Rivista "IBC" X, 2002, 4

Dossier: Ben(i) comunicati?

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Valorizzare significa comunicare

Alberto Sinigaglia
[caporedattore de "La Stampa"]

Di beni culturali i giornali si occupano volentieri in caso d'emergenza: un terremoto, un'alluvione, un attentato, un furto. Ciò li fa apparire nelle pagine di cronaca nera. Qualche polemica piuttosto che qualche buona azione li porta nelle pagine di politica interna. Qualche apparizione è tollerata nelle pagine di cultura, dove un bene culturale ottiene sicuramente spazio se sia una "grande mostra", meglio se evento mondano. Altrimenti silenzio, disinteresse, distrazione, superficialità. L'uscire in cronaca nera assimila i beni culturali, se non all'idea di disastro, a eventi negativi. L'apparire in politica li confonde con qualche paletto negli slalom ministeriali e parlamentari. L'emergere ogni tanto in cultura può comportare loro il rischio di trovarsi in cattiva compagnia, magari schiacciati e contaminati da qualche "anteprima" del libro di un collega (il lancio del neonato volumetto e la recensione "di scambio" tra giornalisti sono malattia considerata non grave, ma assai diffusa).

La disattenzione per i beni culturali non è colpa dei giornalisti culturali. Non è facile nei giornali d'oggi fare meglio di quanto si fa. Anzi, nella farcitura dei quotidiani omnibus che continuiamo a fare, con l'attrazione fatale della televisione che continuiamo a subire (grafica enfatica, panna montata, titoli strillati, scrittura melodrammatica), è già molto quello che ancora riescono a dare il "Corriere della Sera", "la Repubblica", "La Stampa", "il Giornale", "Il Messaggero" (confortante caso a sé, il supplemento domenicale del "Sole 24 ore"). La sottovalutazione dei beni culturali è dunque colpa di una sindrome dalla quale i giornali non hanno ancora saputo uscire. Ma è anche colpa della pessima comunicazione che affligge i beni culturali.

Troppi cosiddetti "uffici stampa" in Italia occupano presunti "addetti stampa", raccolti tra ex mogli, ex amiche, tra funzionari e impiegati inadatti (o considerati inadatti) a altri usi. Tranne rare benemerite eccezioni, la comunicazione pubblica o privata di cultura è sovente inefficace, sciatta, approssimativa nei contenuti e negli invii. Inadeguata a beni culturali complessi in quanto appunto "beni" di valore culturale, ma anche economico e anche turistico, con delicati problemi tecnici di conservazione, con ancor più delicati problemi d'uso e di valorizzazione. Valorizzarli significa soprattutto comunicarli, raccontarli in modo da colpire le fantasie sottolineando gli aspetti più curiosi e seducenti.

Quando il 10 dicembre 1901 il "Giornale d'Italia" dedicò tre intere colonne alla prima rappresentazione della "Francesca da Rimini", erano giorni che il quotidiano diretto da Alberto Bergamini pubblicava servizi sull'evento: perché l'autore del dramma era il già vistoso Gabriele d'Annunzio e perché ancor più diva era la protagonista Eleonora Duse. Gli storici del giornalismo ascrivono a quelle tre colonne la nascita ufficiale della Terza Pagina. Sappiamo quanto sia stata palestra di dibattito culturale e di grande giornalismo. Pochi sanno invece che l'occuparsi di cultura portò fortuna ai quotidiani. Cioè più copie vendute. Bisognerebbe ricordarsene ogni tanto.

Si leggono poco i giornali: non riusciamo a venderne più di cinque milioni ottocentomila copie al giorno. Anzi, molti non sono neppure comprati, ma giungono ai potenziali lettori "spinti" da una diffusione promozionale gratuita. Quanti potenziali lettori torneranno a essere o diventeranno lettori abituali? Procede la "congiunzione" televisione-telefono-computer. Da casa nostra, attraverso le reti telematiche possiamo già sintonizzarci con tutte le radio che vogliamo, possiamo mettere a confronto la televisione israeliana con quella palestinese. Questo non rende i giornali né inutili né superflui. Anzi, vi si ricorrerà per capire, vi si cercheranno commenti, approfondimenti, inchieste. Per questo dovranno ritrovare capacità d'indagine e riconsiderare in quantità e qualità i loro spazi culturali. Ma non soltanto editori e giornalisti devono essere consapevoli della rivoluzione tecnologica-sociale-culturale che stanno affrontando e già in parte vivendo. Guai se anche scienziati, accademici e politici non capiranno le loro nuove responsabilità.

 

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