Rivista "IBC" X, 2002, 4

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / leggi e politiche

"Colosseo vendesi"? Come è cambiato in Italia il regime della inalienabilità dei beni culturali demaniali dopo l'approvazione della famigerata legge "Tremonti"? Risponde un giurista esperto della materia.
Giù le mani dal demanio

Giovanni Losavio
[magistrato, consigliere nazionale dell'associazione "Italia Nostra"]

Dal giugno scorso, quando il discusso decreto "Tremonti" è diventato legge, anche in Emilia-Romagna si sono levate voci autorevoli per discutere e contestare il provvedimento che vorrebbe fare del patrimonio culturale dello Stato una società per azioni. Durante un incontro estivo, a Bologna, la storica dell'arte Milena Naldi ha chiamato al confronto alcuni specialisti del settore, tra cui il magistrato, consigliere nazionale di "Italia Nostra", Giovanni Losavio: pubblichiamo l'intervento di quest'ultimo, che a distanza di tempo fa chiarezza sulla natura giuridica della questione. Dall'incontro è scaturito un appello scritto, che alle prime firme autorevoli di Andrea Emiliani ed Eugenio Riccomini ha fatto seguire quelle di altri duemila sostenitori, uniti nel "Comitato di cittadini per la salvezza e la tutela dei beni artistici e monumentali". L'appello è stato inviato al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

 

Il demanio culturale: dal Codice civile del 1942 al Regolamento del 2000

Vicenda istituzionale assai tribolata quella del demanio culturale istituito dal Codice civile del 1942 (articolo 822, comma 2), che perciò assoggettava al regime della assoluta inalienabilità i beni immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico e le raccolte di musei, pinacoteche, archivi, biblioteche, appartenenti allo Stato e agli enti pubblici territoriali, province e comuni. Ne era risultata così modificata la disciplina dettata - soltanto tre anni prima - dalla legge fondamentale di tutela, la n. 1089 del 1939 che, affermato il principio della inalienabilità dei beni pubblici di interesse storico-artistico (articolo 23), consentiva tuttavia al ministro di autorizzarne la vendita (sentito il consiglio nazionale) "purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento" (articolo 24).

Si deve sottolineare il significato di principio della innovazione del codice civile, poiché l'appartenenza al demanio pubblico di una certa categoria di beni postula che essi attengano alle funzioni essenziali e ai fini primari dell'ente proprietario e di esso costituiscano un connotato forte di qualità, un incisivo profilo di identità; ma insieme pone speciali responsabilità in ordine a conservazione e a utilizzazione-gestione. Ebbene, nei decenni successivi e fino a tutti gli anni Ottanta dello scorso secolo, l'innovazione del codice civile è stata di fatto ignorata nella prassi amministrativa e il ministro ha continuato ad autorizzare, su parere favorevole del competente comitato di settore del Consiglio nazionale dei beni culturali, la vendita di beni immobili di riconosciuto interesse storico e artistico appartenenti allo Stato e ai Comuni, e perfino il Consiglio di Stato - che pur in sede consultiva, su indiretto stimolo di "Italia Nostra", aveva espresso parere nel senso della prevalenza del disposto del codice civile sulla disciplina della legge 1089 del 1939 - con una sentenza del 1988 convalidò la vendita di un immobile di riconosciuto interesse storico-artistico appartenente a una Regione.

Soltanto negli anni Novanta il "demanio culturale" fu registrato infine nella prassi amministrativa del Ministero per i beni culturali, ma alla indispettita resistenza dei Comuni (che impropriamente intesero il vincolo di indisponibilità come indebita limitazione della loro autonomia) fu sensibile la legge 127 del 1997 ("misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa") - nota come la "Bassanini bis" - che ripristinò integralmente la disciplina della legge 1089/1939, sopprimendo perciò il demanio culturale (articolo 12, comma 3). Alla reazione molto risentita specie delle associazioni culturali e innanzitutto di "Italia Nostra" (l'articolo del suo vicepresidente sul "Giornale dell'Arte" fu titolato dalla redazione La Bassanini bis ha sfondato una diga) rispose un anno dopo la legge 191/1998 che abrogò il discusso disposto della "Bassanini bis" e ripristinò dunque il demanio culturale (articolo 2, comma 24).

Ma il pentimento dell'ondivago legislatore ebbe breve durata, perché la finanziaria dello stesso anno (la legge n. 448 del 23 dicembre 1998) ritornò sulla questione (articolo 32) e confermò l'inalienabilità (ma relativa) dei beni immobili di interesse storico e artistico di Stato, Regioni, Province e Comuni, "salvo che nelle ipotesi" che sarebbero state previste dal regolamento da adottare su proposta del ministro per i beni e le attività culturali, per il quale fissò criteri sufficientemente precisi.

Si deve riconoscere che il ministro Melandri guidò con fermezza la commissione costituita per la redazione del regolamento, chiamando a farne parte anche esperti delle associazioni culturali. Sicché il testo finale (emanato poi con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 283 del 7 settembre 2000) è orientato al principio che l'alienazione degli immobili di interesse storico ed artistico appartenenti a Stato, Regioni, Province e Comuni - alienazione eclusa in ogni caso per definite categorie di beni - è misura diretta prioritariamente non già ad incrementare il gettito delle entrate, ma a garantire a taluni beni la più adeguata valorizzazione, non altrimenti perseguibile in concreto se non attraverso il trasferimento della titolarità proprietaria. Sicché l'autorizzazione data al riguardo dal soprintendente regionale verifica che l'alienazione, fondata su un argomentato progetto di tutela, sia funzione di più efficace valorizzazione e, come extrema ratio, è condizionata alla dimostrazione che l'ente pubblico territoriale versi nell'impossibilità di far fronte al compito di conservazione e fruizione dello specifico bene.

Si considerino le ipotesi di esclusione dell'alienabilità secondo l'elenco dell'articolo 2 del regolamento, che in sostanza riprende la proposta avanzata dalle associazioni. Invendibili assolutamente sono innanzitutto i beni riconosciuti per legge come monumenti nazionali, quelli il cui interesse è dato dal riferimento alla storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, i beni di interesse archeologico e infine quelli che documentano l'identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive ed ecclesiastiche. Se è vero infatti che la titolarità del diritto di proprietà è indifferente rispetto alle esigenze di tutela, ciò vale, ed entro certi limiti, per i beni di appartenenza privata e non altrettanto può dirsi per quelli caratterizzati dall'esser partecipi, e perciò documenti, della storia delle pubbliche istituzioni.

Sono dunque inalienabili i beni strettamente intrecciati alla vicenda istituzionale, rappresentativi delle funzioni essenziali degli enti esponenziali delle comunità: beni che dall'esser pubblici ricavano il connotato primario che li qualifica, la ragione del loro stesso interesse storico, che andrebbe irrimediabilmente perduto con il trasferimento ai privati; sono i beni nei quali può dirsi che Comuni e Stato si identifichino fisicamente e che sono perciò fattore non secondario del sentimento di appartenenza comunitaria. È agevole al riguardo un'essenziale esemplificazione: le opere difensive militari storiche (i forti ottocenteschi per la difesa di Roma capitale), gli edifici di residenza municipale e tutti gli edifici che provengono dalle soppressioni napoleoniche e postunitarie, nei quali il "moderno" Stato unitario, e soprattutto i Comuni, hanno insediato le loro principali funzioni, essendosi così realizzata un'irreversibile acquisizione.

 

2002: cosa cambia con la legge "Tremonti"?

Non è certo arbitrario affermare che il dibattito parlamentare sul decreto-legge "Tremonti", infine convertito nella legge n. 112 del 2002, per la "valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture" attraverso le due gemelle società per azioni "Patrimonio dello Stato" e "Infrastrutture", abbia reso palese il proposito politico di governo e maggioranza di comprendere nella massiccia operazione di dismissione patrimoniale anche i beni statali di riconosciuto interesse storico-artistico, e di rimettere le esclusioni non già ad obiettive regole normative ma all'incontrollabile discrezionalità politica. Anche i beni culturali, dunque, sarebbero stati fatti strumento della strategia finanziaria, con un inammissibile capovolgimento nella gerarchia dei valori dettata dalla Costituzione (come ha ripetutamente affermato la Corte costituzionale, l'articolo 9 della Costituzione conferisce ai valori estetico-culturali un ruolo primario, insuscettibile perciò di essere subordinato ad alcun altro interesse nella valutazione dei reciproci rapporti).

E palese è pure il proposito di subordinare il ruolo degli organi istituzionali della "tutela" se per il trasferimento dei soli "beni di particolare valore artistico e storico" alla "Patrimonio dello Stato SpA" (primo passo verso la valorizzazione attraverso la liquidazione) è stata prevista l'intesa con il ministro per i beni e le attività culturali, unica limitazione introdotta al potere esclusivo di disporre i trasferimenti rimesso al ministro dell'economia e delle finanze. Il rifiuto dell'emendamento "Vizzini" - che intendeva introdurre alcune limitazioni al potere del ministro dell'economia e delle finanze secondo criteri obiettivi verificabili (riprendendo le più significative ipotesi d'inalienabilità già previste nel regolamento n. 283 del 2000) - confermò che governo e maggioranza rifiutavano ogni limitazione se non quelle che fossero derivate dalle "intese" (discrezionali e politiche) con il ministro per i beni e le attività culturali, intese limitate ai beni di "particolare valore".

E tuttavia si deve constatare che quei propositi politici non hanno saputo tradursi in coerente disciplina normativa attraverso la formulazione dell'articolo 7 della legge 112/2002 (Patrimonio dello Stato SpA), verosimilmente per difetto di puntuale conoscenza dello statuto giuridico dei beni culturali pubblici, imputabile ai collaboratori del ministro Tremonti che hanno dettato con lui il complesso testo dello stesso articolo 7.

A parte la mostruosità giuridica del previsto trasferimento alla società per azioni "Patrimonio dello Stato" (dunque ad un modello privatistico) dei "beni immobili appartenenti al demanio dello Stato" che mantengono tale qualità (il trasferimento infatti "non modifica il regime giuridico previsto dagli articoli 823 e 829, primo comma, del codice civile dei beni demaniali trasferiti"), l'espresso richiamo dell'articolo 829 del Codice civile, che regola il "passaggio di beni dal demanio al patrimonio", postula che l'eventuale successiva alienazione sia necessariamente condizionata al procedimento amministrativo di cosiddetta "sdemanializzazione", con il formale riconoscimento del venir meno della funzione che aveva qualificato quel bene specifico come demaniale. Ma un tale disposto non può valere per il bene immobile di interesse storico, archeologico e artistico, tale riconosciuto "a norma delle leggi in materia" per il suo speciale carattere intrinseco, sicché a rigore non può darsi al riguardo dismissione della qualità demaniale se non attraverso la verifica di un erroneo riconoscimento, attraverso cioè la dichiarazione negativa di quell'interesse.

Con la espressa previsione che il trasferimento alla "Patrimonio SpA" non modifica il regime giuridico dettato per la categoria di appartenenza dello specifico bene demaniale, non v'è dubbio che il tenore testuale dell'articolo 7 faccia salva la disciplina dettata in tema di "alienazioni di beni immobili di interesse storico e artistico" dello Stato (oltre che di Regioni, Province e Comuni) dall'articolo 32 della legge 448/1998 (la "finanziaria 1999") e dal relativo regolamento di esecuzione emanato con il DPR 283/2000, che riafferma il principio della inalienabilità del demanio artistico e storico, disciplinando restrittivamente le eccezioni allo stesso principio (concepite come ipotesi verificate di più efficiente tutela, rimanendo del tutto subordinato l'interesse dell'ente alienante al conseguimento di una straordinaria entrata).

Nulla è innovato perciò nella disciplina sostanziale dei beni culturali pubblici, per i quali - se risalenti a più di 50 anni - vige il principio della presunzione di interesse storico e artistico, sicché la libera disponibilità di essi è in ogni caso condizionata a una preventiva dichiarazione negativa di quell'interesse da parte degli organi della tutela. Ed espressione di questo principio è appunto l'articolo 19 del regolamento 283/2000, che fa obbligo alle amministrazioni statali, se procedono a dismissioni di beni immobili appartenenti allo Stato, di trasmetterne l'elenco al Ministero per i beni culturali per la individuazione di quelli che "manifestamente non rivestono interesse artistico e storico", rimanendo tutti gli altri assoggettati alla disciplina del regolamento e alle autorizzazioni rimesse ai soprintendenti regionali.

Si deve dunque riconoscere che la battaglia della opposizione in Parlamento e delle associazioni culturali (che hanno stimolato le forze di opposizione) si è misurata piuttosto sui dichiarati propositi di governo e maggioranza che non sul tenore testuale del decreto-legge e in particolare degli articoli 7 e 8, la cui corretta interpretazione (anche in rapporto al sistema generale della "tutela") induce con certezza ad escludere che quei propositi politici siano divenuti obiettiva volontà della legge e ad escludere in particolare che il regolamento di cui al DPR 283/2000 ne sia risultato, con l'articolo 32 della legge 448/1998, implicitamente abrogato. Caduta quindi la prospettiva di una successiva libera alienazione del bene culturale trasferito alla "Patrimonio SpA" (e pure del consecutivo trasferimento alla "Infrastrutture SpA", giacché la funzione di garanzia patrimoniale è incompatibile con la persistente natura demaniale del bene, perciò insuscettibile di espropriazione forzata), vien meno l'interesse di fatto allo stesso trasferimento del bene alla "Patrimonio SpA" (in funzione di quella indebita valorizzazione economica che implica una concezione mercantile del bene culturale e contrasta con l'unica concepibile valorizzazione della sua intrinseca qualità culturale).

E se pur dovesse ammettersi che "Italia Nostra" e le altre associazioni culturali hanno drammatizzato ed esasperato il problema posto, quanto al demanio storico-artistico, dal decreto "Tremonti", coinvolgendo perfino il Presidente della Repubblica (che si è spinto a richiedere al governo specifiche garanzie sul punto), si deve tuttavia riconoscere che ciò è valso in ogni caso ad impegnare formalmente il Presidente del Consiglio, che nella risposta a Ciampi ha assicurato che la nuova legge in nulla modifica la vigente disciplina del demanio culturale ed è valso infine ad indurre il ministro Urbani a dichiarare (in una intervista al "Corriere della Sera") che le garanzie richieste dallo stesso Presidente della Repubblica stanno tutte nel regolamento n. 283 del 2000, alla cui disciplina egli intende attenersi.

Non può dirsi perciò strategia saggia quella di polemizzare con il ministro Urbani sul fondamento delle sue affermazioni, opponendogli l'ineluttabile abrogazione del regolamento e proponendo una legge che faccia propria la relativa disciplina, quando in ogni caso è certo che per una simile legge non vi sarebbe maggioranza in Parlamento. Converrà invece subito chiedere che l'impegno di Urbani si traduca in comportamenti amministrativi coerenti, anche attraverso precise direttive ai soprintendenti regionali, confermando che proprio ad essi è rimessa la responsabilità di autorizzare ogni eventuale alienazione anche di beni compresi nel demanio dello Stato; e innanzitutto attraverso il rigoroso rispetto del procedimento di preventiva verifica secondo l'articolo 19 del regolamento, verifica preliminare ad ogni vendita immobiliare promossa dallo Stato.

 

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