Rivista "IBC" X, 2002, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / linguaggi, interventi
Fin dal suo primo applauditissimo ingresso sulla scena moderna, agli albori del XVI secolo, la commedia "nova" di ascendenza umanistica pare naturalmente incline a perdersi, col suo esuberante e vivace corteggio di "giochi" e motteggi, nel pittoresco groviglio delle vie della "città". Nell'inverno del 1508 - il mitico anno zero dell'era teatrale moderna -, nella fastosa cornice delle feste carnevalesche estensi, presso la "sala grande" del Palazzo Ducale di Ferrara, Ludovico Ariosto presenta per la prima volta in pubblico la sua Cassaria. L'ormai quasi leggendario debutto, scolasticamente additato come nascita del teatro moderno, rivive in una lettera, datata 5 marzo, che Bernardino Prosperi invia alla "leggiadra e bella", ma altresì "saggia e pudica", Isabella d'Este - la figlia di Ercole I ed Eleonora d'Aragona, sorella maggiore del Cardinal Ippolito e del duca Alfonso, andata in isposa nel 1490 a Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova.
Dopo aver tributato il dovuto omaggio alla raffinata "elegantia" della "multo commendata" "barzeleta" d'Ariosto, lo stupito e ammirato testimone-cronista scrive: "Ma quello che è stato il meglio in tutte queste feste e rappresentatione è stato la sena dove se sono representate, quale ha facto uno M.ro Peregrino depinctore che sta col S.re, ch'è una contracta et prospectiva de una terra cum case, chiesie, torre, campanili e zardini, che la persona non se può satiare a guardarla per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno e bene intese". Per altro l'ambientazione urbana dei ludi scenici in commedia non è certo una novità per Ferrara; come racconta infatti nel proprio diario Bernardino Zambotti, la prima della "comedia di Menichini" - piacevole volgarizzazione dei Menæchmi plautini risalente al 1486, che segna l'avvio dei festival di prosa umanistici ferraresi del tardo Quattrocento sponsorizzati da Ercole I - "fu recitata", per l'appunto, "suxo uno tribunale novo", allestito nel cortile di Palazzo Ducale, "in forma de una citade de asse con caxe depinte".
Poco importa, in questa sede, stabilire se, per l'esordio teatrale ariostesco e quindi per il debutto del nuovo teatro, Pellegrino da Udine - figura di secondo piano dell'attivissimo atelier, ferrarese cresciuto nelle botteghe di Giambellino e Vivarini - avesse già concepito una scena ad impianto rigorosamente prospettico, come ritengono molti illustri studiosi da Molinari ad Attolini, o se, come preferisce supporre Ludovico Zorzi, la prima della Cassaria si svolgesse entro uno spazio composito nato dal montaggio eteroclito di un inquadramento prospettico con uno sfondo paratattico ad allineamento frontale. Quel che a noi più interessa è sottolineare come, nel solco "cittadino" della tradizione spettacolare di Ferrara, il coraggioso esperimento drammaturgico di Ariosto sia stato offerto in anteprima al giudizio degli scaltriti ed esigenti spettatori ferraresi - la capitale estense è la vera Broadway di fine Quattrocento e primo Cinquecento -, entro una sfaccettata e cangiante scena, verbale e materiale, di "città".
Posto che, complice il dotto ed autorevole avallo del Secondo libro di Perspettiva del Serlio (1545), il variegato paesaggio urbano - con le sue botteghe, i suoi palazzi, le sue stamberghe popolate da una ridicolosa cricca di malfattori e mezzane, i suoi portici e le sue chiese - si impone, dopo i prestigiosi esordi ferraresi, come mappa obbligata se non addirittura piano regolatore delle peripezie comiche moderne, l'evoluzione dell'intero teatro cinquecentesco può essere letta come un impercettibile, ma al tempo stesso inesorabile, trapassare dalla "Città" astratta, o ideale che dir si voglia, della scena rinascimentale, alle "città" reali dello spettacolo manierista.
Così come nel corso del Cinquecento i primi indeterminati scorci prospettici di un Bastiano da Sangallo, generico o simbolico repertorio dei più frequenti topoi edilizi della classicistica retorica urbanistica dell'umanesimo, attraverso certi bozzetti pseudoarcimboldeschi di Baldassar Peruzzi, o ancora attraverso le circostanziate e quasi aneddotiche ambientazioni della Vedova del Cini (1565) o del Granchio di Lionardo Salviati (1566), cedono il passo a sempre più icastiche e dettagliate descrizioni "dal vero" di questa o quella città, se non addirittura di questa o quella veduta di città, allo stesso modo, infatti, gli indefiniti e interscambiabili sfondi cittadini della drammaturgia "osservata" dei primi decenni del secolo, complicandosi nei mobili scenari della commedia romanzesca à la manière degli Intronati, si vengono articolando e precisando, durante il Cinquecento, nei concretissimi bozzetti urbani narrati dalle commedie fin de siècle.
Se ancora il Prologo della Mandragola (1518), additando alla platea il proprio fondale, può ironicamente commentare: "Vedete l'apparato, / qual or vi si dimostra: / quest'è Firenze vostra, / un'altra volta sarà Roma o Pisa, / cosa da smascellarsi dalle risa", dopo l'attenta esplorazione di una Roma ridotta alla sua vivida sineddoche di Campo dei Fiori condotta da Annibal Caro con la commedia praticamente a chiave degli Straccioni (1544 e pubblicata nel 1582), l'Antiprologo del Candelaio, mettendosi al timone del suo "barconaccio dismesso, scasciato, rotto" e "mal'impeciato", può apostrofare i propri spettatori ricordando loro che, travolti da una sorta di tromba d'aria iperrealistica, essi, per godere appieno della commedia, devono "pensare di essere" proprio "nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio di Nilo".
Lo sterminato pelago dell'universo fenomenico, con le sue improvvise tempeste e le sue bonacce, le sue correnti e i suoi riflussi, pare però destinato a contraddire ogni legge univocamente evoluzionistica. Alle soglie del Seicento, quando per ogni dove in Europa sta prendendo piede la realistica cultura del romanzo, l'applauditissimo comico dell'arte Andreini - Giovan Battista, quondam Lelio, fiorentino - riandando col pensiero alla propria patria lontana dalla remota Parigi, nel portare in scena i piacevoli ed avventurosi "accidenti" di un "Amor" vissuto "nello specchio" (1622) ribalta specularmente la geometria delle trame comiche convenzionali e, in forza di un'implacabile catottrica diegetica, rispinge le forme frattali della drammaturgia neorealistica ante litteram di fine Cinquecento verso le semplici figure euclidee del teatro dei primi decenni del XVI secolo: a coronamento di un complesso movimento di dislocazione narrativa, in Amor nello specchio le città della commedia tardocinquecentesca si ricapitolano nella Città del teatro primorinascimentale.
Metafora seducente del barocco vivere in scena, in grazia della sua ambientazione di fatto assolutamente virtuale, il copione etimologicamente equivoco del prode Lelio, gioiello artigianale di un'ingegnosa ingegneria semiotica, al vaglio di un'accurata analisi, o secentesca notomia, scenica, si sfoglia in un rapinoso succedersi di fondali affabulatorii, si dissocia in un labirinto di scorci cronotopici, si anima in una complessa danza di periatti di senso. Tra le quinte di una Firenze distillata dall'autore in puro e fungibilissimo nomen, i capitoli della licenziosa Éducation sentimentale della protagonista Florinda, liberamente trascorrente dal narcisismo all'omosessualità per poi trovare tra le braccia del sedicente ermafrodito Eugenio le gioie dell'amore secondo natura - primo livello di lettura dell'arguto palinsesto andreiniano -, si sdoppiano innanzitutto nelle stazioni di riscatto di un metateatrale dramma di redenzione della figura dell'attrice, secondo quel progetto di riforma della prassi teatrale caro al nostro Giovan Battista, che egli ripetutamente trasse dal (ma anche cifrò nel) mito della Maddalena, fida scorta, in santissima trinità, dell'intera sua carriera di poeta (del 1610 è la prima edizione del poema in ottave La Maddalena, del 1617 è la sacra rappresentazione La Maddalena e del 1652 è l'"azzione drammatica, e divota" La Maddalena lasciva e penitente).
Le mansiones del "mistero" di "ascesa" della donna di teatro, dalla condizione di peccatrice/prostituta a quella di santa/intellettuale intarsiate nel copione, si traducono poi, in Amor nello specchio, nelle pagine di un'autobiografia perversamente oscillante tra il fantastico e il vissuto, che, innestando, come accade in molti copioni coevi dell'arte, la cronaca del quotidiano sull'immaginazione, pare proporsi, come obiettivo primo, una risoluzione, per lo meno sul piano della finzione scenica, dei veri conflitti tra la moglie (Virginia Ramponi alias Florinda) e l'amante (Virginia Rotari in arte Lidia) dello scrittore - interpreti delle due principali incognite del teorema del desiderio dimostrato nel dramma -, conflitti effettivamente patiti dall'autore (in scena egli pure in prima persona, naturalmente come Lelio) nel concreto e doloroso farsi della propria esistenza.
Sul filo del dilettevole e conturbante intreccio della commedia, le note del diario intimo dell'"amoroso" Lelio, a metà strada tra realtà e finzione, trapassano quindi in un'accorata e pia apologia del teatro, devotamente riconosciuto come luogo dato alla rappresentazione del vizio solo in quanto morigerante "speculum vitae humanae", a sua volta inaspettatamente redatta in veste di inventario in codice di un abnorme ed eccitante, a non dir furioso, "teatro dell'amore" - nell'accezione secentesca di teatro come "mostra, esposizione, raccolta ordinata, esibizione". Un teatro tutto volto a catalogare gli svariati ed aberranti casi di passioni amorose e pulsioni sessuali ravvisabili in questo nostro lubrico mondo: onanismo, narcisismo, lesbismo, sadismo, masochismo, necrofilia_
E ancora i bilanci di una siffatta secentesca premonizione di De l'amour - o forse meglio casareccia versione del Kamasutra o teatrale reinvenzione dell'Ars Amandi - si scoprono essere i paragrafi di un tractatus di filosofia neoplatonica, celebrante la sintesi dello spirito e della carne, la ricomposizione della parte e del discorde nella completezza dell'uno, entro la cornice di una firenze/Città, giustamente ricondotta, sul modello del celeberrimo trittico urbanistico di Urbino-Baltimora-Berlino, alla sua rarefatta misura di "idea".
Conscio dell'archetipo iperuranico della sconcertante favola rappresentativa di Andreini e della sua ubicazione liminale tra pensiero e cose, Luca Ronconi è giunto lo scorso luglio al suo secondo appuntamento con la scabrosa commedia, dopo l'abbacinante riuscita di un primo studio del 1987 (una pura e sofisticatissima sinfonia di bianchi ed avori, in scena a Roma, al Teatro dei Documenti di Luciano Damiani, dominata dalla grazia siderale e selvaggia di un'esordiente Galatea Ranzi). Per restaurare appieno la segreta architettura drammaturgico-filosofica del copione, Ronconi ha scelto di riflettere la sua nuova messa in scena di Amor nello specchio - affidandone in questo caso il successo al fascino inquietante e vibratile, folle, misterioso e senza tempo di Mariangela Melato - nella forse più delicata e compiuta visione consegnataci dal sogno dell'urbanistica rinascimentale: quella Ferrara da cui avevamo preso le mosse, in compagnia del lunare e (perché no?) lunatico Ariosto. Quella Ferrara che, non si dimentichi, a detta di un severo intendente quale il Burckhardt, si accampa nel panorama urbano d'Occidente, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, come "la prima città moderna d'Europa".
Se rimescolando le carte dell'arte comica Andreini ha scelto l'utopia, che utopia sia - è il motto del regista. Sottraendo Amor nello specchio agli arditi trompe l'oil della boîte à illusions del palcoscenico barocco, Ronconi, senza per questo intervenire sul testo e conservando anzi abilmente l'unico fugace accenno alla collocazione fiorentina del racconto, proietta le volute e gli arabeschi del dramma di Andreini - talvolta un po' in odor di cartapesta, ma non per questo meno ampi e squisiti - sul solido e ad un tempo evanescente schermo della vera città di "Ferrara-(?)", assorta nella contemplazione del suo possibile ed eventuale equilibrio perfetto, e, dell'exemplum Ferrara, trasceglie sapientemente l'exemplum di corso Ercole I, matrice generativa della divina quanto inimitabile "addizione erculea" finta dal Rossetti, estraendone ulteriormente una radice quadrata di algido rigore col tagliarlo all'altezza di Palazzo dei Diamanti.
Cuore del realissimo miraggio estense, il quadrivio degli angeli - su cui si fronteggiano il fantastico palazzo marmoreo del fratello del duca Ercole, Sigismondo, l'austera magione in laterizio dei Turchi poi dei di Bagno, con la grande parasta angolare in marmo bianco che rimanda alla consimile pilastrata del terzo protagonista dell'incrocio, casa Prosperi-Sacrati, tutta protesa nel suo aereo portale - questo quadrivio diventa così il crocevia dei destini, puntualmente incrociati, di Lelio, Guerindo e Florinda, Orimberto, Eugenio e Lidia, Coradella, Granello e Bernetta.
Quasi inesistenti gli interventi scenografici: due sedute lineari e laterali in foggia di lunghe panche, l'una in similmarmo l'altra in finto mattone, che, scorrendo lungo le pareti degli edifici affacciantisi su corso d'Ercole, accentuano lo slancio prospettico della visione; un paio di sedie da osteria a ridosso della gradinata destinata al pubblico; una finta parete in muratura a congiunzione di Palazzo Camerini con Palazzo Turchi - di Bagno; una piattina che scivola da una delle prime finestre dell'attuale sede dell'Istituto di mineralogia e geologia per consentire le sfuggenti epifanie di Lidia; e, ad ultimo, un basso muricciolo che chiude in lontananza il corso, simulacro di fondale teso a suggerire, più che nascondere, il perdersi della strada nella campagna. L'eccezione era costituita da una sola vertiginosa invenzione: un lastricato di specchi, progetto di Marco Rossi, dilagante su tutta la superficie del corso, in cui l'intera città - coi suoi gioielli architettonici, il suo cielo di altezza insondabile, la sua natura educata a giardino, i suoi veri e finti abitanti in commedia, vestiti dei costumi di sobria e tutto sommato sdatata inventiva di Simone Valsecchi e Gianluca Sbicca - sprofonda magicamente en abîme.
E qui tocchiamo forse l'essenza della barocca intuizione ronconiana. Portando in scena Amor nello specchio nell'incanto morbido e sottilmente morboso di Ferrara, Ronconi, ritraendo la città nel suo specchio, pare divisare un nuovo smascheramento del dramma che va ad aggiungersi ai tanti già prospettati: al penetrante sguardo del regista, particolarmente sensibile ai prodigi dell'allegoria secentesca, la rassicurante summa platonicheggiante della possanza riunificatrice di Amore inscritta da Andreini nel romance di Florinda, raddoppiata e al tempo stesso dissolta sulla sua scena speculare, si rivela infatti, chissà se in ultimo, una desolata meditazione barocca sulla vanità del vivere. Posseduti da una concretissima e fisiologica passione che sempre li eccede - oggettivata in una recitazione eccessiva e ossessiva, tesa a restituire un fedele referto dei comportamenti e dei linguaggi patologici delle figure create da Lelio -, nel serico arazzo tessuto da Ronconi i protagonisti della "commedia amorosissima" di Andreini sono scaraventati alla ricerca, più ancor che del loro amore, di Amore tout court. Tra le euritmiche scansioni dello spazio ferrarese, colto nell'attimo incerto e straziante in cui l'ultima tersa luce del giorno si spezza e precipita per cedere il campo alla notte in un'atmosfera sospesa che ricorda da vicino le piazze metafisiche di de Chirico, i personaggi si rincorrono in un impetuoso girotondo che, proprio perché moltiplicato in una farandola di doppi e riflessi, par destinato a risolversi, al cader delle illusioni, in macabra Totentanz.
Come finalmente scopriamo durante la diabolica notte degli intrighi che fa da spartiacque alla vicenda, vera e propria commedia in commedia nel corso della quale lo stesso Amor nello specchio è chiamato a guardarsi allo specchio - mentre nel carosello della messa in scena ronconiana, congelata, all'abbraccio delle tenebre, nei freddi grigi delle luci di Gianfranco Salvatori, dal famoso crocicchio, ora famigerato (non per nulla forse costruito sulle esoteriche regole dell'infandum quadrato astrologico), tra rombi di tuono e fiammate al licopodio, evocati dagli incanti del mago Arfasat, lenti ed inesorabili sfilano, sulla strada di specchi, i vuoti scrigni depositari della felicità dei protagonisti, colmi solo di fantasmi, fedelissimi riflessi della mole dei Diamanti destinati a schiudersi perpetuamente sul niente come in un gioco sempre frustrante di scatole cinesi -, le amorose follie di Lelio o Florinda, di Lidia o Orimberto, strampalati sintomi della tragica follia di un mondo che pare aver smarrito il proprio baricentro, sono in effetti a ben vedere un sinistro e perturbante emblema, nella loro inconsistenza, dell'assoluta fragilità del vivere, della natura effimera di ogni apparenza: "vanitas vanitatum"_
Naufrago alla deriva in una Ferrara insieme reale e fittizia, orizzonte concreto e meta chimerica, trama di case e di idee, spazzata da un inarrestabile maremoto ontologico, davanti a questa illuminata realizzazione di Amor nello specchio, smagliante fino all'accecamento, lo spettatore, inghiottito dalla catabasi speculare di Ronconi che sembra additare il virtuale come postrema e letale fossa del reale, scruta così - probabilmente invano - il vago "caso amoroso e improvviso" narrato da Andreini alla ricerca del proprio - quasi di certo inesistente - volto più vero.
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