Rivista "IBC" X, 2002, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, pubblicazioni

Il paesaggio naturale è uno spazio in cui si respira o è qualcosa che si guarda in un fondale? Quando affermiamo che la natura è perduta, siamo enti artificiali o naturali? E che rapporto abbiamo con il paesaggio delle nostre città? Due libri aiutano a rispondere a queste e ad altre domande.
Il "paese" comune

Ezio Raimondi
[italianista, presidente dell'IBC]

Durante lo scorso febbraio, nella Cappella Farnese di Palazzo d'Accursio a Bologna, con un dialogo tra Renato Barilli, Giuliano Gresleri ed Ezio Raimondi, la Biblioteca dell'Archiginnasio ha presentato al pubblico due volumi sul tema del paesaggio: uno di Paolo D'Angelo, Estetica della natura, edito da Laterza, e uno di Raffaele Milani, L'arte del paesaggio, edito da Il Mulino. Pubblichiamo il testo di uno degli interventi pronunciati nell'occasione.

 

Se è vero, come ha osservato Zanzotto, che la letteratura ha bisogno del paesaggio per parlare, allora anche il mio punto di vista particolare di lettore e di interprete può forse entrare in questo dialogo a più voci intorno ai libri di Raffaele Milani e Paolo D'Angelo. Del resto la natura e il paesaggio divengono a poco a poco due grandi protagonisti dell'opera letteraria, così come il locus amoenus e il locus horridus sono categorie della tradizione retorica antica che attraversano tutta la storia letteraria non solo occidentale. E oggi un grande poeta irlandese come Seamus Heaney insiste spesso sul "senso del luogo", un luogo concreto che è insieme luogo della mente.

Ma per restare agli scrittori di cui mi sono occupato più da vicino, viene subito alla mente il movimento generale della Gerusalemme liberata tassiana, costruito proprio sul rapporto di opposizione tra città e foresta. Poi i grandi e sontuosi quadri di paesaggio del Bartoli, che Leopardi chiamava il Dante della prosa, e quindi il sublime che irrompe nella nostra letteratura con la solitaria voce alfieriana, nelle pagine della Vita, tra i ghiacci, il senso dello spazio, e il silenzio straordinario del Settentrione. Per non parlare del Manzoni, dal racconto del diacono Martino nell'Adelchi - una pagina di poesia della montagna degna di Wordsworth - alle avventure di Renzo viaggiatore nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, dove si fa strada la distinzione tra il paesaggio estetico che induce alla contemplazione, e un paesaggio biologico che corrisponde invece al ritmo, alla sensorialità, al sangue, alla paura.

Dunque anche un utente limitato, per dir così, che si occupa di parole, attraverso le quali si codificano però i rapporti con la natura, con le cose e con gli oggetti oltre che con gli uomini, può ricavare da questi due volumi una quantità di indicazioni e di riflessioni preziose che illuminano altre percezioni e congetture, in un quadro più ampio dove le relazioni prendono finalmente un senso pieno. Nel Manzoni, a esempio, è presente la frase "scoprir paese" che vuol dire alla lettera "penetrare in qualche cosa vedendo ciò che non era subito evidente": tanto D'Angelo quanto Milani osservano che "paese" è una parola complessa nella nostra tradizione, significa anche paesaggio, termine di provenienza francese (e paesista è appunto colui che dipinge un paesaggio), ma soprattutto ha un senso profondamente diverso dal landscape inglese o dall'equivalente Landschaft tedesco in cui è preminente l'idea della campagna, della terra. Il che dovrebbe dare da riflettere, poiché nelle parole si depositano sempre anche tradizioni e costumi, e dietro i dizionari si percepiscono orientamenti mentali, ragioni che appartengono al costume pratico e, insieme, al costume alto della riflessione, che dal Settecento in avanti viene definendo in quest'area, sia pure entro un campo semantico complesso e qualche volta ambiguo, la disciplina specifica dell'estetica.

I libri di D'Angelo e Milani hanno il merito di indicare un paesaggio comune di problemi con prospettive differenti che derivano dal fine a cui mirano, aggiornandoci nello stesso tempo su un vasto lavoro di riflessione che non appartiene soltanto alla nostra tradizione italiana o europea, ma a tradizioni culturali profondamente diverse che oggi confluiscono insieme e proprio per questo possono anche dare luogo a confusione. Nel discorso di D'Angelo vi sono, sia pure con straordinario garbo, finalità polemiche: egli non dà conto soltanto di certi problemi ma cerca anche di vedere quali sono le incongruenze e come occorra orientarsi concettualmente in modo corretto facendo i conti - come d'altra parte ritiene anche Milani - con la storia, in quanto il nostro presente si muove sempre al suo interno anche quando vuole innovare e dimenticare.

D'Angelo si sofferma sul fatto che paradossalmente, proprio nel momento in cui la natura sembra scomparire dalla nostra concezione e dal nostro lessico, diventa invece un problema sul piano della riflessione. Già Leopardi aveva parlato dello snaturamento, della perdita di rapporto con la natura che gli sembrava un processo irreversibile: e tuttavia la ginestra, su cui si chiudono i Canti, non è più un essere antropomorfo, ma è la stessa natura che diventa modello dell'uomo. E D'Angelo invita a riflettere sulla tradizione della Naturphilosophie, la filosofia della natura, che appartiene al grande Romanticismo tedesco ed è largamente, ma non soltanto, idealistica: a questa tradizione si collegano in vario modo esperienze diverse. D'Angelo ricorda infatti Alexander von Humboldt, le indagini scientifiche e geologiche, i quadri o le vedute della natura, dove la scienza si congiunge con il sentimento diretto del rapporto con le cose, per mostrare che alla fine il paesaggio racconta la storia del genere umano, è un'entità composita di natura e cultura.

Quest'ampiezza di orizzonti non passa però nel neohegelismo italiano, dove, viceversa, lo sguardo filosofico si chiude nel mondo dello spirito e la natura si risolve nel momento artistico, analogico di altre possibilità. Per di più, mentre in altre culture - come quella francese, tedesca, inglese, e dalla fine dell'Ottocento anche americana - la geografia è un elemento che contribuisce ad affermare il sentimento concreto della terra, in Italia la cultura ufficiale esclude queste scienze che restano appannaggio soltanto dei geografi. In Francia è la grande scuola storica delle Annales che, a partire dagli anni Venti, introduce nel discorso storico gli aspetti della geografia e riconosce al paesaggio una dimensione umana profonda.

In questo moto di rinnovamento noi arriviamo tardi, e forse non ci siamo ancora del tutto liberati da alcuni vincoli. Ma il problema si complica quando irrompe una tradizione non più continentale, ossia quella ecologica dell'ambiente, dell'environment, che certo ha premesse anche di natura filosofica legate alla tradizione americana del trascendentalismo, e che pone il problema del selvaggio e della natura come wilderness. Un servizio concettuale del libro di d'Angelo è appunto quello di proporsi di veder chiaro in tradizioni diverse che confluiscono insieme e che possono avere qualche elemento comune. Si potrebbe dire oggi che da un'estetica del sublime si passa a un'estetica dello pseudosublime? Il paesaggio è uno spazio in cui si respira o è qualcosa che si guarda in un fondale?

Il discorso sulle cose, la natura, il paesaggio è evidentemente vincolato a luoghi diversi e quindi si arrichisce di una relazione precisa che dobbiamo ricostituire nella sua integrità. D'Angelo ricorda la tesi di Bateson secondo il quale il nostro equilibrio interno si decide nel rapporto con l'esterno. Era per certi aspetti anche il discorso dei Romantici: non c'è dubbio che Novalis, parlando del viaggio nell'interiorità, aveva in mente qualcosa che diventava poi anche un'esplorazione. Ma se nella grande letteratura dell'Ottocento la natura ha una parte principale, essa sembra venir meno nel nostro secolo, come osservava già Mary McCarthy in un saggio intitolato significativamente Un tocco di natura. Occorre dunque introdurre di nuovo il termine "natura", inteso in tutta la sua problematicità.

E il problema non è poi a direzione unica: nel momento stesso in cui affermiamo che la natura è perduta, noi siamo enti artificiali o naturali? Probabilmente, come dicevano già i grandi umanisti, siamo enti misti, così come - è già emerso - un paesaggio è un'entità naturale e culturale, physis che è insieme humanitas, in quanto conserva tracce e segni, il cui significato non richiede tanto l'intervento della semiologia, quanto piuttosto dell'antropologia e delle scienze dell'uomo e della cultura. Il paesaggio è una superficie con una profondità, un visibile cui corrisponde un invisibile, avrebbe detto Heaney. Ma dal momento che tutta una serie di strumenti ci hanno educato e orientato, aperto e insieme pregiudicato lo sguardo con una serie di stereotipi, càpita spesso che noi guardiamo senza vedere, la nostra interrogazione si dirige su certe cose e non su altre.

D'altra parte i fenomeni sono complessi, perché se per un verso la natura scompare dal mondo figurativo, diventa però preminente nella nuova arte della fotografia, che ferma l'istante, come, con altri mezzi, aveva tentato di fare la grande pittura del Seicento di Caravaggio, drammatizzando appunto l'istante attraverso l'uso della luce: talvolta nuove tecniche ripropongono problemi antichi. E dunque oggi come "scopriamo il paese", per tornare a quella formula? Vediamo qualche cosa di nuovo o ripetiamo quello che è già stato visto? Vorrei fermarmi ancora un momento sulla logica dei luoghi, che è uno dei problemi importanti che affronta D'Angelo e insieme congiunge il suo discorso con quello di Milani. Il concetto di natura si complica ed è a questo punto la materia che definisce nella sua varietà il paesaggio-natura o la natura-paesaggio: giustamente Milani riprende le pagine sull'immaginazione materiale, ingenue ma straordinarie, di Bachelard, il quale scriveva che la nostra immaginazione è sempre legata alla materia, alla terra, all'acqua, all'aria: questa sensazione integra e piena è propria del paesaggio, anche quando lo osserviamo a distanza, in qualche modo arriva sino a noi. E oggi viviamo in un tempo in cui rischiamo di perdere la materialità delle cose, poiché le icone, i simulacri, le rappresentazioni prendono il posto della profondità vivente.

Milani chiude sulla contemplazione della natura che impone comunque poi di entrare in gioco, di riattivare certi processi. E non si può dimenticare che uno dei grandi storici dell'arte della scuola viennese, Alois Riegl, aveva già parlato di una pittura di Stimmung, di emozione, indicando che l'emozione è legata intimamente alla distanza. È proprio così che fra Cinque e Seicento nasce il paesaggio, non solo come specializzazione di un genere artistico, ma anche, in un certo modo, come equivalente del discorso scientifico che porta verso le cose ma nello stesso tempo instaura una distanza: Galileo matematizzando l'universo lo rende anonimo, mentre verbalizzandolo lo rende straordinariamente concreto. E non c'è soltanto il Galileo di Husserl, ma anche il Galileo scrittore amato da Calvino, per il quale la parola, come vuole Zanzotto, torna a essere luogo, definizione di oggetti, attenzione alle cose, nel momento stesso in cui diventa astrazione. Proprio sulla concretezza del luogo insiste Milani, riappellandosi a una lunga tradizione, che si colloca al di fuori del quadro idealistico, in una dimensione che direi genericamente fenomenologica, dove anche il gusto letterario ha la sua parte con un'orchestrazione complessiva di grande garbo illustrativo.

Ma vorrei concludere con un'altra considerazione di D'Angelo che integra queste di Milani e mi consente di passare dalle vesti di lettore a quelle di responsabile di un Istituto dove ci si occupa per l'appunto del territorio e dei beni culturali. Una proposta di D'Angelo è di considerare il paesaggio come l'"identità estetica" di un luogo, con una formula in cui l'attributo "estetica" vuol dire, probabilmente, anche "storica". Già un filosofo come Bäeumler, parlando del principio di individualità, indicava nel Settecento un rapporto strettissimo tra estetica e senso della storia. Il tema dell'identità estetica, ma anche storica di un luogo, diventa così un modo per porsi il problema del paesaggio in termini non improvvisati: D'Angelo interroga le leggi che si sono susseguite, ma rileva che dietro le leggi occorre un lavoro concettuale adeguato: e questo è un modo per cominciare ad educare il nostro sguardo a riscoprire la visione dell'insieme e a intuire dietro le apparenze tutta l'irriducibile complessità del reale.

Che rapporto abbiamo alla fine con le cose? Milani, per esempio, osserva a un certo punto che anche la città è un paesaggio. Qual è il nostro paesaggio urbano? Come lo sentiamo? La definizione di D'Angelo fa emergere il problema dell'appartenenza a una comunità che è luogo e storia insieme, e dunque memoria. E viene a mente un grande testo, caro anche ai nostri storici dell'arte da Longhi ad Arcangeli, ossia Le notizie naturali e civili della Lombardia di Cattaneo, che già nel titolo sottolineava come il naturale e il civile fossero un'entità comune definita da un sentimento del luogo condiviso. Il libro risale a quasi due secoli fa e però presenta un tipo di pensiero, non idealistico ma positivo, prepositivistico, nel quale la geografia, come nella vecchia tradizione settecentesca, è ancora scienza di una entità vivente, l'uomo nelle sue relazioni e connessioni con le cose, gli oggetti e i luoghi.

Anche su questo punto i due volumi di Milani e D'Angelo ci permettono di camminare proponendoci alcuni orientamenti di ordine pratico, cercando di ricostituire un insieme a partire da molte esperienze, ma fornendoci insieme i fili per non smarrirci entro questi grandi labirinti e per capire non soltanto quello che è accaduto, ma quello che, sia pure entro orizzonti limitati e provvisori, può ancora accadere.

 

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