Rivista "IBC" XII, 2004, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / leggi e politiche, pubblicazioni

"Valorizzazione" sta per...? "Offerta" o "vendita" di un servizio pubblico? Su questo termine più che mai controverso si dividono oggi legislatori e amministratori. Proviamo a ricostruirne la storia.
Il fine ultimo? Valorizzare

Guido Guerzoni
[docente di Progettazione e management degli archivi digitali e Storia delle istituzioni artistiche e culturali all'Università "Bocconi" di Milano]

Il 3 e il 4 ottobre del 2003 il Comune di Formigine e la Fondazione Cassa di risparmio di Vignola (Modena) hanno promosso il convegno "Castelli: riutilizzo e gestione", organizzato in collaborazione con il Servizio per i beni architettonici e ambientali dell'IBC. La scelta delle sedi è stata legata in modo significativo all'occasione dell'incontro: a Formigine il Comune ha trasferito la propria sede dal Castello per permetterne il restauro e il successivo riutilizzo, a Vignola il Castello Boncompagni Ludovisi è oggetto di un programma di valorizzazione promosso dalla stessa Fondazione Cassa di risparmio. Dal confronto tra alcuni casi "tipo" regionali, nazionali ed europei (in particolare francesi e austriaci) la discussione ha preso le mosse per affrontare la questione del recupero dell'ingente patrimonio costituito dai castelli, questione esaminata sia dal punto di vista tecnico del loro riuso corretto e sostenibile, sia delle possibili destinazioni e delle modalità gestionali più opportune, ovvero della loro valorizzazione.

Di Guido Guerzoni - uno dei relatori del convegno, docente del corso di laurea in Economia per l'arte, la cultura e la comunicazione presso l'Università "Luigi Bocconi" di Milano - proponiamo un'analisi generale del concetto giuridico di "valorizzazione", così come si è evoluto negli ultimi trent'anni nel nostro paese. Il testo è tratto dalla premessa al capitolo I del volume di Guido Guerzoni e Silvia Stabile, I diritti dei musei. La valorizzazione dei beni culturali nella prospettiva del rights management, Milano, Etas, 2003 (Fondazione Corriere della Sera): ringraziamo per la cortesia l'autore e l'editore.

 

Il presente elaborato rappresenta una delle tappe di un percorso di ricerca intrapreso tre anni fa, allorché la Fondazione "Corriere della Sera" decise, con coraggio, di accogliere una proposta presentata dal professor Stefano Baia Curioni e dallo scrivente, entrambi docenti nel corso di laurea in Economia per l'arte, la cultura e la comunicazione attivato a partire dall'anno accademico 1998-1999 presso l'Università "Luigi Bocconi" di Milano. Tale proposta era scaturita dalle comuni riflessioni sui limiti intrinseci della legge Ronchey, che evidenziavano la necessità di provvedere in tempi ragionevolmente rapidi all'individuazione di nuove forme di valorizzazione dei beni culturali, capaci di scardinare lo sterile dibattito insorto alle forme ottimali di governancee ai meccanismi di riparto delle quote variabili dei canoni di concessione dei servizi, per giungere così al cuore della questione: la sostenibile giustezza dei rapporti tra Economia e Cultura.

Va detto altresì che queste riflessioni, lungi dall'essere il frutto di pure speculazioni accademiche, erano state corroborate da diverse e importanti esperienze professionali, quasi tutte maturate all'interno di One Day SpA, la società milanese di rights management fondata e presieduta dal professor Baia Curioni, che avevano consentito di testare sul campo le suggestioni alimentate dall'analisi della letteratura e delle best practises internazionali, validandone o invalidandone, a seconda dei casi, i presupposti teorici. A tale proposito ricordiamo il pionieristico progetto di valorizzazione della Soprintendenza autonoma di Pompei, condotto nel corso del biennio 1999-2000 col decisivo contributo dei manager di RCS Cultura e dello staff alle dipendenze del soprintendente professor Pietro Giovanni Guzzo e del city manager professor Giuseppe Gherpelli, una coppia delle cui doti umane e professionali serbiamo ancora un felice ricordo, cui fecero seguito altri progetti analoghi, spesso condotti coll'apporto dello Studio Lovells e Associati, rappresentato dall'avvocato Silvia Stabile. Tra questi menzioniamo per rilevanza quelli aventi ad oggetto il circuito delle delizie Sabaude, redatto in collaborazione col professor Walter Santagata, l'Archivio della Fondazione "Ugo Mulas", la Fondazione "Zeri", il Museo "Poldi Pezzoli", le Civiche raccolte "Bertarelli", la Mediateca di Santa Teresa, il Fondo per l'ambiente italiano, l'Archivio "Ricordi", la Biennale di Venezia.

Queste esperienze confermarono la possibilità di pervenire a modelli sostenibili di valorizzazione dei beni culturali in grado di dirimere l'attualissima querelle sorta attorno all'interpretazione del termine. Vale dunque la pena di ricostruire brevemente la picciola ma veridica storia di questo controverso lemma, rammentando che esso fece la sua prima apparizione scritta "in un testo normativo della legge 26 aprile 1964, n. 310, istitutiva della Commissione Franceschini (Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico e artistico e del paesaggio)",1 per poi rispuntare accanto al concetto di tutela nell'articolo secondo, comma primo, del Decreto legge 14 dicembre 1974, n. 657 convertito in legge con modificazioni dalla Legge 29 gennaio 1975, n. 5, fra i compiti assegnati al neocostituito Ministero dei beni culturali e ambientali, seppur in forme tanto inespresse quanto inespressive.

Il cambiamento epocale si manifestò nel 1997, allorché la cosiddetta legge "Bassanini I" (Legge 15 marzo 1997, n. 59), vietò di conferire alle regioni la funzione di "tutela dei beni culturali e del patrimonio storico", introducendo la nozione di gestione (intesa come "ogni attività diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali") ed evidenziando il bisogno di addivenire a una definizione che distinguesse, per contrapposizione, tra le facoltà di tutela, rimaste di esclusiva pertinenza statale, e quelle di valorizzazione, esercitabili anche da altri soggetti pubblici.

Tale distinzione occorse allorché il decreto legislativo attuativo della delega, il decreto legge 112 del 31 marzo 1998, precisò nel comma c dell'articolo 148 che rientrava nel novero della tutela "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali", riservando invece alla definizione del concetto di valorizzazione l'intero articolo 152. Ivi si precisava, nel terzo comma, che:

 

Le funzioni e i compiti di valorizzazione comprendono in particolare le attività concernenti: a) il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità e valore; b) il miglioramento dell'accesso ai beni e la diffusione della loro conoscenza anche mediante riproduzioni, pubblicazioni ed ogni altro mezzo di comunicazione; c) la fruizione agevolata dei beni da parte delle categorie meno favorite; d) l'organizzazione di studi, ricerche ed iniziative scientifiche anche in collaborazione con università ed istituzioni culturali e di ricerca; e) l'organizzazione di attività didattiche e divulgative anche in collaborazione con istituti di istruzione; f) l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati; g) l'organizzazione di eventi culturali connessi a particolari aspetti dei beni o ad operazioni di recupero, restauro o ad acquisizione; h) l'organizzazione di itinerari culturali, individuati mediante la connessione fra beni culturali e ambientali diversi, anche in collaborazione con gli enti e organi competenti per il turismo.

 

Da un'attenta lettura dell'articolato risulta evidente - di là dall'incongruenza del punto a, che ha posto le premesse per annosi conflitti di competenza in tema di tutela, soprattutto con le Regioni - che in questa specifica accezione la nozione di valorizzazione ha recepito, ampliato e potenziato le tradizionali impostazioni in tema di servizio pubblico, insistendo soprattutto sul miglioramento delle condizioni di accesso ai beni, sulla diffusione della conoscenza, sulla tutela delle classi di utenza meno privilegiate, sulla promozione di studi, ricerche e attività formative, sull'organizzazioni di eventi dalle finalità eminentemente scientifiche e culturali. Secondo tale formulazione il valore che doveva scaturire da siffatti progetti non era affatto di natura economica, bensì di carattere e sociale e culturale, dunque non individualmente appropriabile bensì collettivamente godibile; de facto, il testo del provvedimento non accennava mai né minimamente alla produzione di valore economico, ma esortava semmai lo stato e gli enti locali a incrementare la presenza e gli investimenti nel settore, svincolandone i sistemi valutativi da qualsivoglia considerazione di ordine finanziario circa i supposti ritorni che tali interventi avrebbero potuto o dovuto garantire.

Tale impostazione venne ribadita dal legislatore l'anno successivo, quando nel capo VI del Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 240 (altrimenti noto come Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), capo intitolato Valorizzazione e godimento pubblico, si specificò che per valorizzazione s'intendeva "qualunque attività avente come fine ultimo l'incremento della fruizione e del godimento pubblico", riconoscendo financo al termine un significato più "puntuale e ristretto, legato al bene e all'uso dello stesso, omettendo di prendere in considerazione quegli aspetti di organizzazione (di studi, eventi culturali, mostre, ecc.) non strettamente e inscindibilmente connessi al bene".2

Le cose mutarono radicalmente coll'avvento del secondo governo Berlusconi; infatti, assecondando un'inedita interpretazione del termine, l'articolo 7, comma primo, della Legge 15 giugno 2002, n. 112, di conversione con modificazioni del Decreto legge n. 63 del 15 aprile 2002, annunciò l'istituzione della "Patrimonio dello Stato SpA" - lontana parente della Società italiana per i beni culturali, SIBEC SpA, costituita nel 1997 - quale soggetto chiamato a esercitare funzioni di "valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato", nel rispetto de "i requisiti e delle finalità propri dei beni pubblici" e "degli indirizzi strategici stabiliti dal ministero dell'Economia e delle Finanze sulla base delle direttive di massima adottate dal CIPE [il Comitato interministeriale per la programmazione economica, ndr]". Tale provvedimento - pur temperato dalle direttive emanate dal CIPE il 19 dicembre 2002 - prevedeva la possibilità di spossessare de facto il Ministero per i beni e le attività culturali delle funzioni di valorizzazione e gestione, introducendo altresì, tramite la facoltà di provvedere all'alienazione dei beni, criteri valutativi di ordine economico. Secondo questa interpretazione, riverberantesi nella nozione fatta rapidamente propria, per imitazione, da diversi enti locali, le attività di valorizzazione dei beni culturali possono coincidere anche con la loro messa a reddito, non escludendosi dunque l'opzione ultima della mera alienazione; la valorizzazione, in questa prospettiva, sembra consistere in primis nell'estrazione di valore economico, finalità che può essere perseguita anche a detrimento delle sopra citate funzioni di servizio pubblico.

Si tratta di due concezioni che, date le premesse, cercheranno inutilmente di trovare un comune momento di sintesi; non è quindi un caso che si sia giunti a separare e, sempre più spesso, contrapporre, le attività di tutela, gestione e valorizzazione,3 ingenerando una confusione che va ben al di là della pura disputa terminologica.4 Infatti, perdurando l'equivoco, la proposizione e auspicabile risoluzione della questione, questa sì esiziale, delle forme sostenibili e compatibili di valorizzazione culturale ed economica, viene costantemente elusa e procrastinata nel tempo, risolvendosi in interminabili discussioni circa chi debba provvedervi (il pubblico, il privato, il terzo settore, il quarto settore, potentati stranieri, forze aliene), perché alcuni dei soggetti sopra menzionati siano ideologicamente più idonei di o degli altri a farlo, quali formule istituzionali possano assicurare l'equilibrio o lo squilibrio dei poteri e garantire l'esercizio del comando. Così, da diversi anni, funzionari pubblici, assessori, giuristi, avvocati, notai, commercialisti, imprenditori, banchieri ed economisti sperimentano soluzioni alchemiche di natura economico-politico-giuridica - fondazioni di partecipazione, società di cultura, imprese culturali, trusts, società per azioni, associazioni temporanee di imprese e di scopo, global services - che si susseguono senza sosta, senza pace, senza prestare soverchia attenzione a cosa possa essere valorizzato e come lo si possa fare, con quali mezzi finanziari, garanzie di tenuta nel tempo, strumenti operativi, procedure gestionali, profili professionali e risorse umane.

Eppure, forti dell'osservazione di tante positive esperienze straniere, molti analisti restano convinti che sia possibile escogitare compromessi più che onorevoli e individuare forme di valorizzazione che, senza provocare dismissioni forzate né arrecare danni al patrimonio, possano contribuire in modo determinante sia al perseguimento delle finalità indicate dal legislatore sino al 2000, sia alla marcata crescita delle entrate finanziarie ottenibili con una gestione più moderna degli assets statali e maggiormente sensibile a quanto di importante sta accadendo fuori dai ristretti confini nazionali, ove il connubio tra valorizzazione culturale ed economica si è, da tempo, felicemente celebrato.

Questo traguardo può essere raggiunto anche accogliendo i suggerimenti raccolti nello studio che qui si presenta, che non si basano su astratte indicazioni di policy, ma sui risultati di un'indagine comparativa durata quasi tre anni, i quali indicano con chiarezza e senso pratico i passi che si potrebbero compiere per implementare una strategia di valorizzazione, che, a differenza della maggioranza dei modelli suggeriti in passato, non postula né la dismissione dei beni (è assai facile incrementare le entrate vendendo cespiti), né, tanto meno, l'affidamento a soggetti terzi di tutte le attività di gestione e valorizzazione. Non ha infatti molto senso scindere in modo così netto tutela, gestione e valorizzazione: solo chi conosce davvero il proprio patrimonio può gestirlo e valorizzarlo in forme ottimali, né vi può essere valorizzazione di sorta senza una seria e scrupolosa opera di tutela. L'idea, propugnata da molti e in certuni casi accolta anche dal Ministero per i beni e le attività culturali - che tutela, gestione e valorizzazione possano essere disgiunte e affidate a soggetti diversi - cozza contro il buon senso e, poiché in Italia tale evidenza non pare bastare, contro tutte le best practises internazionali.

Nessuna istituzione culturale di rilievo mondiale ha mai affidato il core delle sue attività di gestione e valorizzazione a un soggetto esterno, pubblico, privato o misto che sia; tali decisioni vengono normalmente assunte anche in base a criteri di convenienza economica, ma non bisogna confondere l'appalto dei servizi di guardiania o di pulizia dei bagni colle attività editoriali, le iniziative convegnistiche, i programmi formativi, la produzione di mostre o la gestione di servizi ad elevato valore aggiunto. Vi sono infatti attività di gestione e valorizzazione che esercitano un impatto immediato - e destinato ad assumere crescente importanza - sulle forme e i modi con cui l'identità e la missione delle istituzioni culturali vengono percepite dai loro diversi, e sempre più numerosi, pubblici di riferimento, pubblici che coincidono sempre meno coi visitatori cari a tante analisi nazionali.

D'altronde i tempi necessari per acquisire la conoscenza di patrimoni tanto eterogenei quanto sconfinati e gli investimenti sostenuti nel formare persone all'altezza di questi compiti sono tali da rendere improponibile e, soprattutto, antieconomica, l'idea che soggetti esterni, sulla base di appalti o convenzioni quadriennali o quinquennali, possano davvero gestire e valorizzare le collezioni in modo efficiente: la progettazione e realizzazione di nuove forme distributive (ad esempio il digital image licensing), di prodotti editoriali di successo (quali le mostre itineranti) o l'erogazione di servizi ad alto valore aggiunto (dalla formazione alla ricerca su commessa) non possono prescindere da una capillare conoscenza del patrimonio e dei settori di riferimento, ottenibile solo dopo anni e anni di pratica quotidiana.

Ben diversa cosa è il ricorso a terzi per condividere o esternalizzare fasi dei medesimi processi: vi sono molte attività che conviene affidare a soggetti esterni (agenti per l'image licensing, business developers per il merchandising, stampatori digitali per i reprints, ecc.), tuttavia reperire un partner per la distribuzione editoriale o un valido fornitore per la stampa non significa delegare in toto la progettazione di cataloghi e palinsesti, come si può evincere dalla disamina delle prassi in uso presso le principali istituzioni estere, le quali, non appena raggiungono una dimensione minima ottimale, tendono a divenire editori, produttori di mostre itineranti, gestori dei propri punti vendita, agenti delle proprie linee di merchandising, ideatori di programmi formativi, al fine di preservare il controllo su questi fondamentali processi di produzione e strumenti di comunicazione e garantirsi l'appropriazione degli ampi margini economici generati da tali attività.

 

Note

(1) Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, il Mulino, 2003, p. 57.

(2) Ibidem, p. 58.

(3) È questo il caso del controverso e contestato nuovo testo dell'articolo 117, come modificato dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001.

(4) Si vedano a tal proposito le acute osservazioni espresse da Rosanna Cappelli nel testo Politiche e poetiche per l'arte, Milano, Electa, 2002 (in particolare le pagine 140-147), da Pietro Petraroia nella prefazione al volume di Silvia Bagdadli, Le reti di musei. L'organizzazione a rete per i beni culturali in Italia e all'estero, Milano, Egea, 2001 (in particolare le pagine XVI-XVII) e da Salvatore Settis, Italia S.p.a. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002 (in particolare il capitolo X).

 

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