Rivista "IBC" XII, 2004, 2
Dossier: Rappresentare la storia - Musei e contemporaneità
musei e beni culturali, dossier /
Ogni settore della storia ha diritto ad una propria organizzazione gerarchica delle fonti al fine di legittimare la sua specifica missione. Così ci hanno insegnato i maestri della storiografia contemporanea di fronte alla cosiddetta ipertrofia delle fonti, cioè la grande ricchezza di materiali in grado di aiutarci a comprendere la storia intorno a noi. Mentre l'attenzione ai secoli precedenti corrispondeva per lo più alla ricerca dei materiali sopravvissuti al corso del tempo, per il secolo appena concluso va fatta anche una distinzione cronologica e disciplinare. Finché la "messa in scena del Novecento" si è limitata all'arte, alla tecnica, alla vita degli uomini illustri attraverso le case natali l'unica preoccupazione dei musei era quella di garantire l'autenticità e la conservazione dei propri reperti, tramite processi di selezione e di accreditamento di oggetti preziosi in quanto rari o molto belli. Mano a mano che l'attenzione si spostava sull'epoca delle produzioni seriali, il confronto con la società di massa nella sua dimensione storica ha cominciato ad incrinare tale principio, più incline a consacrare che a rappresentare.
Bisogna attendere infatti gli anni Settanta per assistere anche in Italia a rinnovate attenzioni verso i segni della cultura materiale, verso le prime campagne di rilevamento sul patrimonio popolare e sulla storia del lavoro. Da quel momento le mostre ed i musei, anche nella nostra regione, si aprono ad una concezione più dinamica delle fonti, come chiede di fare la Nuova Storia e si va annullando progressivamente ogni distinzione tra l'idea di monumento e quella di documento. È l'epoca in cui nascono ovunque i primi musei etnografici dietro la consapevolezza di una rapida alterazione del paesaggio e dell'organizzazione del lavoro nelle nostre campagne. È lì che vengono esposti gli attrezzi del lavoro quotidiano, con dietro la foto d'epoca, per ambientarli in un più preciso contesto storico. Uno strumento recente come la fotografia viene chiamato a confermare l'autenticità storica di un reperto, senza poterci dire altro sulle voci ed i pensieri che lo accompagnavano nel tempo. Tutto restava cioè sospeso in una cornice indefinita, spesso quella del buon tempo antico, in attesa di altre fonti utili ad animare e descrivere ambienti remoti.
Sarebbero nati in quegli anni anche i primi musei di storia contemporanea in Emilia-Romagna, più dal consolidamento di grandi mostre che da un organico progetto scientifico, legati ai temi più noti della Seconda guerra mondiale come l'antifascismo storico delle campagne emiliane, le repubbliche e la guerriglia partigiana, le battaglie più famose all'interno di quella stagione di grande impegno politico e militare che fu la lotta di liberazione. Inizialmente sorti come presidi di una memoria locale, sia gli uni che gli altri vissero poi pienamente il momento di grande attenzione antropologica che aveva portato in tutte le province la diffusione dei musei etnografici, chiamati per primi a confrontarsi con fonti nuove come l'oralità, la musica e la scrittura popolare, la stampa minore dei calendari, delle immaginette devozionali o altri oggetti seriali che, penetrando a fondo la quotidianità diventavano segni, tracce di una civiltà pur risultando privi dei valori che fino ad allora avevano portato "le cose dentro al museo".
L'attenzione crescente al territorio, alle identità locali, poneva sia agli uni che agli altri le stesse domande: "Che vita hanno avuto le persone di quell'ambiente, in quel tempo?". La semplice descrizione degli eventi si poteva ancora trovare nei saggi di storia locale, ma l'autenticità di quegli oggetti minori rinviava a nuovi equipaggiamenti disciplinari, ad un modo nuovo di guardare ai musei. La difficile storia della cultura materiale e della mentalità popolare avevano alle spalle ottimi studiosi e buone ricerche in questa regione ma le forme e i modi della loro rappresentazione dovevano essere ancora strutturati sulla linea del tempo. Così come il ricorso alla fotografia storica era molto frequente, ma senza l'obbligo di fissare una periodizzazione e senza domande sulla committenza, la fotografia finiva per bastare a sé stessa e di solito veniva percepita come oggetto e soggetto del racconto storico. Per la facilità di esposizione e di riproduzione, insieme al cinema, parve essere a lungo la sola rappresentazione di un Novecento collettivo.
I primi anni Ottanta videro numerose iniziative di studio sui linguaggi iconografici: censimenti di archivi pubblici e privati, riflessione sulle pratiche sociali e attenzioni semiologiche in vista del Centocinquantesimo anniversario della fotografia portarono ad un utilizzo sempre più critico delle fonti fotografiche. Anche l'arrivo in Italia della TV a colori sembrò avere un ruolo e dividere definitivamente il modo di documentare la contemporaneità: da una parte il colore, per l'attualità che non poteva avere posto al museo, e dall'altra il bianco e nero, documento di una storia già conclusa. Gradualmente i piccoli musei locali poterono acquisire in quell'epoca una quantità sempre più ampia di documenti fotografici, da archivi nazionali ed internazionali; ma l'abitudine al ruolo ancillare svolto dalla fotografia manteneva sempre alto l'ingenuo fascino per cui quelle immagini finivano per essere considerate "lo specchio della memoria" e della storia al tempo stesso. Un grande album collettivo in cui ognuno ritrovava antenati e pagine della propria storia; più fotografie arrivavano e più si aveva l'impressione di ampliare e coprire l'orizzonte storico documentabile. Ciascuno era interessato alla propria autorappresentazione per quantità dei dati e non per qualità delle informazioni.
Fu così che nel 1980, quando diverse amministrazioni decisero di far nascere in provincia di Ravenna il Museo della Battaglia del Senio, l'immagine fotografica venne subito assunta come fonte principale a mostrare, lungo tutto il percorso espositivo, la fase finale della guerra in Romagna attraverso le foto scattate dagli operatori inglesi, acquisendo un primo nucleo di oltre 600 foto presso l'Imperial War Museum di Londra, successivamente implementate da altre acquisizioni che permisero di coprire quasi tutta l'area romagnola, "da Rimini al Po", come si chiamava una grande mostra fotografica itinerante promossa proprio dall'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna nel 1983. Si trattava di una sorta di grande affresco fotografico in cui emergevano il paesaggio, le comparse della guerra, gli uomini e le macchine che avevano attraversato la regione per quasi un anno. Dal nitore degli scatti 6x6 emergevano, messi accuratamente in posa, gli autori di una lenta e vittoriosa avanzata, frutto di un'organizzazione esemplare, di una macchina da guerra molto diversa da quella del regio esercito italiano di allora, capace di assistere e rifornire un lunghissimo attraversamento come fu la Campagna d'Italia e di usare strategicamente il doppio linguaggio: bombe sui nemici e aiuti alla popolazione italiana. La fototeca che prese corpo ad Alfonsine con oltre 3.000 immagini su quegli avvenimenti raccolse ben presto numerose richieste da parte di ricercatori, enti pubblici e giornalisti, che potevano finalmente saccheggiare un immaginario tempo di guerra, riservandosi di illustrare con quelle fotografie qualsiasi libera interpretazione di fatti e memorie locali.
Risaliva invece all'inizio degli anni Sessanta la nascita a Ravenna, ma anche in altre province, dell'Istituto storico della Resistenza, per raccogliere le carte della clandestinità, dei primi comitati di liberazione nazionale e dell'immediato dopoguerra. Sorto inizialmente per conservare i documenti politici di quel periodo affinché fossero consultabili subito e non dopo i cinquant'anni previsti dalle regole degli archivi di Stato, aveva nel tempo allargato il proprio interesse alle raccolte di giornali e manifesti, di documenti minori e privati e da ultimo di fotografie e di fonti orali.
Soprattutto queste ultime, con le lunghe storie di vita contenute e le immagini spontanee o di circostanza che arrivavano insieme ai documenti privati, spesso donati dagli eredi, denunciavano un grande scollamento fra l'immagine civile e militare del periodo bellico contenuta nei documenti e nelle fonti tradizionali, per i particolari non organizzati, per la scrittura popolare e per le riprese "in soggettiva" che restituivano umanità, calore e credibilità alle biografie dei militanti. Nel tempo l'Istituto aveva organizzato anche una buona biblioteca specializzata in grado di affiancare, alle prime testimonianze dirette, i risultati della storiografia più attenta che nel corso degli anni si sarebbe aperta alle cosiddette fonti secondarie o sociali. Anche le iniziative scientifiche ed editoriali dell'Istituto storico, dopo aver studiato a fondo gli eventi militari del periodo 1943-1945, si andavano lentamente spostando, come quelle di tanti altri istituti in Italia, sulla dimensione civile di quell'epoca, come il ruolo delle donne, i diari parrocchiali e privati, la memorialistica minore e le tracce di una nuova cultura di massa che seguiva il graduale passaggio da una mobilitazione totale del tempo di guerra ad una ricostruzione civile del tempo di pace.
Il Museo della Battaglia del Senio era nato per ricordare il fortunato concorso di forze regolari del nuovo Esercito italiano con i reparti partigiani del Ravennate in occasione dell'ultima, vittoriosa, offensiva alla Linea Gotica primaverile, che nel giro di un mese, nell'aprile 1945, avrebbe sancito la definitiva sconfitta dei tedeschi in Italia. Ma nonostante la compresenza di tanti eserciti, in qualche modo condizionati nelle loro battaglie dalla morfologia del territorio, il puro fatto d'arme rischiava di limitare la capacità narrativa dell'istituzione museale ad una sola dimensione militare, al solito racconto bellico che non va oltre le armi, le carte e le insegne dei vincitori. Ci volle qualche tempo a farlo diventare anche un museo del territorio.
Il primo decennio di vita di questo centro fu dedicato alla ricerca ed alla descrizione di un ambiente più vasto, di un prima e di un dopo, degli esiti di contaminazione e di civilizzazione che anche un conflitto totale e distruttivo come quello aveva comunque prodotto in Romagna. Il rapporto guerra-territorio, simboleggiato dal ponte Bailey montato all'ingresso del museo, la sezione dedicata al riciclaggio dei materiali bellici nell'indigenza generale di quegli anni, le colonne sonore ed i nuovi prodotti alimentari giunti al seguito dei militari riuscirono nel tempo a descrivere un'epoca in cui la confidenza delle popolazioni con la guerra si fece altissima ed i confini tra militare e civile andavano, anche mentalmente, ad annullarsi.
Privilegiando la funzione didattica rispetto a quella celebrativa si aprivano, per quel museo inventato, campi di ricerca inconsueti ed interessanti, su fenomeni apparentemente di natura tecnica, ma che finivano poi per incrociare la natura e le scelte degli uomini in un determinato territorio. Un esempio pratico può aiutare la comprensione di ipotesi di ricerca originate da una concezione dinamica della storia contemporanea, rappresentata in quel piccolo museo locale: chi studierà un giorno, e su quali fonti, il rapporto intercorso tra l'industrializzazione postbellica della nostra agricoltura ed i mezzi cingolati lasciati qui dal passaggio degli eserciti alleati? I romagnoli da sempre hanno dimostrato grande attitudine alle trasformazioni forzose di un territorio poco amico, spostando argini e bonificando paludi. Quando però gli anglo-americani lasciarono sul terreno un'infinità di macchine per movimento terra, potenti motori aspiranti ed i lunghissimi pipeline che alimentavano la loro avanzata, ci fu un balzo tecnologico enorme, ancora appoggiato sui cingoli dei mezzi militari, ma già in grado di tracciare gran parte del paesaggio che oggi vediamo intorno a noi. Su tutto ciò non esistono ricerche specifiche, ma solo poche immagini fotografiche e molti ricordi di operosi meccanici e valenti cooperatori. Sarà una storia veramente nuova quella che, da un piccolo museo locale, riuscirà ad avviare studi interdisciplinari e indicatori utili ad una suggestiva ipotesi di ricerca, per un'identità regionale tipica del ventesimo secolo.
Quando, nello scorso decennio, l'Istituto storico assunse anche la denominazione di "istituto di storia contemporanea" in base ad una tendenza diffusa fra tutta la rete nazionale degli istituti simili, ed uscì dalle sue originarie funzioni archivistiche per impegnarsi nella didattica del Novecento su temi più vasti della lotta di liberazione, andò ad aprire sempre più spesso le proprie raccolte e ricerche ad una formazione sia storica che civile notevolmente ampliata rispetto alle élites culturali dei decenni precedenti. Il Museo della Battaglia del Senio contemporaneamente aveva prestato attenzione alle culture ed ai linguaggi dei molti soldati presenti in quel teatro di operazioni diventando un osservatore molto laico di vicende militari di forte impatto civile. Furono prodotte alcune significative comparazioni tra le diverse documentazioni fotografiche, gli effetti della propaganda bellica e le cause di morte nei mesi dell'occupazione.
In particolare va detto che la collaborazione ed il conforto scientifico fornito dall'Istituto storico al Museo hanno consentito una più accurata analisi delle fonti e dei materiali esposti, una più ricca dotazione multimediale (data da cineteca, fototeca, emeroteca e fonoteca) ed un serbatoio di materiali documentali che avranno sempre maggior visibilità e conoscenza, ricevendone in cambio le attenzioni per la conservazione materiale a cui i musei fanno ricorso più spesso. Come le fonti fotografiche erano state comparate e studiate da diverse angolazioni, così anche altri fondi furono utilizzati da allora con maggior rigore e consapevolezza. Da un iniziale avvicinamento tra i due istituti si è passati a due sedi attigue nel 1998, ricondotte nel 2003 sotto un'unica direzione scientifica che può contare su collezioni diverse, strumenti complementari ed un organico meglio assortito; soprattutto sulla risorsa condivisa di una buona biblioteca di testi recenti che può validamente affiancare l'Ente Casa di Oriani di Ravenna, da tutti riconosciuta come la raccolta più qualificata di testi per la storia contemporanea in Emilia-Romagna.
Esperienze analoghe a quella ravennate sono state condotte negli ultimi tempi anche in altre province della nostra regione, per cui l'Istituto storico di Modena ha seguito direttamente il riallestimento del Museo di Montefiorino, ha collaborato al rilancio del Museo Cervi a Gattatico e sostenuto il Museo della deportazione a Carpi. Si sono riavvicinati il Museo del Risorgimento e quello della Resistenza a Ferrara e l'Istituto di Forlì sta gestendo diversi itinerari appenninici come se fossero già un percorso museale a cielo aperto.
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