Rivista "IBC" X, 2002, 4
Dossier: Ben(i) comunicati?
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
Il tema proposto da questo dossier potrebbe essere svolto proponendo due diversi interrogativi che otterrebbero a loro volta altrettante risposte diverse e solo apparentemente contrastanti.
Primo quesito. I grandi musei italiani, che costituiscono la spina dorsale del "bene culturale" nazionale, sono diventati argomenti giornalistici capaci di competere con gli altri grandi temi della nostra vita civile? La risposta è sì, senza dubbio: da trent'anni a questa parte la struttura museale statale e locale fa parte a pieno titolo di una lista di argomenti "da prima pagina". Ci sono i numeri legati al turismo (basterebbe citare le cifre degli Uffizi a Firenze, di Brera a Milano, dei Capitolini a Roma).
A sostenere questo edificio "informativo" provvede in larga parte, per quanto riguarda invece la fruizione da parte dei cittadini italiani ormai assuefatti alla convivenza con collezioni così illustri, il fenomeno della "mostromania", tanto detestato da Federico Zeri (che ne fece oggetto di memorabili invettive, diventate a loro volta gustosi resoconti giornalistici) quanto apprezzato dal grande pubblico assetato di novità e (ahinoi) di "eventi". Zeri aveva una preoccupazione che si è rivelata fondatissima: la mostromania come nemica delle esposizioni permanenti, quindi ostacolo verso una consapevolezza di una tradizione complessa e articolata. È andata puntualmente così: sono in molti a ricordare, per fare un esempio tra i tanti, la famosa mostra dedicata nel 1988 dalla Galleria nazionale di arte moderna a Van Gogh (fu tra le prime a vedere le lunghe code ai botteghini) ma sono tuttora in pochi a conoscere la nuova sistemazione delle collezioni dell'Ottocento e del Novecento italiani.
In buona sostanza per "far titolo", espressione logora e magari inelegante ma che descrive molto bene una realtà inoppugnabile, occorre purtroppo creare il famoso e inflazionatissimo "evento" che quasi mai coincide a sua volta con un bisogno realmente culturale. Una prova: da quattro, cinque anni si susseguono mostre su mostre dedicate a Caravaggio. Raramente propongono una novità scientifica (sono puramente illustrative) ma puntualmente rappresentano un sicuro guadagno per gli organizzatori. E nel frattempo spogliano molti musei storici (primo tra tutti la Galleria Borghese) delle proprie opere caravaggesche, che dovrebbero essere stabilmente esposte.
Quanto ha a che fare con il concetto di bene culturale un fenomeno indubitabilmente commerciale come questo? Io credo poco, pochissimo: è invece parente stretto del mondo del commercio, senza nulla togliere alla dignità di questo (diverso) universo. Purtroppo molti tra i ministri che si sono susseguiti alla guida del dicastero hanno parlato sia di "giacimenti culturali" sia di cultura come "petrolio del Paese", suggerendo una visione tristemente commerciale (l'idea di "sfruttamento") che meglio si sposerebbe con altri settori, visto che lo sfruttamento medesimo spesso porta alla fine di un bene (che non a caso si definisce "di consumo").
Secondo quesito: il bene culturale italiano, inteso come patrimonio indissolubilmente legato al paesaggio e alle storie locali e come tessuto uniforme per importanza in tutta la penisola (concetto caro sia al già citato Zeri ma anche a Cesare Brandi, allo stesso Giulio Carlo Argan per non parlare di Giovanni Urbani, il grande direttore dell'Istituto centrale per il restauro), ha accesso alle pagine dei giornali italiani? No, non ne ha alcuno: a meno che non si tratti di spoliazioni e di furti, cioè roba da cronaca nera.
Eccola la seconda risposta opposta alla prima. Si tratta solo di una contraddizione apparente. In realtà l'una cosa (la mostromania, il bisogno di stupire, il ricorso al Gran Nome) annulla l'altra, cioè la bellezza silenziosa che non può vantare la "griffe" di una firma illustre o di un luogo capace di affermarsi sulla platea della Globalizzazione (Venezia, Roma, Firenze...).
Per raggiungere una sintesi potrei concludere così: il bene culturale non ha influenzato i mezzi di comunicazione né i suoi linguaggi, ma invece proprio dai media ha assorbito e fatto proprie le regole che assicurano una vetrina in prima pagina (così come accade per la politica o la cronaca nera): la straordinarietà dell'avvenimento, la sua capacità di stupire anche a costo di un discutibile effetto speciale. Se tutto questo contribuisca o meno alla salute dei beni culturali italiani, alla loro tutela e alla loro conoscenza diffusa (a quando una graduatoria tra "divi" e semplici cittadini del mondo dell'arte, per esempio, nella lista di accesso ai restauri?), è risposta che lascio agli scienziati della materia.
Da giornalista temo che a forza di aggettivare (una mostra "grande", "straordinaria", "unica") l'universo dei musei corra il rischio dell'overdose. Con le conseguenze che sappiamo.
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