Rivista "IBC" X, 2002, 1
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / leggi e politiche
Non è facile per nessuno affrontare un tema dalle mille sfaccettature come quello del volontariato culturale o, per essere più precisi, dei beni culturali, magari mettendo in luce, insieme ai molti meriti, anche gli attuali limiti del volontariato in un settore ritenuto strategico per lo sviluppo di vaste aree del nostro paese. E in effetti sono già consapevole che alcune delle proposte che sto per formulare non incontrano - almeno per ora - i favori di autorevoli esperti del settore,1 in particolare di quelli più sensibili e attenti a preservare una visione "romantica" del volontariato.2 Ma è proprio nel rispetto dei principi fondamentali della legge quadro (la legge 266/91) che io vorrei tentare di conciliare, in modo ben più pragmatico, lo spirito del volontariato più puro con quello piuttosto imprenditoriale di vasti settori dell'associazionismo culturale.3
Prima di entrare nel merito, tengo a chiarire che le mie considerazioni si fondano su non pochi anni di esperienza diretta. Il background professionale che ha stimolato queste riflessioni è stato acquisito in un ente - il Museo della battaglia di Marengo - che in occasione di due significativi eventi culturali (il bicentenario della battaglia e il centenario del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo) ha affidato ad associazioni di volontariato l'organizzazione di gran parte delle manifestazioni e la responsabilità diretta su un budget complessivo di oltre un miliardo e mezzo di lire. Va detto, per inciso, che questa esperienza ha dato esiti ampiamente positivi nell'organizzazione degli eventi, per i quali è più facile mobilitare i volontari, ma soltanto nel secondo caso è risultata più che buona anche la gestione dei servizi del museo e del sito, laddove nell'altra realtà i volontari non hanno saputo assicurare nel lungo periodo i servizi aggiuntivi e l'animazione del sito storico.4
Proprio queste esperienze mi inducevano a leggere con una certa perplessità i dati del Rapporto biennale sul volontariato in Italia, edito dal Dipartimento per gli affari sociali nel 2000, nel quale - a fronte del 12,3% di organizzazioni che svolgono attività culturali e dell'1,4% di volontariato dedito ai beni culturali - non si è ritenuto necessario dedicare un capitolo specifico al settore culturale, così come avviene invece per quello sociale, ambientale, della giustizia, della protezione civile o internazionale. Si noti che i dati citati non sono omogenei a livello nazionale, se si pensa che in Umbria e in Molise si supera il 20% e nella provincia di Bolzano si arriva al 34%, mentre in regioni di grande rilievo turistico-culturale si supera appena (Liguria e Toscana) o addirittura si resta al di sotto (Valle d'Aosta, Piemonte, Marche, Sardegna) della soglia del 10%.
Il fatto che il volontariato culturale abbia così poca visibilità è forse dovuto alla frequente confusione con l'associazionismo culturale, ma anche alla scarsa omogeneità e al ruolo marginale assunto da questo settore rispetto ad altri - quello socio-sanitario e quello di protezione civile in particolare - che ormai si collocano su un piano di sostanziale parità e reciproco rispetto nei confronti dell'interlocutore pubblico.
Lo stesso Rapporto si sforza di spiegare questa omissione, sostenendo che il volontariato culturale non va esaminato approfonditamente poiché "è evidente che il volontariato ambientale condivide molti tratti con quello artistico-culturale", citando ad esempio il caso di Italia Nostra: una spiegazione poco convincente, che non tiene conto del fatto che ormai gli interlocutori ministeriali e territoriali sono del tutto diversi, come pure la sensibilità e l'attenzione dell'opinione pubblica (e politica) verso i rispettivi ambiti e interessi.
Va invece sottolineato il ruolo fondamentale che il volontariato culturale può svolgere, non solo per il patrimonio nazionale ma anche per gli altri settori del volontariato stesso, in termini di educazione e di formazione del personale, di comunicazione verso l'opinione pubblica e i media, di sinergie programmatorie e operative: per usare un facile slogan, il volontariato della cultura potrebbe fare molto per la "cultura del volontariato".
Richiamando sinteticamente le basi normative del rapporto tra il pluricentrico mondo della cultura e l'altrettanto composito mondo del volontariato, ricordo che l'articolo 105 del Testo unico dei beni culturali (decreto legislativo n. 490/1999), al fine di "promuovere e sviluppare la fruizione dei beni culturali", prevede la possibilità di "stipulare apposite convenzioni con le associazioni di volontariato che svolgono attività per la salvaguardia e la diffusione della conoscenza dei beni culturali".
Il testo, piuttosto contorto secondo le migliori tradizioni giuridiche, sembrerebbe limitare l'attività alle funzioni di "salvaguardia" (termine giuridico che l'UNESCO riferisce alla prevenzione, pratica fondamentale ancora poco applicata in Italia) e di "diffusione della conoscenza" tipica delle associazioni di promozione culturale; il riferimento alla valorizzazione è lasciato ambiguamente alla formula preliminare, l'unica che fa cenno al concetto fondamentale di "fruizione", cioè di apertura al pubblico dei monumenti in modo qualificato e, se possibile, non antieconomico.
Su questo punto si pone in realtà la questione: che cosa possono fare i volontari oltre alla "manovalanza" - cosa su cui tutti sono concordi, e che non è da ritenere affatto disdicevole - e alle benemerite iniziative di animazione e raccolta fondi tipiche degli Amici del museo?5
Qui deve entrare in gioco lo strumento delle "apposite convenzioni" che - come è tipico della materia contrattuale - "fanno legge tra le parti", laddove la normativa nazionale non ha voluto (per fortuna) entrare nel dettaglio, e che pertanto può adattarsi al caso concreto e alla volontà degli interlocutori: peccato che si tratti di un approccio capace di mettere in crisi quei funzionari pubblici ancora convinti che ciò che la legge non dice esplicitamente è da ritenersi vietato. In realtà la norma offre un'opportunità flessibile e innovativa, grazie alla quale un direttore di museo dotato di media fantasia può permettersi - nel rispetto della normativa di tutela - di inventare strumenti e modalità originali, alla sola condizione che siano conformi agli indirizzi e conseguano gli obiettivi assegnatigli dalla sua amministrazione.
Quali sono dunque le azioni innovative che un volontariato culturale qualificato e dinamico può proporre all'ente gestore di un bene culturale?
Penso in primo luogo alla progettualità, intesa come elaborazione di proposte da sottoporre agli enti finanziatori per nuove iniziative o strutture. Vedo bene anche l'attivazione e gestione dei servizi di accoglienza che nella stragrande maggioranza dei nostri musei e siti culturali non possono certo suscitare gli interessi delle grandi imprese del settore, ma neppure consentire un giro di affari tale da rendere economica una gestione affidata a cooperative o ad operatori professionali: il volontariato ha invece la possibilità di offrire al pubblico, a pagamento o, meglio, a offerta,6 opportunità come visite guidate, animazione e didattica, iniziative editoriali o promozionali, il cui introito può finanziare il museo o la stessa associazione. Se poi a questo si unisce un'efficace azione di fund raising presso le aziende del territorio, può essere garantita una modesta fonte di autofinanziamento per i piccoli e medi beni culturali.
Infine: i volontari possono garantire all'ente proprietario del bene quell'apporto tecnico specializzato in termini di vigilanza, prevenzione, sicurezza antifurto e antincendio che pochi musei, anche di media dimensione, possono dire di possedere a un livello adeguato: in questo senso è sicuramente di grande stimolo la formulazione degli standard museali minimi, espressamente finalizzati a garantire non solo la "fruizione collettiva dei beni" ma anche "la loro sicurezza e la prevenzione dei rischi" (articolo 150 del decreto legislativo 112/98).7
Ma il legislatore statale e regionale ha dato prova di scarsa fiducia nella qualità scientifica e manageriale delle organizzazioni di volontariato culturale e dei collaboratori che vi prestano un'opera certamente gratuita e spontanea, ma che non per questo non dev'essere riconosciuta come prestazione di livello "professionale", e pertanto valida ai fini del curriculum per i concorsi pubblici (quando ve ne siano i requisiti, come nel caso della cura di un allestimento permanente, di una mostra o di un catalogo, di un intervento di restauro o della partecipazione ad uno scavo archeologico sotto la supervisione dell'autorità di tutela).
Se per gli studenti delle scuole superiori è ormai una realtà la valutazione del servizio volontario quale "credito formativo", andrebbe incoraggiata la valutazione dei servizi di volontariato qualificato per gli studenti degli istituti d'arte, delle accademie e delle università: nel nostro caso il sistema dei crediti formativi potrebbe riguardare non solo i corsi di laurea in conservazione e restauro, archeologia, museologia, architettura e museografia, storia e storia dell'arte, ma anche sociologia, etnologia e antropologia, scienze naturali, diritto ed economia della cultura e molti altri. Inutile dire che le tesi di laurea possono utilmente svolgersi (a volte già si verifica) presso gli stessi musei o beni culturali, consentendo allo studente di impegnarsi in una ricerca concreta e utilizzabile, che può aprire anche la strada ad una prima opportunità lavorativa, anche solo come tecnico volontario qualificato.8
Insomma: bisogna che l'amministrazione pubblica abbia più fiducia - e non solo nei momenti di crisi - nel sistema del volontariato culturale, o almeno nell'insieme degli operatori qualificati che si mettono a disposizione del patrimonio in modo gratuito e disinteressato, ma non per questo meno competente.
Sviluppando una proposta che ha già incontrato critiche, ma anche autorevoli consensi,9 provo ad immaginare per il settore dei beni culturali un sistema di rapporti tra la mano pubblica e il volontariato mutuato dal sistema legato all'attivazione del numero unico regionale "118" per il soccorso sanitario d'urgenza. Come è noto a chi pratica il volontariato socio-assistenziale, il nuovo sistema si è spesso strutturato - ferma restando la funzione pubblica di pianificazione, coordinamento e controllo - sulla base di convenzioni tra le aziende sanitarie locali e le organizzazioni di volontariato più qualificate (non necessariamente tutte), con la previsione di un meccanismo molto selettivo di formazione e "accreditamento" dei volontari impegnati: anche in questo caso, non tutti gli aderenti alla singola associazione, ma solo quanti sono interessati ed abilitati a svolgere servizi "di livello professionale".
Il passaggio dal volontariato puro ed "eroico" a quello più tecnocratico dei corsi regionali accreditanti non è stato affatto indolore, ma la vera "droga" del volontariato delle ambulanze è stata, secondo me, la corsa alle ricche convenzioni finanziate con i fondi regionali della Sanità, e non certo lo sforzo di qualificazione tecnica dei volontari soccorritori.
Escludendo a priori nel nostro campo la possibilità di munifiche convenzioni (fatto salvo l'eventuale acquisto di strumenti tecnici), resta invece l'incentivo dell'accreditamento regionale per i volontari culturali, che sarebbero così qualificati e riconosciuti idonei a svolgere funzioni di supporto specialistico (fino al livello di "conservatore volontario") allo scarsissimo personale dei musei e dei siti, e in alcuni casi - si pensi alle frequenti situazioni di calamità - delle stesse soprintendenze.
Si badi che il discorso non si limita a restauratori e conservatori, che sono sicuramente la categoria più controversa e indigesta per le soprintendenze (anche se esistono vastissimi spazi per l'impiego di personale volontario per le mansioni relative all'allestimento e alla catalogazione). I volontari vanno soprattutto indirizzati laddove c'è il vuoto assoluto, cioè alla schedatura di sicurezza, alla predisposizione di piani di prevenzione e sgombero, alla manutenzione ordinaria, al trasporto in sicurezza con adeguati imballaggi, alla individuazione e gestione di idonei depositi d'emergenza, alla sorveglianza o alla predisposizione della cartografia dei beni culturali del territorio. Ricordo che l'addestramento continuo di questo personale richiederebbe serie e periodiche esercitazioni all'interno delle stesse strutture museali, che potrebbero coincidere (come già avviene in Svizzera) con il trasloco di sale del museo, l'allestimento di mostre o, più semplicemente, con l'effettuazione di elementari lavori di manutenzione o tinteggiatura.
Spingendo oltre questa ipotesi di riforma de jure condendo, azzardo ancora una proposta: la riforma dell'istituto dell'"ispettore onorario", oggi in forte declino, per il quale vedrei bene un ripensamento in chiave più dinamica, riconoscendo la storica qualifica a quanti oggi svolgono in concreto, in modo volontario ma strutturato, un ruolo di pubblico interesse per il patrimonio locale. In particolare i referenti delle organizzazioni di volontariato "accreditate" a svolgere funzioni di supporto alla tutela specie nelle zone periferiche, nei musei e siti minori, funzioni che la scarsità di personale e mezzi rende assai ostiche per le soprintendenze: come nel caso del controllo capillare e continuativo delle piccole zone archeologiche, delle chiese isolate o dei ruderi di antichi borghi, castelli o pievi.10
Per conseguire anche solo qualcuno di questi risultati occorre però maggiore consapevolezza e autostima da parte degli operatori del volontariato dei beni culturali, oltre ad una più aperta considerazione delle loro potenzialità da parte del Ministero per i beni e le attività culturali in primis, ma anche da parte del Dipartimento della protezione civile e delle Regioni.
Non sarà inutile a questo scopo - almeno sul piano della visibilità e della reciproca conoscenza - l'ormai prossima istituzione, sotto l'egida dell'UNESCO, di un tavolo nazionale di coordinamento tra le più importanti organizzazioni impegnate nella protezione dei beni culturali in situazioni di rischio (calamità e conflitti armati), settore in crescita che vede già analoghe strutture costituite in molti altri stati.
In Italia la prima riunione preparatoria si è tenuta nel giugno dell'anno scorso al Ministero degli affari esteri, trattandosi di un progetto di rilevanza internazionale; è seguito un secondo incontro in dicembre presso il Ministero per i beni e le attività culturali, con la partecipazione di dodici istituzioni di rilevanza nazionale, tra cui spiccano - oltre a International Council of Museums, International Council on Monuments and Sites, Associazione italiana biblioteche e Associazione nazionale archivistica italiana - associazioni come Società italiana protezione beni culturali, Croce rossa italiana, Legambiente e Italia Nostra; tra le strutture pubbliche interessate al progetto si segnalano il Comando Carabinieri Tutela patrimonio artistico, l'Opificio delle pietre dure, l'Istituto centrale per il restauro, l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, i Vigili del fuoco e la Protezione civile.
Lo Scudo Blu Italiano (dal simbolo internazionale creato dalla convenzione de L'Aja del 1954, spesso definito la "Croce rossa dei beni culturali"), così come già a livello internazionale l'International Committee of the Blue Shield, pur essendo una struttura assolutamente "leggera" e rispettosa dell'autonomia dei soggetti che la compongono, contribuirà certamente anche nel nostro paese a dare maggiore organizzazione e coesione a tutti quanti già oggi operano, con spirito entusiastico e disinteressato, per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale in tutte le situazioni di pericolo.
Note
(1) L'articolo si basa su una relazione tenuta in occasione della "Tre giorni del volontariato" (Lingotto, 23-25 Febbraio 2001): dall'incontro sul tema "Volontariato e cultura" tenutosi all'Archivio di Stato di Torino è scaturito un documento che non ha recepito nessuna delle mie suggestioni, benché fossero condivise da non pochi partecipanti all'incontro.
(2) Cfr. Solidali con l'Arte. Secondo Rapporto sul volontariato per i beni culturali e artistici in Italia, a cura di M. P. Bertolucci, Torino, Fondazione Agnelli, 1997.
(3) Cfr. Museo Italia. La risorsa del volontariato al servizio dei Beni Culturali, a cura di D. Manzone, Alba, Turismo in Langa, 2000.
(4) Altri spunti per l'articolo vengono dall'attività dirigenziale svolta dall'autore in espressioni dell'associazionismo sociale e culturale, in ultimo per l'istituzione di un'organismo internazionale per la protezione dei beni culturali nelle situazioni di rischio; si veda Uno Scudo Blu per la salvaguardia del Patrimonio Mondiale. Atti del III Convegno Internazionale della Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali, a cura di M. Carcione, Milano, Nagard, 2000.
(5) A. Grandi Clerici, Riflessioni sul volontariato in Italia e all'estero, in I Musei italiani verso l'Europa, a cura di G. Pinna e S. Sutera, Fiesole, ICOM-Amalthea, 1997, pp. 67-69.
(6) Si veda W. Santagata, Musei: il prezzo giusto, in Per una nuova museologia, a cura di G. Pinna e S. Sutera, S. Donato M., ICOM, 2000, pp. 22-28; cfr. anche D. Jalla, La gestione economica dei musei, ibid., pp. 36-53.
(7) D. Jalla, Il Museo contemporaneo, Torino, UTET, 2000, pp. 152-153.
(8) Lo sbocco professionale e l'attività volontaristica non debbono mai sovrapporsi, per l'evidente rischio di "contaminazione" dello spirito volontario dell'associazione, ma è giusto che un'organizzazione di volontariato culturale possa contare su personale qualificato, retribuendolo nei soli casi in cui lo impiega in modo continuativo ed esclusivo; è tuttavia utopistico pensare che tutte le attività tecnico-professionali prestate nel settore dei beni culturali possano essere retribuite.
(9) In senso favorevole alla proposta si è ad esempio espresso Dario Rei: cfr. D. Rei, Gratuità: un'etica per il Terzo Settore, "Animazione Sociale", XII, 1999.
(10) Naturalmente la qualifica di ispettore onorario dovrebbe essere attribuita anche ai responsabili dei musei e delle biblioteche pubbliche operanti nelle zone periferiche, i quali svolgono sovente un'azione di controllo e di tutela che va ben oltre gli obblighi lavorativi e le mansioni del proprio ruolo professionale.
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