Rivista "IBC" XI, 2003, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / linguaggi, pubblicazioni
La differenza tra il semplice osservare oggetti e il leggere, il ricostruire, il tradurre mondi complessi; tra il descrivere un paesaggio e l'abitarvi dentro; tra il catalogare i reperti visivi di un viaggio e il trasformare il viaggio stesso in un modello di percezione; la differenza, insomma, tra lo sguardo fisso, dominante, al riparo da tutto ciò che osserva, e l'occhio inquieto del viandante, lo strumento trasformato in codice estetico, almeno a partire da Rousseau: questa differenza è l'oggetto della riflessione critica - ricchissima di rimandi e sollecitazioni, e oltremodo persuasiva - di Vincenzo Bagnoli, autore del volume Lo spazio del testo. Paesaggio e conoscenza nella modernità letteraria, pubblicato di recente per i tipi di Pendragon.
Soffermandosi in primo luogo su Ariosto, Leopardi, Ungaretti, Calvino, ma giungendo alla più serrata contemporaneità poetica (Amelia Rosselli, il Gruppo 93, Nadiani, Magrelli), Vincenzo Bagnoli avvia la sua indagine a partire da una domanda: come fa un testo letterario ad appropriarsi di un paesaggio e a restituirne la pienezza, senza ridurlo a un oggetto inerte, o allo sfondo, alla cornice convenzionale, alla quinta di un'azione o di un reticolo narrativo? Come fa uno scrittore a immergerci nell'"habitat", nel clima del paesaggio che percepisce? E come riusciamo noi, da lettori, a "esistervi dentro", a orientarci in esso? In che modo, insomma, il soggetto narrativo può abbandonare il proprio punto isolato di osservazione per moltiplicarne l'efficacia?
Lo spazio del testo affronta quindi - al confine tra l'analisi letteraria e la più vasta storia della percezione - la tramatura complessa dell'Orlando furioso, riletto attraverso la mediazione di Calvino. Vasto trionfo di ciò che Bagnoli definisce il "punto di vista del qui" (che non è né l'io, né il noi; un soggetto, insomma, né intimo né storico; un occhio che rinuncia a rappresentare quella poetica dell'allegoria che aveva dato impulso, per dirne una, al viaggio di Dante), il Furioso viene riletto alla luce di una fantasia cartografica, di una strategia interpretativa che agisce attraverso l'aprirsi, l'esporsi di una mappa gigantesca. Di lì in avanti lo "spazio del testo" sarà uno spazio destinato a diventare chiave di lettura del mondo; tra gli esempi più rilevanti Bagnoli indica, a ragione, Ungaretti, nel quale la puntuale collocazione spaziale (luogo e data) delle poesie di trincea forma il "punto di partenza", il qui dell'immaginazione; come il colle dell'Infinito per Leopardi. E proprio in Leopardi, particolarmente nella Ginestra, Bagnoli rileva il carattere pervasivo, la capacità di penetrazione del paesaggio in tutto l'essere di chi lo abita; un elemento di concretezza che procede ancora una volta al di là del limite dell'allegoria.
L'ultimo capitolo del saggio di Bagnoli è dedicato alla città, alla percezione dello spazio urbano nelle poetiche contemporanee; uno spazio che affianca la ricerca architettonica all'inquietudine del progetto e, non da ultimo, al senso di dispersione in un meccanismo alienante. Bagnoli richiama opportunamente l'idea di "cartografia cognitiva" di Fredric Jameson, il teorico di maggior rilievo nel dibattito sulla postmodernità; ma lo fa sottolineando con forza il valore costruttivo e il fondo etico dell'analisi: guardare il paesaggio contemporaneo significa dare forma, esattezza, capacità di orizzonte alla materia del caos.
V. Bagnoli, Lo spazio del testo, Bologna, Pendragon, 2003, 197 p., Ç 15,00.
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