Rivista "IBC" X, 2002, 4

Dossier: Ben(i) comunicati?

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Se permettete, non scriviamo di calcio

Fabio Isman
[inviato speciale de "Il Messaggero"]

Una leggenda metropolitana s'aggira per il mondo dei beni culturali; spesso si manifesta, prende forma, in convegni anche importanti, su giornali anche autorevoli; sovente viene diffusa, anzi propalata, da personaggi non di second'ordine. È la diceria per cui il nostro Paese possederebbe quote dal cinquanta, di volta in volta, fino all'ottantacinque per cento del patrimonio talora europeo, e talaltra perfino mondiale. Siccome le cifre, quando vengono esposte, è bene che non restino senza un padre, queste, nel tempo, sono state attribuite all'UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization) e all'ICCROM (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), al Consiglio d'Europa, addirittura all'ISTAT (l'Istituto nazionale di statistica) e ad altri istituti di ricerca, nostrani e non solo. Eppure, l'Italia non è provvista (ahinoi!) di un catalogo completo delle opere, fisse e mobili, statali, comunali, regionali o private, laiche o ecclesiastiche, da lei possedute. Nemmeno d'un inventario. E strumenti del genere non esistono neppure a livello europeo, o mondiale. Ma, a parte la banalissima considerazione che non è certo possibile paragonare tra loro entità indeterminate (il patrimonio italiano e quello europeo, o mondiale), anni fa, debitamente interpellati, il Consiglio d'Europa e via elencando hanno tutti regolarmente escluso d'aver mai prodotto rilevamenti (ma anche stime e valutazioni) di questa natura. Insomma, si può soltanto dire, ad occhio, che il nostro Paese possiede più reperti storico-artistici di altri, e probabilmente di chiunque altro; che vi sono disseminati e diffusi assai più che in qualsiasi altro Paese; ma di più, no: non è davvero lecito.

Nonostante tutto, la diceria non ha smesso di espandersi; né cessa di essere riferita, più o meno puntualmente, in pubblico e in privato. L'ultima volta, con raccapriccio, l'ho letta il mese scorso. Almeno un decennio fa, ad un importante convegno internazionale, ci cascò anche chi allora era direttore generale al Ministero dei beni culturali italiano; arrivò, mi pare, al "settantacinque per cento" del patrimonio mondiale, che secondo lui sarebbe dovuto essere in Italia; e attribuì il calcolo all'UNESCO. Dalla platea si alzò un signore (vogliamo celiare? un indiano che_ non voleva comportarsi come tale, cioè ignorare la vicenda) e tra lo stupore degli astanti interruppe: "Non è vero". "Se glielo dico io, mi crederà". "No, non posso: perché io dirigo il settore dell'UNESCO che si occupa di queste cose, e non abbiamo mai fatto studi del genere". "Va be', allora vorrà dire che è stato il Consiglio d'Europa". Tutto qui; magari tra qualche perplessità, ma pazienza. In sala, evidentemente, non c'era nessuno del Consiglio d'Europa.

Per favore, non sorridete. Perché questo episodio, e la propalazione continua della leggenda metropolitana la dicono assai lunga sul rango periferico, quasi secondario, talora perfino pressoché irrilevante, che i beni culturali hanno nel sistema dell'informazione italiana. Ve lo immaginate se si riferissero in modo errato gli share di una serata televisiva, o le percentuali di mercato che FIAT possiede, o, ancora, la quota di voti riportata dai singoli partiti alle più recenti elezioni, non importa se politiche o amministrative, quante rettifiche e correzioni ne seguirebbero? Forse, perfino le scuse. Invece, in questo caso, no. Perché i beni culturali, per l'informazione, costituiscono purtroppo un accessorio. Nelle redazioni, chi ne sa qualcosa, è visto quasi come un eccentrico, uno stregone.

Quando alle Gallerie dell'Accademia di Firenze un ungherese un po' folle prese a martellate il David (s'intende di Michelangelo), in una riunione di vertice di un importante giornale italiano qualcuno disse: "Credevo stesse in Piazza della Signoria"; qualcun altro: "Pensavo fosse di Donatello" (e, memore degli omonimi premi annualmente dati ai film, forse avrebbe chiesto un articolo al critico cinematografico); altri ancora si meravigliavano all'affermazione che forse è la scultura più famosa al mondo: "Semmai, pensavo la Pietà"; in quanto al David del Verrocchio, nemmeno a parlarne: "Ah, ne ha fatto uno anche lui?". Sarebbe successo lo stesso, se fossero stati presi a martellate un celebrato cantante, o un famoso attore? Ancora: alla recente morte di Emilio Tadini c'è chi ha dedicato solo una "breve", tipo "domani scade il bollo", oppure "Timor Est è il 191° Paese dell'ONU". E se fosse stato un calciatore di grido, anziché un artista e un intellettuale?

Un tempo, le vicende dei beni culturali erano faccenda che riguardava esclusivamente i critici: più o meno letterati e comunque sempre assai eruditi. Andavano ad una mostra, o incontravano un artista, e poi scrivevano. Punto. Le uniche cronache erano alcune (peraltro giuste, ed anzi doverose) invettive: Antonio Cederna, con pochi altri. Poi, anche le cose dell'arte sono cambiate. I musei sono diventati più frequentabili (forse non ricordiamo più che erano aperti, quando lo erano, soltanto la mattina?); diciamo negli anni Ottanta, l'arte e la cultura sono diventate più di moda; qualcuno ci ha visto perfino possibili ritorni economici (forse non ricordiamo più i "giacimenti culturali"?). E allora anche stampa e televisione ne hanno parlato in misura alquanto maggiore.

Recentemente, però, questi spazi sono tornati a essere più stretti ed angusti. Perfino i visitatori dei musei statali sono, dopo tanti anni, in diminuzione. E anche i media si comportano in modo conseguente. Lontani i tempi in cui la TV inaugurava le proprie trasmissioni (3 gennaio 1954) mandando in onda alle diciannove la prima puntata di una monografia su Giambattista Tiepolo. Già: allora, dall'altra parte e cioè sulle TV commerciali, nessuno "strisciava le notizie". Così, spiega Antonio Spinosa, storico dell'arte e soprintendente a Napoli, "i quotidiani hanno la tendenza ad informare i lettori soprattutto sugli eventi sensazionali: positivi, come restauri e mostre, o negativi, come i danni agli oggetti d'arte". E, aggiungiamo, i furti: se si vuole avere la certezza di scrivere su un giornale, basta che un'opera sia stata rubata. Stefano De Caro, un altro soprintendente napoletano e archeologo, auspica "una maggiore continuità nell'informazione"; e usa parole educate, perché egli stesso lo è. Ma, in realtà, i media si occupano di beni culturali solo quando essi si trasformano in un evento straordinario. Se i giornali, come i notiziari televisivi di mezzanotte e dintorni, avessero edizioni riservate a pochi, forse se ne occuperebbero di più; in TV, per vedere qualcosa che abbia a che fare con la cultura in senso stretto (è cultura anche Gianni Morandi? forse), bisogna come minimo puntare la sveglia dopo le ventitré. Ma assai più spesso attorno all'una del mattino.

D'altro canto, il nostro è un Paese dove si gioca a calcio fin da ragazzi, e da giovani non si usa frequentare i musei; le generazioni hanno sognato un tredici al Totocalcio, e non una scultura in casa; i CD di musica cosiddetta leggera si vendono (e si piratano) cinquanta volte più che Glenn Gould; Mogol e Battisti erano più ricercati di Vivaldi e Verdi, come Vasco Rossi lo è più di Claudio Abbado; la parola "museo" conserva un'accezione negativa (mia figlia mi dice "faccia da museo" quando non sorrido; un arnese da museo è inservibile). E i media, poiché "i giornali sono lo specchio del mondo" come spiega James Ellis, usano adeguarsi: il loro compito è informare e non educare (a questo, dovrebbe provvedere la scuola); e, in più, devono cercare di vendere il maggior numero di copie possibile.

C'è però da aggiungere anche qualche considerazione. Che, per carità, oggi i giornali, specie i periodici, usano informare comunque più di ieri; e che, in parte, la latitanza dei media si deve anche all'incapacità, di chi si occupi d'arte e di cultura, nel promuovere e "vendere" gli avvenimenti. Mi capita spesso di comparare gli inviti e le cartelle-stampa dei musei italiani, per esempio con quelle francesi: una differenza di anni luce. Ogni mostra e ogni ricerca può essere raccontata attraverso notizie che abbiano, comunque, qualche speranza di interessare l'informazione: basta però saperlo fare. Spesso, vi assicuro, non succede; anzi, il più delle volte. Per sapere se un dipinto ha qualche avvincente storia alle spalle, occorre sottoporre gli studiosi a una specie di terzo grado: non tutti possono farlo; e ancora meno, purtroppo, sono quelli che ne hanno la voglia, o possiedono le dovute capacità: anche intervistare è un'arte, ed esige una vera preparazione.

E allora? Che il mondo dei beni culturali riesca a far parlare un po' più di sé, dipende da quanto bene saprà fare il suo lavoro d'informare e d'interessare il pubblico (come nelle soprintendenze non ci sono i manager, così mancano anche i veri comunicatori); e da quanto bene i giornali sapranno fare il loro. Oggi i media cercano soprattutto delle "storie": i beni culturali ne sono certamente assai prodighi. Ma forse, per scovarle, e poterle poi raccontare, bisogna compiere qualche fatica in più di quelle che servono a scoprire l'ultima novità in fatto di cantanti, di attori, o calciatori. La notizia non è che si organizza e si apre una mostra: bensì sono le peculiarità in essa contenute. Bisogna saperle valorizzare: da una parte, e dall'altra. Se no, dei beni culturali si continuerà a parlare soltanto in occasione dell'evento prossimo venturo. Cioè del furto; del restauro che suscita polemiche; delle querelles. E raramente delle cose semplicemente ben fatte. Nessun evento esiste se non è conosciuto: una notizia è vera, si diceva un tempo, se la si legge sul "Times". Ma, nel nostro piccolo, anche su "Repubblica", "Corriere della Sera", "Stampa", "Messaggero", "Resto del Carlino", "Unità", e compagnia pubblicante. Oppure no?

 

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