Rivista "IBC" XI, 2003, 1

convegni e seminari, storie e personaggi

Nell'Europa del Seicento il pensiero e l'azione del condottiero pavullese Raimondo Montecuccoli intervennero nella teoria e nella pratica militare, ma anche nella sfera politica e culturale. Un convegno e la pubblicazione del terzo volume dell'edizione critica delle sue opere fanno nuova luce sul personaggio.
A servizio dell'Europa

Giovanni Tocci
[storico, componente del comitato tecnico-scientifico del convegno "Nell'Europa del Seicento: teoria, pratica militare, politica e cultura in Raimondo Montecuccoli"]

Nei giorni 4 e 5 ottobre 2002, tra Modena e Pavullo nel Frignano, si è svolto il convegno di studi "Nell'Europa del Seicento: teoria, pratica militare, politica e cultura in Raimondo Montecuccoli", organizzato dal Comune di Pavullo e dalla Provincia di Modena. Altri due convegni sul Montecuccoli si erano già svolti nel 1964 e nel 1988. L'occasione di questo nuovo incontro è stata offerta dalla pubblicazione, a cura di Andrea Testa, di un terzo volume di scritti del grande uomo d'arme,1 apparso in contemporanea ad una seconda edizione dei primi due volumi curati da Raimondo Luraghi,2 nonché dalla pubblicazione di una lineare, esaustiva biografia composta da padre Berardo Rossi, pavullese, appassionato e attento studioso del suo illustre conterraneo.3 Ulteriori, profonde motivazioni venivano, poi, dalla sentita necessità di ricollocare il personaggio in un contesto storiografico in via di continua evoluzione; lo ha sottolineato opportunamente Ezio Raimondi, presidente dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, nella sua densa introduzione ai lavori.

Dunque, con il terzo volume (Opere minori d'argomento militare e politico. Diari di viaggio e memorie; ma opere "minori" nell'economia della conoscenza del pensiero di Montecuccoli non risultano affatto) si completa la meritoria impresa di vedere raccolta, in un'edizione critica altamente affidabile, quasi tutta l'opera di questo straordinario personaggio. La cosa ha un suo importante rilievo e si presta ad alcune riflessioni che riteniamo non secondarie, se è vero che attorno ad esse si è configurata l'organizzazione e lo svolgimento del convegno.

Innanzitutto c'è una vistosa conferma del ritorno alla storia militare (e parallelamente a quella politico-diplomatica), ritorno a cui si assiste da qualche anno; più o meno, si potrebbe dire, da quando l'onda lunga della "lezione" de Les Annales da un lato, e della nouvelle histoire dall'altro, pare essersi placata; se pur non di certo esaurita.

Che Clio sia tornata a confrontarsi con Marte è, dunque, segno di una ripresa di studi e di interessi coltivati, sino a pochi anni fa, da un ristretto manipolo di storici; il vuoto seguito all'opera intensa e "classica" di Piero Pieri in Italia è stato riempito con nuova spinta e nuove ragioni da Raimondo Luraghi e dai suoi allievi, e poi, fra gli altri, da Piero Del Negro e più recentemente da Carla Sodini. Significativo, per altro, che allo studio della "bellica" (come si diceva un tempo) si sia tornati dopo un ciclo (tuttora in corso) di ricerche dedicate ai caratteri delle società, delle istituzioni, delle ideologie, delle culture degli stati europei in età moderna; particolare attenzione riserbando, di nuovo, a quel XVII secolo così marcato, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, da una "crisi generale" entro la quale pareva venire inglobata la precedente, e consolidata, nota infamiae della decadenza.

Oggi il senso comune storiografico parrebbe aver esorcizzato in parte sia la categoria interpretativa della "crisi generale" (almeno nell'accezione un po' catastrofica di una indifferenziata deriva a cui tutti gli stati europei sarebbero andati incontro nel corso del Seicento), sia il cliché della decadenza. L'aver individuato in quel secolo, certamente complesso e travagliatissimo, elementi di trasformazione, di mutamento, accanto ad evidenti sopravvivenze e resistenze, permette agli storici una visione più articolata di quella stagione della storia d'Europa. La stessa guerra dei Trent'anni, che aveva finito per essere epifenomeno e sostanza insieme di quella crisi, può essere vista da angolazioni che consentono di sottolineare caratteri di novità entro un tessuto di relazioni estremamente variegato.

La peculiarità di questo nuovo convegno sta proprio nella scelta di una contestualizzazione assai più ampia, e nello stesso tempo più calibrata, rispetto a quella tenuta presente nelle precedenti occasioni. Ne è conseguito che - più che sulle fasi di quella grande guerra europea e sulle battaglie in cui si illustrò il Montecuccoli non meno dell'eroico Gustavo Adolfo di Svezia, o del tanto discusso Wallenstein, o del gran Condé o del Tilly e del Turenne - qui si è convenuto di porre l'accento sui mutamenti sostanziali che vennero a determinarsi nella storia d'Europa attorno a quel turning point che fu appunto il 1648, anno delle paci dell'Aia tra Spagna e Repubblica d'Olanda, di Westfalia (ossia di Münster, tra Impero e Francia, e di Osnabrück, tra Impero e Svezia più altre potenze protestanti). Spagna e Francia, com'è noto, continuarono a duellare sino alla pace dei Pirenei siglata nel 1659, un secolo dopo quella pace di Cateu Cambresis che aveva visto la Francia infilare il buio tunnel delle guerre di religione (la più grande crisi del suo istituto monarchico - ché di questo si trattò, di là dalla lotta religiosa), e per converso aveva visto l'assetto europeo caratterizzato dalla supremazia spagnola.

Nel 1659 la rotta degli eventi s'invertiva. Decollava la Francia come maggiore potenza europea ed iniziava il declino della Spagna. Quel declino era iniziato sul campo di Rocroi, nel 1643, con la vittoria di quel Condé che il Manzoni ricordava aver dormito profondamente nonostante l'impegno che lo attendeva il giorno dopo.

Si offuscava, ma era ancora lontano dal chiudersi, el siglo de oro a beneficio del grand siècle di Luigi XIV. Il passaggio delle consegne avvenne appunto a metà Seicento quando per altro - nell'ambito dell'organizzazione burocratico-amministrativa e conseguente efficienza degli apparati statali, nonché a livello di organizzazione economica e finanziaria - si veniva costituendo un asse di modernità che aveva i suoi vertici a Londra (la city), a Parigi (la corte di Versailles) e ad Amsterdam (la Borsa). Ma qui si aprirebbero più lunghi ed articolati discorsi, così come per cogliere la dimensione problematica che la considerazione del Seicento impone nell'oggi storiografico ci si dovrebbe diffondere sulla straordinaria forza propulsiva di una cultura che, per quanto inviluppata nelle strettoie dell'occhiuta inquisizione (spagnola e romana) e ostacolata dalla resistenza dei poteri cetuali (di antica e di più recente matrice nobiliare), si apriva a nuovi spazi.

Da quella cultura, avviata verso una rivendicazione sempre più ardita di "diritti" e di "libertà", sconosciuti al vocabolario della Controriforma (sia religiosa che politica), dovevano uscire, già durante gli sconvolgimenti della guerra dei Trent'anni, idee e "forme" politiche in netta controtendenza con l'affermazione progressiva delle monarchie assolute. Basti ricordare l'ascesa della Repubblica d'Olanda e l'esperimento del Commonwealth di Oliver Cromwell. Altrettanto significativo l'affermarsi di una nuova sintassi della diplomazia e delle relazioni fra gli stati. Ugo Grozio con il suo De iure belli ac pacis, tanto per stare all'esempio più illustre, contribuì potentemente alla creazione di uno Jus gentium (si potrebbe dire "diritto internazionale", con voluto ed efficace anacronismo, come ha recentemente osservato Giuseppe Galasso)4 resosi necessario per l'intensificazione delle prove di potenza (sempre anche nella forma militare) espresse dalle grandi monarchie, ma anche dagli stati territoriali nuovi dell'area germanica (su tutti il Brandeburgo). Questi stati "germanici" via via scalfivano e ridimensionavano, dall'interno, ruolo e influenza di un Sacro Romano Impero già messo in difficoltà, sul fronte esterno, dalle potenze baltiche emergenti (Svezia), dal difficile rapporto con una Polonia che, per quanto esposta ad appetiti vari (e lo si vedrà un secolo dopo!), restava spazio politico di grande importanza, dal profilarsi all'orizzonte della Russia, e dalla costante minaccia del Turco sul versante balcanico e magiaro; Turco con il quale, all'occorrenza, sapeva intendersi, in funzione antiasburgica, la monarchia francese.

Si veniva formando, di conseguenza, un nuovo e dinamico sistema di alleanze che passava, sì, tra le corti, come ha scritto recentemente Heinz Schilling,5 ma passava anche, e sempre più, attraverso organismi rappresentativi, fossero le due camere del Parlamento inglese, fossero le Diete dell'Impero, fossero gli Stati Generali olandesi, fossero i Consigli del Re ma anche i veri e propri ministeri della monarchia francese (da Richelieu a Mazzarino a Luigi XIV). In quegli organismi, se forte era ancora la preponderanza di elementi aristocratici, non meno incidente era la spinta di rappresentanti dei ceti mercantili e finanziari, e, come si diceva pocanzi, la spinta di una nuova cultura. Dagli anni Quaranta del secolo in avanti s'infittiscono i nomi cui riferirsi; possono bastare quelli di Milton, di Hobbes, di Locke; o può bastare alludere ai free thinkers, ma anche al formarsi dei partiti nell'Inghilterra di quegli Stuart che gli inglesi, nel 1660, si permettono di restaurare perché consapevoli che la "nazione" (il termine è usatissimo da Milton) tra 1640 e 1658 si è dotata degli anticorpi contro ogni possibile ritorno di una monarchia assoluta. Le idee nuove circolano, e vanno a costituire una opinione pubblica attraverso la diffusione straordinaria della stampa periodica anche nelle forme più accattivanti ed aggressive dell'elzeviro e del pamphlet (dell'uno e dell'altro la patria è l'Olanda).

Le idee, la cultura non erano state messe in mora dal turbine della guerra dei Trent'anni. La pace di Westfalia, si diceva, segnò una svolta. Ricorda Schilling che già Friederich Schiller nel 1793 nella sua Storia delle Guerra dei Trent'anni definiva quella pace "l'opera faticosa, costosa e duratura dell'arte dello stato [_] l'opera più interessante e piena di carattere della saggezza e delle passioni umane"; e si manifestava come un insieme ben concordato che ridistribuiva i pesi politici nel centro dell'Europa. Per questo Schilling può scrivere che la guerra dei Trent'anni "fu una guerra tedesca tanto poco quanto la pace di Vestfalia fu una pace tedesca". Vantaggi e svantaggi ricaddero sull'intera comunità europea. A determinare un tale carattere a quei trattati concorse, assieme ai prodotti nuovi ed emergenti della cultura europea, il mutamento della sensibilità religiosa che smussava, sia pur tra molte difficoltà, le rigidità opposte dall'ortodossia delle confessioni in nome di una tolleranza che sempre più si faceva coincidere con i diritti naturali della persona.

Non fu un caso che a Münster, prima dell'inizio dei lavori, i diplomatici colà convenuti ricordassero, in un'apposita cerimonia, Ugo Grozio come padre spirituale della pace che si andava a stipulare. Nello stesso giro di anni, in Inghilterra, nel 1644, ossia negli anni iniziali e ancora pieni di incognite della rivoluzione puritana, Milton rivolgeva il più accorato e nobile appello al Parlamento in difesa della libertà di stampa, della libertà di pensiero. Quel discorso mirabile, vera pietra miliare nella storia della cultura e della civiltà moderna, fu l'Areopagitica, il cui messaggio poteva compendiarsi nella frase "Give me the liberty to know, to utter, and to argue freely according to conscience, above all liberties" ("Prima di ogni altra libertà, datemi la libertà di conoscere, di esprimermi, e di discutere liberamente secondo coscienza").

Quella rivendicazione di libertà era anche una rivendicazione della dignità dell'uomo; quasi che l'eco del De dignitate hominis di Pico della Mirandola non si fosse ancora spenta. Ma un altro potente contributo alla formulazione dei principii su cui si sarebbe fondata la moderna società civile (e sottolineo ben dentro quel XVII secolo della pretesa decadenza!) venne nel 1685 da John Locke con la sua Lettera sulla tolleranza. La scrisse, come è noto, nella terra di maggiore libertà che allora potesse ospitare uomini liberi: in Olanda, precisamente ad Amsterdam; e in Olanda nel 1670 aveva scritto il suo Tractatus theologico-politicus Baruch Spinoza, il quale - almeno per quanto riguardava le "credenze speculative" - asseriva dover essere totale la libertà di pensiero e di parola.

Le resistenze, come si è detto, non mancavano. Poco oltre il confine olandese, nel 1685 (l'anno della Lettera di Locke), Luigi XIV con l'editto di Fontainebleau revocava quel monumento di saggezza politica e di libertà di culto che era stato l'editto di Nantes voluto da Enrico IV. E negli stessi anni, in Inghilterra, l'ultimo Stuart si adoprava per un impossibile recupero di un assolutismo di marca cattolica, tanto da essere indotto ad abdicare dal trono in una rivoluzione che "gloriosa" fu detta perché incruenta; così profonda era ormai la consapevolezza della classe dirigente inglese e degli stessi partiti politici di aver gettato le basi di una monarchia costituzionale.

Un'altra osservazione si può fare su quel tormentato Seicento scandito da guerre e da paci. L'influenza del pensiero filosofico-giuridico che si sviluppò intorno al tema della pace e il diffondersi di una più risentita interiorità religiosa finirono per portare al superamento della politica estera condotta confessionalmente, e con i caratteri di guerra di religione. Si era pervenuti, via via, ad una nuova concezione ed organizzazione della politica di potenza, certamente politica di guerra, ma condotta secondo regole, teorie, tecniche elaborate "razionalmente". La guerra - ho osservato in altra occasione - diventa nel corso del Seicento, ma poi in modo più netto nel secolo seguente durante le guerre di successione, "oggetto di riflessione non solo per i teorici, per i trattatisti militari, per gli strateghi, ma anche, in modo nuovo, per i governi; emerge una concezione economica della guerra che salda il settore militare alla più generale struttura amministrativa e finanziaria delle monarchie".6

La guerra, dunque, non era intesa semplicemente come extrema ratio per risolvere conflitti o per affermare mire espansionistiche o imporre una leadership (eminentemente affaire du roi), ma come strumento politico integrato nelle nuove modalità di impostare i rapporti fra gli stati, essendo tutti i contendenti consapevoli di far parte di una sistema ben più progredito di quello descritto per il Quattrocento e il Cinquecento dalla classica opera di Eduard Fueter.7 Quello cui si riferiva Fueter, a ben vedere, lo si potrebbe dire un sistema imperfetto, perché ancora incardinato - se pur sempre meno - in un ordine polarizzato attorno alle autorità di Impero e Papato, un retaggio medievale non ancora esorcizzato - e che fu la gabbia in cui si trovò a lottare duramente, sino alla resa, Carlo V.

Dopo Westfalia il quadro appariva irreversibilmente mutato: la prepotente ascesa di alcuni stati territoriali dell'Impero, la ripresa demografica dopo il crollo degli anni Trenta del secolo (pesti, carestie e guerre insieme erano state una miscela di enorme potenziale distruttivo), il mai interrotto, e anzi sempre più sostenuto, commercio sulle rotte degli oceani Atlantico e Indiano, la necessità comune a tutte le potenze europee di arginare le ultime ondate, e comunque sempre ad alto rischio, dell'avanzata turca in direzione di Vienna (l'obbiettivo simbolicamente più significativo): queste ragioni e molte altre ancora spinsero sia ad un diverso riassetto interno quegli stati che potevano vantare una qualche possibilità di incidere nella politica internazionale, sia ad una riscrittura della diplomazia e dei rapporti fra gli stati. Alleanze, guerre, paci concordate o paci separate (le une e le altre con clausole che virtualmente tenevano aperti i fronti di guerra) dettero forma a ciò che la storiografia politico-diplomatica di alcuni anni fa definì il "concerto delle potenze europee". E come in tutti i concerti, di volta in volta c'era un direttore ad orchestrare il sinistro rumore delle armi. Da qui l'evoluzione di tutto ciò che era pertinente all'arte della guerra; anzi, più che di evoluzione - come gli scritti di Montecuccoli testimoniano ampiamente (e tanto più dopo la lettura sapiente di Luraghi) - si deve parlare di "rivoluzione militare".

Senza la percezione del quadro generale, con i grandi mutamenti in atto, offerto dall'Europa del suo tempo, quella rivoluzione non sarebbe stata concepita. Montecuccoli, in questo senso, non può essere collocato, a mio avviso, se non marginalmente, in quella ideale galleria di uomini d'arme che l'Italia aveva fornito per secoli a imperatori e sovrani europei. A differenza dei Farnese e dei Gonzaga - tanto per fare un rapido riferimento -, Montecuccoli non offre il suo "servizio" all'imperatore per un "ritorno" quale i Farnese e i Gonzaga concretizzarono nel rafforzamento, quando non nella creazione ex nihilo, di uno stato, per quanto minuscolo, su cui regnare (è il caso di Sabbioneta e di Vespasiano Gonzaga).

L'impegno di Montecuccoli è di ben più alta levatura, perché è mutato il senso del "servizio" in quel contesto europeo che pur rapidamente abbiamo delineato, e che è rimasto ben presente ai partecipanti del convegno. In Montecuccoli non c'è più soltanto il rapporto di fidelitas fondato sull'onore, ma c'è la percezione di dinamiche politiche a larghissimo raggio con un baricentro costituito dall'Austria degli Asburgo e che Montecuccoli individua con grande chiarezza, sia quando si impegna contro il Turco, sia quando avverte i pericoli derivanti alla futura stabilità dell'Impero asburgico dall'ambiguo rapporto con l'Ungheria.

E che dire poi del suo andirivieni per le capitali dell'Europa centrale, e dell'area scandinava? Le sue acute osservazioni, le sue descrizioni di personaggi, il suo saper individuare le trame politiche più complesse (facendosene partecipe più volte a livello altissimo), tutto ciò che nei suoi scritti ebbe particolare fortuna in forma di "aforismi", denunciava la ricca matrice culturale a cui Montecuccoli si ispirava. Quel suo ridurre "a forma di scienza" l'arte della guerra era solo l'aspetto più macroscopico - e funzionale ai compiti di volta in volta affidatigli dall'imperatore - della sua cultura, in cui nutrimenti classici, umanistico-rinascimentali, razionalistici (del razionalismo secentesco) si amalgamavano in modo sovente originale, trovando espressione in una lingua sulla cui dignità letteraria molto è stato detto, dall'intervento di Ezio Raimondi nel convegno del 1964, alle notazioni di Piero Del Negro nell'incontro del 1988, fino alle osservazioni di Angelica Miglioli nell'ottobre scorso.

L'Impero, dunque, come termine ultimo della sua visione politica, della sua teoria e della sua pratica militare. E in effetti non fu di poco momento ciò che le paci del 1648 innescarono nelle varie parti dell'Impero, anzi nella sua struttura interna. Del rafforzamento del Brandeburgo s'è detto. Si aggiunga che i principi elettori divennero otto con l'aggiunta della Baviera. Infine, e si trattò della cosa più rilevante, il potere imperiale fu sottoposto definitivamente a quello della Dieta (massimo organismo dell'Impero) e si vide, come osserva Giuseppe Galasso, "ridotto al minimo storico delle competenze". L'Impero appariva più che mai un mosaico con le sue 343 entità sovrane al di fuori delle limitate competenze imperiali (158 principi laici, 123 signorie ecclesiastiche, 62 città). I territori erano stati sconvolti dalle guerre; con conseguente ristagno di ogni attività economica. Una realtà che, come ricorda Schilling, veniva rappresentata assai bene nel 1667 dal giuspubblicista e storico tedesco Samuel Pufendorf, il quale, sotto il finto nome di Severino Lelio Monzambano, in una lettera premessa al trattato De Statu Imperii Germanici, esprimeva la sua meraviglia che quelle terre così devastate da lutti d'ogni sorta fossero riuscite a sopravvivere, ma esprimeva anche la curiosità "di conoscere più esattamente la forza e la potenza di questo popolo, le sue diverse stirpi e il legame che tiene assieme questo corpo senza forma".

Corpo senza forma: così appariva l'Impero. Un corpo anacronistico? Non del tutto, se fino alla sua soppressione nel 1806 per mano di Napoleone, un suo carisma e una sua funzione, anche dal punto di vista giuridico, potè conservare. Soprattutto nel garantire, all'interno, una sorta di continua concordia discors fra i vari stati territoriali che poi, all'esterno, si proponeva come unità (das gemeine geliebte Vaterland, "l'amata patria comune"), sia pure in chiave strategica e diplomatica, sotto la tutela ancora dell'aquila imperiale. Raimondo Montecuccoli, che era nato nel 1609, moriva nel 1680. Visse abbastanza per cogliere con la sua acuta sensibilità politica, con la sua finezza intellettuale, con la sua sagacia di grande stratega, il senso di quel secolo XVII; per interpretare anch'egli - per dirla con Paul Hazard - la "crisi della coscienza europea". I suoi scritti ne costituiscono una straordinaria, ricca testimonianza.

 

Note

(1) Le opere di Raimondo Montecuccoli, III, Opere minori d'argomento militare e politico. Diari di viaggio e memorie, a cura di A. Testa, Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito, 2000.

(2) Le opere di Raimondo Montecuccoli, I, Trattato della guerra; II, Delle battaglie (I), Tavole militari, Discorso della guerra contro il Turco, Della guerra col Turco in Ungheria (Aforismi), Dell'arte militare, Delle battaglie (II), edizione critica a cura di R. Luraghi, Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito, 2000.

(3) B. Rossi, Raimondo Montecuccoli. Un cittadino dell'Europa del Seicento, Pontecchio Marconi (Bologna), DIGI GRAF, 2002.

(4) G. Galasso, Le relazioni internazionali nell'età moderna (secoli XV-XVIII), "Rivista Storica Italiana", 1999, 1, p. 19.

(5) H. Schilling, Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al 1763, Bologna, Il Mulino, 1999.

(6) G. Tocci, Clio di fronte a Marte: la battaglia di Guastalla (19 settembre 1734), "R80 - Appunti e note di vita culturale reggiana", III, 1984, 8-9, p. 7.

(7) E. Fueter, Il sistema degli stati Europei, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

 

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