Rivista "IBC" X, 2002, 4
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / pubblicazioni
Gli stranieri, per quanto riguarda la gestione del nostro immenso patrimonio artistico, ci invidiano due cose: le scuole di restauro dell'Opificio delle pietre dure di Firenze e dell'Istituto centrale del restauro di Roma e la legge "Bottai" n. 1089 del 1939. Questa, pur nata in epoca fascista e nell'imminenza della guerra, diede vita a norme di tutela delle opere sul territorio (tramite le soprintendenze) che sono ancora oggi validissime. Tra l'altro la nostra è forse l'unica Costituzione del mondo dove si cita espressamente la "tutela del patrimonio storico artistico della Nazione" (articolo 9). In questi ultimi mesi la questione della tutela è tornata alla ribalta per alcune scelte dell'attuale governo sul patrimonio italiano che hanno sollevato un vespaio di polemiche e prodotto appelli firmati da molti intellettuali europei e americani.
Con la Finanziaria 2002 si offre sostanzialmente ai privati la possibilità di gestire musei e altre strutture ben oltre la legge "Ronchey", e con la legge "Tremonti" n. 112 del giugno scorso si mira a rendere possibile l'alienazione del nostro patrimonio, artistico e demaniale, tramite la nascita di due società a capitale pubblico: la "Patrimonio dello Stato SpA" e la "Infrastrutture SpA". Insomma l'arte italiana rischia in futuro di non essere più inalienabile per definizione.
Ora sulla controversa vicenda interviene una figura di primo piano come Salvatore Settis - direttore della Scuola Normale di Pisa ed ex responsabile del Getty Research Institute for the History of Art and the Humanities di Los Angeles - con un volume, edito da Einaudi, beffardamente intitolato proprio Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale. Il cuore del libro è racchiuso in una frase che appare quasi subito: "[Per il patrimonio artistico vale] la responsabilità, da tutti condivisa, di preservarlo per le generazioni future. I cittadini sono gli eredi e i proprietari del patrimonio culturale, tanto nel suo valore monetario che nel suo valore simbolico e metaforico, come incarnazione dello Stato e della sua memoria storica, come segno di appartenenza, come figura della cittadinanza e dell'identità del Paese".
Si parla quindi di funzione civile, una categoria a cui gli amministratori devono prestare molta attenzione. La motivazione della tutela del patrimonio artistico nel suo insieme sta proprio nella necessità di non disperdere i tratti culturali che caratterizzano le nostre origini. In sostanza è nella condivisione comune del patrimonio - nato a partire dal Rinascimento per opera di sovrani, signori e uomini di Chiesa, poi aperto al pubblico e infine "collettivizzato" - che si determinano l'identità e i valori simbolici forti che ci accomunano. Naturalmente, spiega Settis, ciò non significa che occorra rendere pubblico tutto il "patrimonio culturale", ma significa che pure quanto è privato fa parte di un tessuto connesso che non si può sfilacciare, modificando quella villa palladiana o quel dipinto secentesco (al contrario, molto di quanto viene gestito dallo Stato deve trovare nel settore privato i suoi motivi di sviluppo e crescita, comprese alcune proprietà demaniali come le caserme).
L'agile volume è una cavalcata, in quattordici capitoletti, nel mondo dei beni culturali italiani, spesso confrontati con le situazioni estere: non mancano stilettate ai ministri del centrosinistra e del centrodestra, momenti di sconforto ma anche ottimismo sulle grandi potenzialità del "sistema italiano". Con una avvertenza: se Settis tratteggia note vibranti di passione assolutamente condivisibili, ciò non toglie che molto deve ancora fare l'amministrazione centrale - utilizzando la preziosa collaborazione di enti come le Regioni e correggendo norme e prassi burocratiche oggi totalmente assurde - per adeguarsi ai tempi. Una grave pecca, vero cruccio di Federico Zeri e non solo suo per la verità, è la mancanza di un censimento definitivo dei beni artistici italiani. Un'altra assurdità è la percentuale di euro stanziati e non spesi dal Ministero per i beni e le attività culturali: nel 2001, tanto per fare un esempio, le soprintendenze storico-artistiche italiane hanno avuto 64,5 milioni di euro e sono riuscite a non spenderne 53,2, ossia l'81 per cento. E tutto ciò per la rigidità delle voci di bilancio.
S. Settis, Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002, 152 p., Ç 8,80.
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