Rivista "IBC" XIII, 2005, 1

territorio e beni architettonici-ambientali / linguaggi, interventi

Scuola e dialetto: storia di un rapporto difficile, dalle demonizzazioni imposte dai teorici dell'unificazione linguistica alle esperienze degli insegnanti più attenti ai patrimoni linguistici territoriali.
La lingua delle cose

Werther Romani
[docente di Didattica dell'italiano all'Università di Bologna]

La nostra scuola (qui intesa soprattutto come scuola elementare) ha sempre avuto col dialetto parlato dai suoi utenti un rapporto molto conflittuale, a cominciare dagli anni Sessanta dell'Ottocento fino agli anni Ottanta del Novecento. Prima di quella data il conflitto non c'era perché mancava il primo elemento del rapporto: la scuola. Dopo, lo si potrebbe considerare risolto naturalmente col venir meno del secondo elemento: il dialetto.

È una constatazione che, sia pure formulata in modo schematico e quasi provocatorio, non mi sembra priva di fondamento. Certo, anche prima dell'Unità d'Italia, e quindi prima dell'istituzione di una scuola pubblica, obbligatoria e gratuita per tutto il Regno, e con gli stessi programmi, non mancavano le scuole, pubbliche o semipubbliche: scuole locali, collegi, seminari, tenuti quasi sempre da religiosi (ma i primi rudimenti tecnici della lettura e della scrittura spesso venivano dati privatamente in casa o dal parroco), dove si insegnava soprattutto il latino; poco l'italiano, meno che mai il dialetto, che tuttavia, per quasi tutti, era la lingua materna. In ogni caso gli scolarizzati erano una ristrettissima minoranza.

L'italiano insegnato e studiato era esclusivamente finalizzato alla scrittura: un italiano letterario, oggetto, nei secoli, di molte discussioni, ma sostanzialmente modellato sugli scrittori approvati dalla "Crusca". La comunicazione orale, invece, avveniva normalmente in dialetto: usato sia dagli analfabeti, sia dalle persone colte. In particolari ambienti in cui confluivano persone di estrazione linguistica molto diversa, o in situazioni in cui la diversità dei dialetti rendeva difficile la comprensione, si usava l'italiano letterario (spesso anche il francese), ma non erano in molti a poterlo fare.

 

La questione della lingua nell'Italia unita

La spinta risorgimentale verso l'unificazione politica condiziona fortemente anche il problema della lingua e del suo insegnamento. L'esigenza di una unificazione linguistica, che superi il particolarismo dialettale, è sentita in maniera quasi ossessiva. Viene adottata ufficialmente la proposta "fiorentina" del Manzoni (non senza resistenze e con attenuazioni, che portano in concreto a una soluzione più largamente "toscana"). Ma, come diceva il Tommaseo, "né lingua né nazione s'unifica per decreto". L'unificazione linguistica, infatti, procede faticosamente, con risultati molto lontani da quelli auspicati dagli zelanti neopuristi sostenitori del fiorentinismo manzoniano. Comincia una lotta accanita contro il "pluralismo" linguistico (specialmente quello lessicale), sentito come un disvalore. Da qui l'avversione scolastica per i dialetti, considerati i responsabili dell'analfabetismo degli italiani.

D'altra parte, per i bambini non toscani l'italiano è quasi una lingua straniera, spesso molto lontana dal dialetto materno, l'unica lingua con cui possono comunicare. Si instaura, così, una conflittualità che la scuola di quel tempo non riesce a risolvere, né sul piano teorico, né su quello pratico. Comincia un'opera di demonizzazione e repressione dell'uso a scuola del dialetto (complice la scarsa e frettolosa preparazione degli insegnanti) che durerà per decenni, con effetti disastrosi sullo sviluppo linguistico-culturale di intere generazioni.

Non mancarono voci fuori dal coro: autorevoli, ma poco ascoltate. In primo luogo quella di Isaia Graziadio Ascoli, che spicca per l'acutezza e la modernità delle sue intuizioni. Ovviamente, da grande linguista qual era, non aveva pregiudizi circa la dignità delle lingue, di tutte le lingue, dialetti compresi. Contro coloro che ritenevano che sapere una lingua (come il dialetto materno) fosse dannoso per impararne un'altra (l'italiano), riteneva, invece, che il bilinguismo dei bambini non toscani fosse addirittura una condizione privilegiata, perché permetteva (con insegnanti adeguatamente preparati) un confronto continuo fra lingue diverse, che è il modo migliore di studiare e imparare le lingue. Molto simili erano le idee del Tommaseo, che della lingua materna, qualunque essa fosse, aveva un'idea altissima: "La lingua materna abbia il primato; la lingua, non la grammatica; la parlata e parlabile, non la morta; la lingua che proferisce parole aventi senso, la lingua cioè delle cose".

Ascoli e Tommaseo forse non erano i soli a pensarla così. Ma gli orientamenti prevalenti andavano in tutt'altra direzione. Nei programmi e nelle istruzioni ufficiali per la scuola elementare che si susseguono dal 1860 al 1905 possiamo riscontrare la permanenza di un atteggiamento, a volte implicito, spesso esplicito, decisamente dialettofobo. Il principio fondamentale è che tutto ciò che sa di dialetto (pronuncia, morfologia, sintassi, lessico) va corretto, ossia cancellato, per evitare che inquini l'italiano. Nella pratica scolastica si era ormai radicata un'idea semplicistica, e quindi più comoda, ben espressa dalla metafora della "malerba dialettale": il dialetto era come un'erba cattiva, che andava sradicata per poterla sostituire con la "buona sementa" (l'italiano).

Fuori della scuola, per fortuna, le cose andavano un po' diversamente. Verso la fine del secolo le ricerche sui dialetti, portate avanti dai glottologi, si moltiplicano. Cominciano a uscire numerosi vocabolari dialettali, ancora oggi di grande importanza. Ma le ricerche dialettali sono solo una (forse la principale) componente di un più vasto movimento di interesse per le culture regionali, le tradizioni locali, il folclore. Oggi certi aspetti ideologici che stanno alla base di tale movimento, i toni talvolta ingenui che ritroviamo negli scritti anche di esponenti di primo piano, ci possono apparire discutibili, ma i risultati complessivi sono di tutto rispetto. Fra i meriti più significativi, va sottolineato quello di avere riproposto - in continuazione con le tesi ascoliane - la questione scuola-dialetto in termini che ancora oggi potremmo sottoscrivere.

Fra i principali studiosi in questo campo, va citato il grande filologo Ernesto Monaci. In un saggio uscito nel 1918 (è anche l'anno della sua morte), con cui introduce e presenta una serie di "manualetti" sull'uso didattico dei dialetti, ribadisce che "l'esser bilingue, oltre allargare l'intelligenza - come diceva l'Ascoli - irrobustisce lo spirito [...] chi possiede due linguaggi conta per due uomini". E contro chi obietta "che il dialetto, malgrado i suoi pregi, sempre costituisca un impaccio alla diffusione e alla unificazione della lingua nazionale, e che perciò convenga accelerarne la fine, anziché mantenerlo in vita", afferma che così come "non c'è nazione senza la propria lingua, non c'è popolo senza il suo dialetto". Pertanto, "lungi ogni idea di sopprimere la favella del popolo per sostituirle la lingua nazionale. L'una e l'altra debbono esserci ugualmente care, e l'opera della scuola deve mirare non a far prevalere l'una sull'altra, bensì a ottenere che ciascuna resti entro i suoi limiti naturali e si giovino a vicenda".

Il messaggio è fatto proprio da un grande pedagogista, molto attento ai problemi della preparazione didattica dei maestri: Giuseppe Lombardo Radice. Incaricato da Gentile di stendere i nuovi programmi per la scuola elementare nel 1923, vi introduce - coerentemente con quanto aveva già detto nelle sue fondamentali Lezioni di didattica - specifiche attività (soprattutto esercizi di traduzione dal dialetto in italiano) che valorizzano la cultura popolare e la sua lingua. È la prima volta che questo capita in un programma ministeriale. Poco tempo dopo, in un intervento al "Congresso dei dialetti italiani" del 1925, ribadisce con grande chiarezza la sua posizione: "Se il bambino vive in un ambiente linguistico dialettale - come accade in quasi tutte le famiglie del popolo - non dobbiamo considerare la cosa come una disgrazia. È così. Ogni volta che lo scolaro parla il suo dialetto, egli è più a posto come bambino. Ce ne accorgiamo dalla scioltezza e agilità del suo discorrere [...]. Ma il bambino deve imparare l'italiano! Come? [...] Fargli vivere la seconda lingua, come vive la prima". Di qui l'importanza che il maestro valorizzi la competenza dialettale del bambino: "Il maestro non deve mostrare verso il dialetto, come ancora accade in molti, un senso di disprezzo o di indignazione, e nemmeno di indulgenza. Verso il dialetto occorre un sorriso di compiacimento e di incoraggiamento, non una smorfia di disgusto. [...] Troncando ogni rapporto col dialetto, noi paralizziamo il bambino nella parola, e ci priviamo del maggior sussidio didattico che è, qui come altrove, il bambino stesso".

È difficile dire quanto abbiano inciso queste idee e le conseguenti indicazioni operative dei programmi del '23 nella pratica scolastica. A parte alcune esperienze interessanti documentate e la produzione di sussidi didattici con esercizi di traduzione, l'impressione è che la maggior parte degli insegnanti abbia continuato a considerare il dialetto un ostacolo da rimuovere, non una risorsa da valorizzare. Del resto le idee di Lombardo Radice si scontrarono ben presto con la politica scolastica del regime: a mano a mano che la retorica fascista cercava di proiettare l'Italia verso i suoi "destini imperiali", di dialetto e di cultura popolare, ritenuti espressione di un paese povero e arretrato, meno se ne parlava, meglio era. Dai nuovi programmi del 1934, che sanzionavano la totale fascistizzazione della scuola - invitata dallo stesso Mussolini "a nobilitarsi nel Fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione Fascista" - scompare ogni riferimento al dialetto, che pure era ancora lingua materna per la stragrande maggioranza dei bambini italiani.

 

Dal dopoguerra agli anni Ottanta

Col ritorno della democrazia le cose, almeno a livello ufficiale, cambiano poco o niente per quel che riguarda il dialetto, sempre sentito, sia a scuola sia in famiglia, come un ostacolo all'apprendimento dell'italiano. Nei programmi del '45 il dialetto non viene neanche nominato (a parte una raccomandazione per il maestro, che viene invitato a dare "l'esempio della buona lettura, evitando principalmente le inflessioni dialettali"). Ma dieci anni dopo (programmi Ermini del 1955, che rimarranno in vigore per trent'anni) i riferimenti purtroppo ci sono, e ci riportano alle indicazioni formulate esattamente cinquant'anni prima, nei programmi del 1905. Pur sostenendo la "necessità di muovere dal mondo concreto del fanciullo", un fanciullo superficialmente definito "tutto intuizione, fantasia e sentimento", i programmi vogliono che l'insegnante, "pur accogliendo le prime spontanee espressioni dialettali degli alunni, si astenga dal rivolgere loro la parola in dialetto". Più avanti, dopo avere raccomandato al maestro di evitare "che i fanciulli confondano i modi del dialetto coi modi della lingua" - raccomandazione in sé giusta, che potrebbe essere la premessa per una intelligente attività di riflessione linguistica in senso contrastivo - il "legislatore" conclude: "perciò si cercherà ogni occasione per disabituarli dagli idiotismi e dai solecismi". Cioè disabituarli dal dialetto, dalla loro lingua materna: perché questo, e non altro, vogliono dire i due tecnicismi usati come foglia di fico.

Per quanto riguarda la questione specifica di cui ci stiamo occupando, questi programmi, formalmente così longevi, ma già obsoleti sul nascere, sicuramente rispecchiavano le convinzioni e i pregiudizi della maggioranza degli insegnanti, non solo elementari. Ma non della totalità. Già verso la fine degli anni Cinquanta ci sono consistenti gruppi di insegnanti, specialmente della scuola elementare, che si organizzano, discutono, sperimentano percorsi diversi. Nasce il Movimento di cooperazione educativa (MCE), che cerca di diffondere anche in Italia le idee e i metodi diffusi in Francia da Célestin Freinet. Dentro o vicino all'MCE operano straordinarie e indimenticabili figure di insegnanti, come Bruno Ciari, Mario Lodi, Gianni Rodari, e, per molti aspetti, lo stesso don Lorenzo Milani. Maestri "democratici", che del "popolo" utilizzano e amano anche il patrimonio linguistico. Basterebbe leggere Il paese sbagliato di Mario Lodi, o il libretto di un maestro di Gubbio (Orlando Spigarelli) sul Libero comporre e il dialetto (1968), per capire che cosa avrebbe potuto fare la scuola, tutta la scuola, per valorizzare la ricchezza dei mille dialetti d'Italia, vivacizzando e modernizzando nel contempo l'insegnamento dell'italiano.

Del 1975 è un documento importante (Dieci tesi per l'educazione linguistica democratica), scritto da Tullio De Mauro (che nel '63 aveva pubblicato la sua fondamentale Storia linguistica dell'Italia unita), fatto proprio, con qualche modifica, dal GISCEL, associazione di insegnanti nata all'interno della Società di linguistica italiana (SLI): un documento che raccoglie e rilancia i risultati di un quindicennio di dibattiti e di ricerche, sviluppatisi soprattutto dopo la riforma della scuola media del 1963. Fra i princìpi elencati nel documento, leggiamo: "La sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall'individuazione del retroterra linguistico-culturale personale, familiare, ambientale dell'allievo, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra, ma, al contrario, per arricchire il patrimonio linguistico dell'allievo attraverso aggiunte e ampliamenti, che, per essere efficaci, devono essere studiatamente graduabili". Un principio che, come altri delle Dieci tesi, entra finalmente nei programmi ufficiali: in quelli per la scuola media del 1979 e per la scuola elementare del 1985. Quindi, almeno sulla carta, siamo a posto. Del resto, lo sviluppo impetuoso che negli ultimi anni hanno avuto gli studi di glottodidattica, nell'ambito soprattutto dell'insegnamento delle lingue straniere, hanno confermato che una buona competenza nella lingua materna e la sua adeguata valorizzazione sono basilari anche per l'acquisizione di una seconda lingua.

 

Quale futuro?

Se applichiamo, dunque, questi principi alla questione del rapporto dialetto-italiano, vediamo quanto sia sbagliata la secolare concezione della "malerba". Il fatto è, però, che nel frattempo i termini della questione sono cambiati profondamente. In molte regioni il dialetto come lingua materna è scomparso (o quasi). Un problema in meno, dirà qualcuno. Dovremmo esserne contenti? In realtà, se così fosse, dovremmo sentirci tutti più poveri. Ma se anche il dialetto non fosse più lingua materna per nessuno, ciò non comporterebbe una sua sparizione dalla "cultura" del territorio. È lì dunque che bisogna cercarlo, studiarlo, valorizzarlo, se vogliamo conoscere e capire le nostre radici, la nostra storia.

In molte scuole, specialmente elementari, in relazione anche all'acquisizione del concetto di tempo storico, si fanno intelligenti e piacevoli ricerche sulla cultura popolare, sulle tradizioni locali, e quindi anche sui dialetti. Vanno incoraggiate. Ma, a mio parere, bisogna anche saper approfittare delle nuove situazioni di interculturalità sempre più presenti nelle nostre classi (e vissute spesso con ansia dagli insegnanti). Il principio della valorizzazione del patrimonio linguistico-culturale di partenza vale per tutti: italiani, cinesi, arabi o filippini. Quante occasioni di vera, concreta "riflessione linguistica" si possono avere! E se, invece, la lingua materna fosse ancora uno dei nostri dialetti, ben venga: usato consapevolmente, sarà un bell'aiuto anche per arricchire e insaporire il nostro italiano.

 

Nota

Attraverso i cataloghi on line delle biblioteche, si possono agevolmente ricavare tutte le informazioni bibliografiche relative ai nomi citati. In ogni caso, come ormai si usa, l'autore aggiunge il proprio indirizzo e-mail per chiunque volesse indicazioni più precise: wromani@libero.it

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