappia darmi qualche informazione". Comprensibile il disappunto di Goethe, che porta nel bagaglio di viaggio i primi due atti del suo Torquato Tasso, ancora in versi. E aggiunge: "Ero diventato di pessimo umore", lasciandoci oggi il dubbio che il pensatore tedesco soffrisse di paturnie paragonabili a quelle dell'inquieto personaggio su cui poetava.

Il pessimo umore di molti visitatori dei musei, impermaliti davanti all'inefficace impianto didascalico di una mostra o alla mancanza di necessarie informazioni su ciò che vedono, è oggi molto frequente. Si dicono offesi, ma l'abusata espressione usata dagli scontenti visitatori, in Italia ha altra pertinenza semantica. Offeso è chi soffre di malformazioni fisiche e patologiche che non consentono l'utilizzo pieno dei sensi. Senza giustificare le molte carenze istituzionali, in questo excursus delle vicende curiose che attengono alla nostra storia culturale, per compensazione viene fatto di pensare alle cose belle che invece ci è dato di vedere.

Viene fatto di pensare a un episodio narrato da Giuseppe Ravegnani in Uomini visti, che racconta della visita alla Biblioteca Ariostea di un anziano e aristocratico signore scortato da un domestico. Presentando una malleveria a Ravegnani, all'epoca direttore della Biblioteca, l'attempato signore richiede di poter consultare preziosi codici miniati e incunaboli ("già visionati in età giovanile", dice) in ambiente illuminato o accanto a una finestra. Ravegnani accorda benevolmente il permesso e da quel giorno la presenza del blasonato utente in Biblioteca fa nascere un'amicizia basata su continui scambi di informazioni, disquisizioni bibliografiche e passeggiate lungo gli ampi saloni di Palazzo Paradiso. Accompagnato dal premuroso inserviente, il distinto signore raggiunge di volta in volta la Sala Ariosto e la Sala Monti, sostando davanti alle vetrine in cui sono raccolti in mostra permanente i codici e le edizioni a stampa più significative. E un giorno, chinandosi su una bacheca per cogliere i tratti di un'incisione su un'edizione dell'Iliade aperta al sesto canto, l'insolito utente allude al fatto che solo il libro può fornire a ognuno la possibilità di "vedere" il passato. In quel preciso momento Ravegnani intuisce che l'uomo è cieco, e che la sua affermazione nasconde la viscerale nostalgia per un lontano passato in cui era ancora dotato della vista, un lontano passato in cui la sua esistenza non era offesa. "Quegli occhi bellissimi, quei bellissimi occhi di giada antica, erano vuoti e inerti, non avevano fondo: erano gli occhi di un cieco".

Di fronte allo splendore della nostra pittura, di fronte alle opere che possiamo ammirare nei musei, benché a volte scarsamente illuminati, e pur con didascalie di discutibile impatto, si comprende il dramma della deprivazione sensoriale che in Italia affligge il tre per cento dei visitatori, incapaci di fruire agevolmente di ciò che i musei contengono. È l'amore per la cultura ad animare chi si dispone davanti a un quadro e, nell'impossibilità di vederlo, ne coglie il senso e il significato nel racconto di un indispensabile accompagnatore. Oppure, come avviene al Museo civico di Castelvecchio a Verona, pone le mani su riproduzioni in rilievo collocate accanto all'opera, per cogliere attraverso un sensore termico l'intensità del colore usato dal pittore per un panneggio, un incarnato, un paesaggio.

Queste affastellate considerazioni riguardano proprio la deprivazione, sensoriale o più banalmente originata da insipienza, incuria e quant'altro. Il modo di cogliere tasselli di natura estetica, storica o documentaria da cui ricevere emozioni, vale a perfezionare il senso della nostra continua ricerca ad inseguire il bello. Guardarsi attorno, dove è possibile, quando è possibile, serve a tradurre la realtà in stato d'animo, esattamente come avviene davanti al ritmo ordinario e quotidiano delle nostre città, in piazze e strade dove la vita scorre con i suoi commerci, le sue grandezze e i suoi abissi, sedimentati spesso in un vissuto secolare fatto di lapidi, statue, iscrizioni, monumenti che, en plein air o in un museo, si appropriano del ruolo di veri e propri strumenti per capire. Sempre che abbiano visibilità.

 

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