Rivista "IBC" X, 2002, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / restauri, pubblicazioni

C. Pedelì, S. Pulga, Pratiche conservative sullo scavo archeologico. Principi e metodi, Firenze, All'Insegna del Giglio, 2002.
Archeologia e restauro

Mirella Marini Calvani
[archeologa, già soprintendente per i beni archeologici in Emilia-Romagna]

Chi voglia approfondire il tema della conservazione dei monumenti e dei manufatti d'arte e storia ha oggi a disposizione una corposa bibliografia, che riassume oltre un secolo di studi, dichiarazioni di principio e dibattiti. Non così per il restauro dei manufatti archeologici, l'interesse per il quale è decisamente recente. A lungo gli archeologi hanno, infatti, delegato o trascurato tali responsabilità. Basti pensare al ritardo con cui si è creato un settore espressamente dedicato al restauro di manufatti archeologici presso l'Istituto centrale del restauro (ICR) del Ministero (oggi) per i beni e le attività culturali, istituzionalmente garante dei metodi e della prassi del restauro; e che appena nel 1972 una Carta del restauro ha mostrato d'abbracciare in modo unitario monumenti e manufatti, comprendendovi quelli archeologici.

Eppure proprio l'archeologia si trova spesso a dover affrontare problemi di particolare complessità, derivanti per esempio dall'incompletezza del manufatto, situazioni di vulnerabilità non confrontabili con quelle con cui si misura il restauro dei beni artistici o dei monumenti (val la pena di ricordare che per beni archeologici non intendiamo soltanto le testimonianze dell'antichità: "archeologico" è da considerarsi qualunque manufatto o complesso sottratto mediante uno scavo in modo più o meno traumatico - a seconda delle condizioni in cui avviene il ritrovamento - a una situazione microclimatica irriproducibile); proprio l'archeologia, penalizzata dal ritardo con cui ha affrontato tecniche di restauro e approfondimenti critici, lamenta oggi una carenza di indirizzi, una carenza persino di risposte concrete a problemi pratici di conservazione.

Giunge opportuna, perciò, l'iniziativa del Museo internazionale delle ceramiche (MIC) di Faenza che promuove incontri sui temi della conservazione e ne pubblica i risultati. Convenientemente dotato di apparati e spazi didattici, accogliente nel senso in cui deve esserlo un museo moderno, il MIC ha posto tra i suoi principali obiettivi quello di rivendicare alla ceramica - e non solo a quella postclassica - una considerazione nel campo degli studi e della ricerca che superi quella del semplice apprezzamento estetico. In tale progetto ha assunto un ruolo di primo piano, per il contributo d'ordine tecnologico che era chiamata a fornire, la Sezione Restauro, attivata presso l'Istituto da Gian Carlo Bojani negli anni Ottanta.

Tra le iniziative della Sezione, efficientemente coordinata da Anna Maria Lega, si segnalano la creazione di una sezione della biblioteca espressamente dedicata al restauro, e l'organizzazione di corsi di aggiornamento nel campo della conservazione. I corsi in particolare hanno favorito l'instaurarsi di un felice rapporto con realtà istituzionalmente investite di responsabilità di ricerca e di conservazione, come il Dipartimento di storia dell'architettura e restauro delle strutture architettoniche dell'Università di Firenze, la Soprintendenza per i beni archeologici dell'Emilia-Romagna, il Servizio beni archeologici della Regione autonoma Valle d'Aosta. Vi si è discusso di scavi, programmati e d'emergenza; di problemi tecnici che gli scavi, soprattutto quelli d'emergenza, pongono.

Uno in particolare, tra questi argomenti, sembrava urgente approfondire, quello relativo alle misure di primo intervento da adottare per la conservazione di quanto scoperto. A questo si è pertanto dedicato un intero corso. Organizzato in collaborazione col Servizio beni archeologici della Regione Valle d'Aosta, che già ne aveva curato un'edizione sperimentale pochi mesi prima, il ciclo di lezioni "Primo intervento sullo scavo. Principi e metodi conservativi" si è tenuto nell'ottobre 2000. Ai partecipanti era distribuita una dispensa, dello stesso titolo, curata da Corrado Pedelì, del Servizio beni archeologici della Regione Valle d'Aosta, e Stefano Pulga, consulente della Soprintendenza per i beni culturali della Valle d'Aosta. Da quel vademecum scaturisce ora, ad opera degli stessi autori, il volume Pratiche conservative sullo scavo archeologico. Principi e metodi, edito dal MIC: non un manuale, ma il risultato di una serie di esperienze maturate sul campo, uno strumento di lavoro destinato soprattutto a chi opera sul campo.

Il libro prende le mosse dal cantiere di scavo, scomponendone le fasi e analizzandole in base ai problemi di conservazione che esse creano, alle operazioni necessarie durante i lavori, a quelle da adottare dopo. L'alterazione delle condizioni microclimatiche in cui sono venuti a trovarsi per un più o meno lungo periodo di tempo determina inevitabilmente nei resti dissepolti un processo di alterazione. Ma il comportamento dei materiali è quasi sempre prevedibile: un capitolo tratta quindi delle misure preventive da pianificare, tenendo conto della dinamica e degli effetti del clima. Viene affrontato anche il problema dei sistemi di protezione e copertura: provvisori, da adottare nel cantiere stesso di scavo o nell'intervallo tra campagne successive; definitivi, da mettere in opera a scavo ultimato.

Accanto a queste si collocano nozioni di immobilizzazione e contenimento di strutture e materiali, da mantenere in situ o da predisporre al distacco, interventi pratici da attuare con tecniche semplici e prodotti facilmente reperibili. Si pone opportunamente l'accento, corredando i consigli di significativi esempi, sull'imballaggio dei reperti e l'etichettatura (operazioni tutt'altro che secondarie, come qualcuno potrebbe credere, per la conservazione di quanto lo scavo ha restituito), sul loro deposito temporaneo e definitivo. E si forniscono elementi utili al riconoscimento dei materiali più comunemente reperibili nel sottosuolo. Riguardano, invece, soprattutto i restauratori le pagine dedicate al consolidamento dei materiali e ai trattamenti biocidi. Chiudono il volume una serie di appendici di carattere tecnico e dottrinale, un profilo degli autori e un'ampia bibliografia.

Un libro come questo non sarebbe una novità nella letteratura tecnica inglese, americana o francese. Lo è in Italia. Ci rallegriamo che una volta tanto non si tratti di una traduzione, ma di un'opera espressamente concepita e modellata sulla nostra realtà.

 

C. Pedelì, S. Pulga, Pratiche conservative sullo scavo archeologico. Principi e metodi, Firenze, All'Insegna del Giglio, 2002, 153 p., Ç 30.

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