Rivista "IBC" X, 2002, 2
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali
Mentre il calcio globalizzato ci riserva più di un'amarezza e l'identità nazionale degli stadi si mobilita per rivendicare un diritto tradito, si torna a discutere di beni culturali e del loro possibile uso economico fra amministrazione pubblica e cura privata. E al di là dai clamori così necessari per il nostro spettacolo quotidiano, si confrontano concetti, interpretazioni, ambiguità, equivoci. D'altro canto la voce autorevole di chi rappresenta l'intero Paese e ne incarna lo spirito unitario, ci ammonisce che il nostro patrimonio storico-artistico è parte viva e inalienabile della nostra realtà nazionale, un fondamento a cui non possiamo rinunciare, così come non possiamo cancellare il nostro volto e il paesaggio che lo inquadra e lo rende individuale.
Ed è opportuno riflettere sui termini di questa discussione, sul rapporto che vi si ripropone fra pubblico e privato, comunità e individuo. Ciò che chiamiamo bene culturale è sempre, per definizione, un bene pubblico, appartiene alla comunità e ne designa un valore, un significato che si iscrive nella memoria collettiva e diviene conoscenza, ragione etica, forma di vita. E proprio per questo ci è parso che convenisse portare la nostra riflessione anche su un fatto congiunturale o stagionale quale è quello dei beni culturali nei mesi estivi, fra turismo, vacanze e intrattenimento.
Festival, spettacoli, cortei, rievocazioni, mostre, concerti, incontri, viene da chiedersi, come entrano nella nostra percezione, nel tempo dell'eccezionalità festiva, fuori dalla consuetudine di ogni giorno, con nuovi riti o eventi che interrompono o arricchiscono la nostra esistenza di lavoro, in un ruolo pubblico chiuso e quasi cristallizzato? In altri anni si parlava dell'effimero e forse se ne faceva un mito; ma resta il fatto che nel mondo estivo sembra esplodere una teatralità più libera e più vitale mentre i luoghi marini possono divenire di colpo metropoli stagionali e le città riscoprono il fascino della solitudine e dei "posti", che d'improvviso si rivelano ai nostri occhi nella luce di una scena inedita, di un rapporto imprevisto.
Si direbbe quasi che i fantasmi dei musei si riversino ora nelle strade e le musiche del passato si confondano con quelle più sonore del presente, facendo di ciascuno di noi un protagonista o un figurante, in uno spettacolo comune dove lo spazio riprende il suo antico respiro, la sua forza di composta armonia.
Se la festa si è secolarizzata, conserva tuttavia la vitalità di un evento sottratto al grigio dell'abitudine e restituito alla gioia del corpo, alla pienezza di una coralità umana, al piacere del volto che incontra un altro volto e si sente in qualche modo solidale, partecipe di un disegno comune, regolato e insieme spontaneo.
Si vorrebbe allora che il luogo, con la sua storia e il suo passato, ritornasse ad essere un teatro vivente: il grande museo all'aperto, come qualcuno ha definito la terra italiana, si riempie di vita, rinnova voci lontane, si fa spettacolo diretto che non vuole una registrazione di simulacri ma solo una partecipazione viva, un consenso, un commento che diviene tutt'uno con il testo: di qui anche la nostalgia, il sentimento di ciò che si è perduto, la speranza o il proposito di un'altra stagione, con altre invenzioni e prodigi di luce.
Ma i beni culturali vogliono anche un'emozione più intima e un'educazione, una misura dell'intelligenza. Come dicevano gli antichi il delectare, l'euforia estetica, può anche essere un docere, una lezione, un incremento dell'esperienza, un "patrimonio" che si può ricavare persino dall'effimero. E forse questa è un'altra sfida del nostro tempo.
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