Rivista "IBC" XI, 2003, 2
territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, storie e personaggi
Ai castelli dell'Emilia-Romagna l'IBC ha dedicato un apposito progetto di conoscenza e valorizzazione, che prevede la raccolta delle fonti bibliografiche e iconografiche, la creazione di una banca dati georeferenziata provincia per provincia, la diffusione di notizie riguardanti eventi e manifestazioni a tema, e l'organizzazione di una mostra intitolata "Obiettivo castelli. Immagini fotografiche per la tutela e la valorizzazione in Emilia-Romagna" (per maggiori dettagli si veda la sezione "Attività" del sito IBC). Rocche e castelli di Romagna, pubblicato in tre volumi nel 1971 dalle gloriose Edizioni Alfa di Bologna, rimane tuttora un punto di riferimento fondamentale nella bibliografia del settore. A distanza di trent'anni il curatore di quell'impresa editoriale, Gian Franco Fontana, ha ceduto all'IBC l'imponente documentazione raccolta nell'occasione: più di ottomila negativi, quasi duemilacinquecento foto, duecentocinquanta carte dell'Istituto geografico militare. A Fontana abbiamo chiesto di raccontarci come cominciò tutto.
Le mie ricerche fotografiche sul territorio iniziarono nel 1963, quando
ricevetti da Berna, Svizzera, una bella lettera e un diploma della FIAP, la
Fédération Internationale de l'Art Photographique, che mi nominava Artiste
Fiap (Afiap). La motivazione stampata sul diploma dice: "In
considerazione dei suoi sforzi, del lavoro e della tecnica per lo sviluppo
futuro dell'arte fotografica e in riconoscimento degli importanti servizi che
ha reso alla causa della Fotografia".
Mi ero interessato alla fotografia già negli ultimi anni delle scuole elementari in seguito al regalo di una piccola macchina fotografica Zeiss box che mi aveva fatto uno zio di Roma. In verità, in casa mia, esistevano già alcune macchine fotografiche: una macchina a lastre formato 9x12 cm di non grande qualità e una macchina fotografica 6x9 cm a rullo, anch'essa di qualità modesta, entrambe di mio padre che si era dilettato per un breve periodo a fotografare, sviluppare e stampare per contatto le sue foto. Ma fu da questo regalo che nacque la mia passione per la fotografia.
A quel tempo venivano pubblicate in Italia, credo, tre riviste di fotografia e tra di esse emergeva "Il progresso Fotografico" del professor Namias. In una città di provincia come la mia, Imola, allora non era molto facile acquistare una rivista tecnica e il suo costo era elevato in rapporto alla "paghetta" che ricevevo da studentello di scuola media. Tuttavia ci riuscii con alcuni sacrifici (e a questi forse devo il non avere contratto il vizio del fumo!) e su quel giornale e sui manuali da esso pubblicati formai il mio bagaglio tecnico di autodidatta. I fotografi di quel tempo erano molto gelosi dei loro "segreti" professionali e rivolgersi a loro per imparare le tecniche non era stata una esperienza positiva.
Gli sviluppi fotografici in uso ai professionisti e ai dilettanti erano quasi sempre confezionati artigianalmente in base a ricette che pubblicavano le riviste, ma i prodotti necessari non sempre li trovavo (in farmacia) chimicamente ben conservati; ricordo ancora quelle confezioni di metolo e idrochinone (per lo sviluppo) che appena sciolte in acqua davano un liquido scuro come il caffè dimostrando di essere già scadute in partenza!
La mia camera oscura fu il bagno di famiglia, e la tinozza coperta con un legno compensato diventò il mio tavolo da lavoro. Terminato il liceo, la licenza di maturità mi permise di ottenere in regalo dai miei una macchina fotografica Condor Galileo con un obiettivo a tre lenti e un otturatore fino al cinquecentesimo di secondo. Ragionando a posteriori devo però convenire che, più della nuova macchina fotografica, lo sviluppo delle mie conoscenze tecniche e artistiche è debitore alla città di Bologna, alla cui Università mi iscrissi, e dove finalmente potei trovare negozi ben forniti di materiale per la fotografia. L'accesso facilitato a pubblicazioni in italiano, francese e inglese fecero il resto. Per esempio le mie visite alla biblioteca americana dell'USIS mi permisero, con accesso diretto ai libri, di trovare finalmente molti manuali tecnici validi e libri illustrati di fotografi famosi.
A quel tempo (dal 1951, per la precisione) esercitavo anche una impegnativa attività come giornalista pubblicista su quotidiani e riviste, la qual cosa mi permetteva di integrare le mie modeste entrate economiche, tanto che in alcuni anni il mio corredo di macchine fotografiche si ampliò e arricchì passando da una macchina fotografica Rolleicord a una Rolleiflex e da una 24x36 mm Agfa a una Leica con due obiettivi. La lettura dei manuali fotografici stranieri aveva migliorato notevolmente le mie conoscenze tecniche fotografiche tanto che divenni anche collaboratore delle riviste "Il progresso Fotografico"e "Ferrania". Sempre in quegli anni un esperto radiotecnico aveva fondato una rivista mensile per hobbysti, "Sistema Pratico", che per un decennio ebbe un grandissimo successo: vi collaborai per anni con una rubrica di fotografia tecnica.
A Bologna, durante il corso universitario, avevo avuto anche il "coraggio" di chiedere l'iscrizione al famoso ed esclusivissimo Circolo fotografico bolognese, che allora era rappresentato dai famosi dilettanti fotografi Cavalli e Parmiani. In quegli anni le loro fotografie erano giudicate ai vertici della fotografia amatoriale. Il Circolo era frequentato da fotografi dilettanti con notevoli possibilità economiche e l'iscrizione non era facile. Non fu così nei miei confronti, perché in verità mi fu concessa senza eccessive difficoltà, ma questo avvenne dopo che i "grandi fotografi bolognesi" ebbero visionato le fotografie che avevo prodotto fino a quel momento, tutte stampate su grande formato, smaltate senza difetti. Con me entrò nel Circolo, con analogo esame, anche Antonio Migliori, oggi ai vertici della fotografia artistica italiana [una selezione delle fotografie di Migliori è visibile in questo numero di "IBC", ndr]. A quel tempo, entrambi e senza esserci conosciuti in precedenza, avevamo come modello di riferimento la fotografia documentaria che veniva stampata nelle grandi riviste illustrate, una per tutte "Life", ma per essere ammessi al Circolo bolognese presentammo delle fotografie "a tono alto", ovvero fotografie che seguivano gli indirizzi estetici dei "maestri" Cavalli e Parmiani, che forse a loro volta si ispiravano all'estetica del contemporaneo pittore bolognese Giorgio Morandi.
L'iscrizione comportò la mia partecipazione ai numerosi concorsi nazionali e alle mostre internazionali di fotografia alle quali il Circolo inviava le opere dei suoi iscritti. Generalmente il premio era una piccola medaglia, ma molto più spesso un adesivo di partecipazione da applicare sul retro della fotografia e l'inserimento in una classifica a punti. Nel 1958 partecipai con una decina di fotografi italiani a una mostra al Museo di arte moderna di New York, intitolata "La fotografia italiana degli anni Cinquanta".
Nel 1963, raggiunto quel riconoscimento di cui ho detto all'inizio, mi sentii appagato e decisi di limitare la mia partecipazione ai concorsi, per dedicarmi ad altre ricerche. Ho amato tanto la fotografia che non ho mai pensato di farne un lavoro, nel timore che trasformarla in professione diminuisse in me la passione. L'attività giornalistica mi aveva però messo in contatto con altre realtà bolognesi e in particolare con un gruppo di artisti, scrittori, critici d'arte, storici che si riunivano la domenica mattina in via Santo Stefano presso la sede della casa editrice Alfa guidata dal compianto libraio-editore Elio Castagnetti. In quel "mitico" circolo domenicale, di cui era leader Andrea Emiliani, negli anni Sessanta cominciai a usare la fotografia come un mezzo volto alla documentazione di quei "beni artistici e culturali" italiani che allora, timidamente e ancora fuori dalle istituzioni, si stavano affermando come un "patrimonio" nella pubblica opinione.
L'interesse per i beni culturali si faceva sentire anche in provincia: già nel 1955 la Biblioteca di Forlì aveva promosso una ricerca sul territorio che confluì, nel 1959, in una mostra dal titolo: "Castelli, Rocche e Torri di Romagna", iniziativa a cui aderì e collaborò anche la Biblioteca di Imola. Direttori della ricerca e della mostra i rispettivi direttori: Walter Vichi e Fausto Mancini, sovvenzionatrice la Fondazione della Cassa di risparmio di Forlì. Da questa mostra nacque un catalogo con il medesimo titolo, che ebbe un grande successo ma una diffusione limitata. Il volume era illustrato con molti disegni e poche fotografie fuori testo e illustrava i principali monumenti allora visibili sul territorio. La ricerca sul campo per la mostra e il catalogo era stata eseguita da un giornalista pubblicista, Ferruccio Montevecchi, allora dipendente della Biblioteca di Imola, il quale oltre alle indicazioni storiche ricavate dai documenti consultati e fornite dai bibliotecari, si era avvalso della sua ottima conoscenza del territorio romagnolo (in particolare la montagna) che aveva visitato in precedenza per realizzare articoli e libri riguardanti il fronte di guerra e la resistenza nella nostra regione.
La mia amicizia con Montevecchi e la lettura del catalogo della mostra mi spinsero da subito, senza alcun incarico, a fotografare i castelli e i ruderi che incontravo sulla mia strada durante le gite di fine settimana che compivo, nelle buone stagioni, con la mia Vespa. Contemporaneamente perseguivo, con maggiore costanza, un altro obiettivo: la riproduzione delle fotografie ottocentesche esistenti nelle raccolte familiari della mia regione. Il mio archivio fotografico era noto agli amici che facevano parte del circolo di via Santo Stefano. In quegli anni si era aggiunto al gruppo un famoso fotografo di Milano, Paolo Monti, che su invito di Emiliani, aveva intrapreso una campagna fotografica sul nostro territorio. Egli vide le mie fotografie, non solo le riproduzioni ottocentesche ma anche quelle che andavo scattando di mia iniziativa sul territorio, e ne fu soddisfatto. Tanto che nel 1968, su incarico delle Edizioni Alfa, illustrammo assieme un grosso volume intitolato Questa Romagna due e curato da Andrea Emiliani. A questo ne seguiranno altri con la mia collaborazione fotografica e redazionale.
Fu allora che l'editore dell'Alfa, Castagnetti, mi propose di rieditare con molte fotografie quel catalogo delle rocche di Mancini e Vichi che aveva pubblicato nel 1959 per conto della Cassa di Forlì, un volume oramai esaurito e molto richiesto dai librai. L'editore, in verità, aveva contattato quei primi curatori del catalogo, ma non aveva concretizzato la collaborazione probabilmente per ragioni economiche. Una volta incaricato, impostai una nuova campagna di documentazione fotografica in funzione delle critiche che aveva avuto il catalogo, ma soprattutto in base alle esperienze sul campo che avevo appreso durante quelle ricerche sporadiche fatte di mia iniziativa con lo scooter nei fine settimana.
Come collaboratori scelsi quelli che si erano dimostrati validi e disponibili nella realizzazione di altri volumi dell'editore. Un primo gruppo fu composto da Gaetano Ravaldini e Domenico Berardi della Biblioteca Classense di Ravenna, coadiuvati da Franca Varignana che si occupò della ricerca storico-bibliografica e della compilazione delle schede; un secondo gruppo si occupò della ricerca, localizzazione e documentazione sul territorio e questo era formato da me stesso e da Ferruccio Montevecchi. In qualità anche di curatore dell'opera individuai come esperto di architettura militare un famoso architetto di Milano, Antonio Cassi Ramelli, che aveva pubblicato alcuni anni prima un bel trattato sulle fortificazioni: con la sua squisita gentilezza e consulenza impostai la campagna.
La prima preoccupazione fu dotarmi di una documentazione topografica del territorio e a tale scopo acquistai presso la libreria Zanichelli le carte dell'Istituto geografico militare (IGM) al 25.000 che rappresentavano la Romagna "storica" prendendo come ampi confini il Bolognese (fiume Idice), il crinale appenninico e il Montefeltro con i fiumi Conca e Foglia. Cercai poi le carte topografiche più vecchie: su di esse infatti erano segnati dei toponimi non più trascritti in quelle recenti degli anni Cinquanta.
Iniziai così una ricerca topografica sul territorio in collaborazione con coloro che si occupavano della schedatura. A matita cerchiavo nella carta topografica dell'IGM il punto dove era probabile fosse un reperto archeologico (nel caso che esso non fosse visibile naturalmente) basandomi sulla natura del terreno e sui toponimi registrati. Una volta confermata la individuazione dalla visita sul posto, individuavo la quota del terreno e sottolineavo con la matita rossa il punto. Occorre precisare come di molti castelli e torri fosse conosciuto il nome ricavato dai documenti, ma non si conoscesse la precisa localizzazione. Una buona intuizione fu quella di integrare la topografia con la geologia del territorio e a questo scopo acquistai anche le carte geologiche della regione. Dove una volta c'erano il mare, la palude o il letto di un fiume non era possibile fosse stato costruita una torre! Anche per i manufatti costruiti sui fiumi a difesa e offesa di ponti e guadi, bisognava tener conto del letto del fiume nel Medioevo, che solo nelle carte geologiche poteva essere topograficamente identificato.
La geologia informava, inoltre, sul materiale edile di cava disponibile nei pressi della costruzione militare. Per produrre i mattoni, a quei tempi, si costruiva una fornace apposita in occasione di ogni cantiere e quindi da una osservazione superficiale dei mattoni era possibile ricostruire storicamente, nelle sue varie fasi, l'edilizia del manufatto. Molto più spesso queste costruzioni sfruttavano le pietre e i sassi disponibili in loco. Un aiuto veniva anche dalla osservazione dei manufatti murari nelle costruzioni coloniche, qualche volta edificate sui ruderi di una torre o convento fortificato. I tracciati delle antiche vie di comunicazione erano ricavabili soprattutto dalle corrispondenze diplomatiche di fiorentini e veneziani, che furono, nel limite del materiale pubblicato a stampa, tutte consultate.
I mie mezzi di trasporto furono, in ordine, una motocicletta Vespa 150 e una FIAT Cinquecento. I fuoristrada che allora si potevano acquistare a prezzi economici erano solo residuati bellici di non grande affidabilità e con consumi elevati di combustibile. Coi mezzi motorizzati "normali" che avevo a disposizione, arrivavo il più possibile in vicinanza della località che mi proponevo di indagare, poi le gambe dovevano fare il resto. All'interno dell'auto disponevo su un compensato la cartografia, le matite nere e rosse, una scala millimetrata, un metro a nastro di 20 metri, una lente e il blocchetto di carta per gli appunti. Completavano l'equipaggiamento un binocolo, una pala pieghevole (anch'essa un residuato bellico), bottiglie di acqua, viveri per una giornata e articoli di piccolo pronto soccorso. Il "telefonino" era ben lungi dall'essere disponibile e quindi, prima di partire per la ricerca, molto spesso da solo, mi premunivo di indicare ai familiari il percorso che avrei fatto quel giorno nel caso malaugurato che fosse successo qualche incidente.
Ampliai il mio equipaggiamento fotografico. Possedevo una Rolleiflex nel formato 6x6: era abbastanza ingombrante e delicata da trasportare lungo terreni disagevoli, inoltre disponeva di un numero limitato di pose e di un solo obiettivo. Puntare sul formato 24x36 o "Leica", come allora si diceva comunemente, si dimostrò la scelta più adatta sia per la robustezza, sia per la versatilità nel cambiare le focali degli obiettivi. In quel periodo avevo abbandonato la Leica Leitz a telemetro per la fotocamera reflex giapponese Nikon F2, sempre nel formato 24x36 mm, che si dimostrerà ottima sia per i risultati ottici che per la versatilità.
Inizialmente la dotai di un obiettivo Nikon da 20 mm (grandangolare), di un obiettivo normale macro Nikon da 55 mm, di un teleobiettivo da 200 mm, di un obiettivo grandangolare decentrabile da 35 mm sempre Nikon, di un obiettivo Vivitar fisheye o "grandangolo" da 180 gradi. L'obiettivo decentrabile si dimostrò il più versatile per le riprese architettoniche e lo sostitui solo con un analogo da 28 mm, sempre Nikon, quando il primo era ormai consumato nella parte meccanica. Per i lettori meno tecnici preciso che l'obiettivo decentrabile permette di correggere, entro certi limiti, le deformazioni prospettiche che si determinano quando si fotografa non perpendicolarmente al soggetto, ovvero per esempio dal basso verso l'alto. Come accessori disponevo di un robusto cavalletto, un duplicatore di focale e di alcuni filtri fotografici in giallo e arancione.
Il materiale fotografico da ripresa, in bianco e nero, fu principalmente Kodak e Ilford nelle sensibilità medio alte (100-200 Iso). Nonostante che la Nikon avesse un esposimetro incorporato, usavo più spesso un esposimetro manuale professionale, il Lunasix. Durante lo svolgersi della campagna fotografica, durata alcuni anni, aggiunsi un secondo corpo di macchina fotografica Nikon come riserva di sicurezza nel caso si guastasse la prima.
La pellicola 24x36mm è economica e molto pratica, ma in una campagna di ricerca pone qualche problema nella classificazione dei negativi. Infatti non sempre i ruderi erano ben visibili e identificabili e in questo caso non era sufficiente segnalare il numero del fotogramma e la didascalia: per questo qualche volta, prima o dopo il fotogramma, scattavo con l'obiettivo macro una piantina topografica sommaria che avevo disegnato osservando il territorio. Più tardi usai anche una macchina Polaroid a sviluppo immediato così da disegnare e mettere in evidenza particolari e scrivere appunti.
La sequenza documentaria era: ripresa da lontano del manufatto per inserirlo nel paesaggio; ripresa "di infilata" di torri o castelli ubicati "a vista"; riprese quando possibile, di tutti i lati del rudere. Inoltre: riprese di interni, riprese di quadri, disegni o altro materiale iconografico che potevo reperire in loco (per questo scopo era ottimo l'obiettivo macro).
Un problema serio era fotografare un manufatto dall'unico lato possibile in quel momento, quando, guarda caso, lo avevo raggiunto e questo mi si presentava contro luce. Bisogna considerare che il luogo, spesso, era stato raggiunto dopo alcune ore di cammino disagevole e il tempo a disposizione, anche per gli impegni della mia professione, era limitato! Nelle stagioni primaverili e autunnali raggiungere un rudere al mattino presto era possibile, raggiungerlo per ragioni di luce verso sera era pericoloso (il ritorno era da farsi nelle tenebre).
L'esperienza acquisita nel trattamento dei negativi e nella stampa dei medesimi mi fu utilissima: il giorno dopo lo scatto, infatti, avevo sviluppato i negativi e sapevo come era venuta la ripresa. Considerato che per ragioni pratiche la campagna fotografica procedeva per zone topografiche contigue, nel caso di una ripresa non utilizzabile potevo rimediare la volta successiva.
Il lavoro di stampa delle fotografie era abbastanza impegnativo per il numero enorme delle immagini da stampare con una buona qualità. Al fine di ottenere sempre un formato utilizzabile per la stampa in volumi di grande formato, avevo standardizzato gli ingrandimenti in due formati: il 18x24 cm e il 24x30 cm. Una volta che furono stampati i volumi recuperai dalla tipografia la quasi totalità delle immagini utilizzate, che conservai in scatole in luogo asciutto per oltre 25 anni. I negativi li conservai negli appositi portanegativi numerati e nel 1988 informatizzai, con un programma DOS di catalogazione, i soggetti delle riprese e le parole chiave di riferimento per individuarli.
Da quanto ho descritto, i lettori avranno certamente capito che molto tempo è passato dalla prima edizione dei tre volumi Rocche e castelli di Romagna e che sorgeva per me il problema "civico" di lasciare ai posteri il materiale fotografico e cartografico di questa ricerca. Credo di averlo risolto cedendo il fondo all'Istituto per i beni culturali della mia regione.
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