Rivista "IBC" X, 2002, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne, pubblicazioni
Dalla rovere di Corte Brugnatella (Piacenza), che con una circonferenza di oltre sei metri e un'altezza di ventotto è la quercia più grande della regione, fino al cipresso di Villa Verucchio (Rimini), che la tradizione vuole piantato da San Francesco: sono oltre mille le immagini inviate al concorso fotografico "Giganti protetti. Gli alberi monumentali in Emilia-Romagna" organizzato dalla Regione tra il 2001 e il 2002. Per ognuno dei quattro ambiti territoriali in cui sono state suddivise le province (1, Parma e Piacenza; 2, Modena e Reggio Emilia; 3, Bologna e Ferrara; 4, Cesena-Forlì, Ravenna e Rimini) il bando di concorso ha previsto un primo, un secondo e un terzo premio. I vincitori sono rispettivamente: Roberto Bertoni, Gian Marco Pedroni, Enrico Baglioni, Paride Coatti (primi classificati); Antonio Cosi, Mauro Iori, Maria Vittoria Galli, Nino Mini (secondi classificati); Ernesto Gobbi; Giovanni Fontanesi; Luca Gasparri; Iorio Amadei (terzi classificati).
Le foto dei dodici vincitori e una selezione delle migliori fotografie pervenute degli oltre seicento alberi tutelati sulla base della legge regionale 2/1977 sono oggetto di una mostra itinerante che ha avuto la sua prima tappa a Bologna, presso il Baraccano, dal 9 novembre al 15 dicembre 2002. Dal catalogo della mostra - curato da Teresa Tosetti e Carlo Tovoli, e pubblicato dall'Editrice Compositori nella collana "Immagini e Documenti" dell'IBC - abbiamo tratto uno dei saggi introduttivi.
_ l'albero ha sempre un destino di grandezza.
Tale destino lui lo propaga.
L'albero fa più grande ciò che lo circonda.
G. Bachelard, La poétique de l'espace.
Alla domanda "qual è l'essere vivente più grande del mondo" i più scelgono la risposta generica "la balena" o, più in dettaglio, "la balena azzurra". Si sbagliano. In realtà, le sequoie dell'America settentrionale (Sequoia sempervirens e Sequoiadendron giganteum) possono essere più grandi di qualsiasi balena. Nel "Parco delle sequoie", in California, un esemplare di Sequoiadendron giganteum, soprannominato "Generale Sherman" è alto circa 83 metri, ha una circonferenza (misurata, come è regola, ad un metro e mezzo dal suolo) di poco più di 24 metri e il peso stimato è di 2.030 tonnellate, venti volte il peso di una balena azzurra di dimensioni medie. Questa, però, non è la sequoia più alta: il primato appartiene ad un esemplare di Sequoia sempervirens alto poco più di 110 metri, soprannominato "Howard Libby".
Questi giganti tra i viventi sono diventati tali perché hanno avuto il tempo necessario, protetti dai luoghi, inaccessibili per millenni. Identica fortuna non è toccata agli alberi delle foreste europee, e, in particolare, a quelli delle foreste italiane. Nelle terre che oggi fanno parte della regione Emilia-Romagna, l'antichità dell'insediamento umano e la fertilità delle alluvioni fluviali spiegano la perdita, ormai bimillenaria, delle grandi foreste di pianura e la trasformazione delle residue foreste montane in boschi cedui, in castagneti e in piantagioni di conifere. La funzione produttiva dei boschi non ha certo favorito la longevità degli alberi e, nello stesso tempo, gli alberi preferiti per una rapida ed elevata produzione di legno sono, per loro stessa natura, poco longevi. In più, le forme degli alberi superstiti, nei boschi ma soprattutto nelle aree agricole e suburbane, documentano un uso degli alberi proprio di un'economia povera per molti secoli, ed anche il suo persistente retaggio culturale: ceppaie, bassi tronchi capitozzati, alberi deformati da potature a cui si dedicano con tenacia molti (troppi) nostri contemporanei. Gli alberi sono i simboli silenziosi della cultura di un popolo.
I nostri pochi grandi alberi non possono quindi rivaleggiare con le sequoie nordamericane, ma sono anche loro, a scala locale, i più grandi tra i viventi. Il valore che viene percepito più facilmente nei loro riguardi è quello che potremmo definire genericamente "culturale". I grandi e vecchi alberi sono, quasi sempre, i soli superstiti di paesaggi perduti e i soli protagonisti non effimeri dei nuovi paesaggi creati dall'uomo, dove l'instabilità e il mutamento sono la regola. Sono gli alberi che formavano le antichissime foreste: olmi, carpini e farnie in pianura, cerri e roverelle in collina e nella bassa montagna; faggi più in alto, sino al limite della vegetazione forestale. Ma ci sono anche alberi coltivati, come il castagno e il cipresso. L'incontro con un grande albero, qualunque sia la specie, non può che destare ammirazione: il pensiero corre al tempo che è trascorso da quando era un piccolo seme appena germinato, alla straordinaria capacità di crescita e di accumulo di questi vegetali, ed è sempre spontaneo il confronto tra la nostra breve vita individuale e quella dell'albero che abbiamo davanti.
È ben comprensibile il valore sacro che molti popoli, sin dall'infanzia della nostra specie, hanno attribuito agli alberi, alle foreste non toccate dall'uomo: i grandi alberi e i boschi impenetrabili erano i custodi di una forza vitale, di un mistero che si poteva sperare di attingere, per breve tempo e in piccola parte, solo attraverso la mediazione di un rito. Erano essi stessi le divinità primigenie, come lo erano le sorgenti e i fiumi. L'indescrivibile bellezza di questi luoghi, segnati dalla sacralità della natura, è stata perduta per sempre nel nostro mondo e, con loro, sono state perdute le emozioni profonde che essi provocavano nei nostri antenati, sino a guidare i loro pensieri. Un esempio, tra i tanti, ce lo forniscono le cattedrali gotiche. Come osservò Ralph Waldo Emerson: "La chiesa gotica trasse origine manifestamente da un adattamento degli alberi della foresta, con l'intrico dei loro rami, in arcate solenni e fantomatiche [...]. Stando dentro un bosco, in un pomeriggio invernale, ognuno si renderà subito conto dell'origine delle vetrate istoriate che ornano le cattedrali [...], osservando i colori del cielo al tramonto attraverso l'intreccio dei rami nudi".1
Il valore biologico dei grandi e vecchi alberi nasce dalla loro stessa vita, passata attraverso innumerevoli stagioni: calori estivi, geli invernali, turbolenze dell'aria. Un albero vecchio soltanto di tre secoli ha visto sorgere e tramontare il sole circa centodiecimila volte. Ogni vecchio grande albero è la manifestazione estrema di due prerogative della vita vegetale: l'ostinazione e l'adattabilità (dove la seconda è necessaria alla prima). Di ogni stagione questi alberi serbano il ricordo lignificato nel profondo dei loro tronchi o nella chioma, modellata dai rami sopravvissuti agli schianti del vento e della neve. Il loro programma genetico è compendiabile nella frase "durare più a lungo possibile". Per riuscirci, ogni albero trasforma ogni anno parte del suo corpo in biomassa di sostegno e produce nuove parti destinate alla nutrizione. Può farlo perché è una pianta, cioè una creatura "modulare". La sua architettura è costruita attraverso la produzione ripetitiva di parti elementari simili tra loro.
Goethe, naturalista e poeta, osservò "che una pianta o, se preferiamo, un albero, i quali ci si presentano come individui, non v'è dubbio che si compongano in realtà di parti uguali e simili tra loro e all'intero: basti pensare a quante piante vengono moltiplicate per propaggini. La gemma di un albero produce un ramoscello, che a sua volta produce un gran numero di gemme uguali".2 Ogni parte elementare, ogni modulo, è formata da una foglia e dalla gemma che si trova alla base della foglia. Questo modulo è l'intima realtà dell'albero, quella che ne assicura la vita e la crescita. La sua formazione è influenzata dalle condizioni del momento e, per questo, ogni albero ha una forma altamente imprevedibile che dipende fortemente dall'interazione con l'ambiente. Lo aveva già osservato Leonardo da Vinci, nel suo Trattato sulla Pittura: "È tanto dilettevole natura e copiosa nel variare, che infra gli alberi della medesima natura non si troverebbe una pianta ch'appresso somigliasse all'altra, e non che le piante, ma li rami o le foglie o i frutti di quelle, non si troverà uno che precisamente somigli all'altro".
I moduli di un albero sono integrati in un sistema nutritivo ma, al tempo stesso, ogni modulo può essere perduto e rifatto da un'altra parte. Questa seconda caratteristica è, senza enfasi, la chiave per capire la straordinaria persistenza della vita sulla Terra, alimentata dall'adattabilità delle piante verdi. Ogni grande albero è la più alta manifestazione di questo carattere: durare significa avere straordinarie capacità di risposta alla variabilità delle condizioni ambientali. Nelle situazioni di più grave degradazione ambientale, un grande albero può essere ormai il solo portatore di un genoma divenuto ormai raro (penso, soprattutto, ai grandi olmi, ai carpini e alle farnie della pianura). La propagazione è in questo caso una strategia altamente raccomandabile di conservazione biologica. Nello stesso tempo, i semi che un grande albero di una specie rara produce contengono nuove preziose combinazioni genetiche, sono il deposito della necessaria variabilità a cui dovremmo attingere per conservare la specie stessa e utilizzarla nelle ricostruzioni ambientali.
Resta da ricordare lo straordinario valore ambientale dei vecchi grandi alberi. Essi sono autentiche isole verticali che contengono un mosaico di habitat, in cui la natura dispone molte altre creature per farle vivere. Per limitarci soltanto ai vertebrati, si può ricordare che varie specie di uccelli usano i grandi alberi a diverse altezze dal suolo: i rami più alti, spesso disseccati, sono usati dai rapaci e dalla cornacchia come luoghi di osservazione e la ghiandaia li usa per nidificare. Poco più in basso trovano riparo per la notte molti piccoli uccelli e, di giorno, la cinciallegra e il picchio muratore percorrono rapidamente i rami nutrendosi di molti insetti. Nelle biforcazioni più riparate dei grandi rami costruisce il suo nido lo scoiattolo, che si scava tane nelle parti marcescenti del tronco, le stesse che i picchi raggiungono per estrarne larve di insetti. Nelle cavità del tronco trascorrono l'inverno il ghiro e il moscardino; l'allocco, che passa il giorno nascosto nel fitto fogliame, vi costruisce il proprio nido. Le cavità dell'albero forniscono, in generale, importanti siti di rifugio per i pipistrelli e l'albero trae verosimilmente beneficio dalla degradazione minerale dei loro escrementi solidi e liquidi, operata da invertebrati, funghi e batteri. Si sa, infine, che i rospi usano il legno marcescente e gli anfratti alla base dei vecchi alberi come luoghi di rifugio.
Questo quadro di vita, sommariamente accennato, è tanto più ricco quanto meno degradato è il contesto ambientale in cui l'albero si trova: la vita legata ad un grande albero dipende in larga misura da ciò che gli sta intorno. Il valore dei vecchi grandi alberi per la biodiversità locale è, comunque, sempre molto alto: la loro conservazione sarebbe riduttiva del loro valore, e quindi poco utile, se li si considerasse soltanto "monumenti", come fossero edifici, e si procedesse a "restauri" eliminando parti morte e deperienti. Su un vecchio e grande albero regna un'attività straordinaria, che percorre tutti i livelli della vita: dalla produzione di materia e di energia, al suo uso e alla sua degradazione. Questa trama di un antichissimo canovaccio è stata ed è recitata da molti protagonisti.
Oggi, come tutti gli anziani, i grandi alberi hanno anch'essi bisogno di affetto, riposo e pace. Non potarli inutilmente, rispettare il terreno circostante per non danneggiare le radici, non accendere fuochi (o innescarli per stupidità) nelle vicinanze: sono queste le cose che possiamo fare per loro. In più, non dobbiamo lasciarli soli: piantare nuovi alberi, o favorire la naturale riconquista degli antichi spazi perduti dalle foreste, saranno i modi migliori per festeggiare i compleanni di questi patriarchi.
Note
(1) R. W. Emerson, Natura e altri saggi, trad. di T. Pisanti, Milano, Rizzoli, 1990.
(2) J. W. Goethe, La Metamorfosi delle Piante e altri scritti sulla Scienza della Natura, a cura di S. Zecchi, Milano, Guanda, 1983, p. 44.
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