Rivista "IBC" X, 2002, 1

biblioteche e archivi / immagini, inchieste e interviste

Fotografia e committenza pubblica: un rapporto complesso, tuttora in evoluzione. Mentre è in corso il riordino dell'archivio fotografico dell'IBC, per ricostruire a grandi linee la storia di questo rapporto abbiamo rivolto alcune domande a Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia.
Fotografia e committenza pubblica

Isabella Fabbri
[IBC]

L'Archivio fotografico dell'Istituto per i beni culturali è in corso di riordino: operazione complessa se si pensa alla quantità dei materiali raccolti e soprattutto alle stratificazioni ormai "geologiche" delle immagini, frutto di campagne fotografiche gestite dall'IBC in prima persona, ma anche di numerose acquisizioni e di recenti depositi.

Sfogliare gli inventari significa immergersi in un passato più o meno prossimo e ritrovare le tracce corpose di politiche e stagioni culturali diverse e di uno sguardo sul territorio che inevitabilmente non è più il nostro. Pensare al nostro archivio rappresenta anche una buona occasione per riprendere un discorso sulla fotografia nel suo rapporto con l'ente pubblico committente, rapporto forse un po' appannato in questi ultimi anni, e indagare inoltre i suoi nuovi statuti e le potenzialità future.

Su questo tema, che vorremmo proseguire nei prossimi numeri della rivista, abbiamo scelto come prima interlocutrice Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia, docente all'Università di Udine e presso il Centro di formazione Riccardo Bauer di Milano.

 

Con lei cerchiamo intanto di inquadrare storicamente la questione "fotografia e committenza pubblica".

Una premessa storica è realmente necessaria - dice Valtorta - se non altro perché la committenza pubblica relativa alla fotografia si avvia in Italia molto tardi. Mentre già nell'Ottocento registriamo negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia committenze statali e comunali, l'Italia tarda moltissimo. C'è un motivo di fondo: la committenza pubblica viene messa in atto in quei paesi in cui il concetto di stato borghese e industriale si forma prima. Di conseguenza la fotografia, forma d'arte industriale per eccellenza, viene capita prima anche come strumento al servizio della collettività. L'Italia elabora tardivamente un concetto di stato nazionale e sconta un analogo ritardo nel suo sviluppo industriale. Nel 1839, agli esordi dell'era fotografica, l'Italia non è ancora un paese unito. Dove manca il pubblico, però, spesso interviene il privato. Così ad esempio una azienda privata, costituita dai fratelli Alinari nel 1852, si è assunta un compito squisitamente pubblico, avviando vaste campagne di documentazione delle opere d'arte, del patrimonio monumentale e del paesaggio.

 

Ai ritardi di ordine politico ed economico si sono sommati anche altri ostacoli di ordine culturale?

Credo che la storia dell'arte, con il suo peso così rilevante in Italia, abbia finito per ostacolare l'ingresso della fotografia nella sfera della cultura "alta". Non dobbiamo dimenticare che le soprintendenze hanno utilizzato ampiamente la fotografia, ma sempre a livello di documentazione nel senso più semplice del termine. Il fotografo è sempre stato considerato una figura tecnica che può eseguire un lavoro, ma unicamente sotto la guida dello storico dell'arte, dell'architetto, dell'urbanista. C'è stato un mancato riconoscimento delle sue capacità critiche e delle sue competenze culturali effettive.

 

In anni più recenti i fotografi e la fotografia si sono però emancipati da un ruolo esclusivamente tecnico e strumentale. Penso ad esempio a Paolo Monti e alle sue campagne di rilevamento dei centri storici dell'Emilia-Romagna.

Monti rappresenta effettivamente il primo esempio di fotografo che lavora all'interno di un gruppo come operatore alla pari con gli altri. Il progetto complessivo è guidato dallo storico dell'arte e dall'urbanista, ma Monti è vissuto come un intellettuale capace di un punto di vista forte e specifico. Monti stesso si considera e parla di sé come di un professionista che sa guardare gli oggetti in modo peculiare e significativo. È un mutamento importante. I primi anni Ottanta vedono il dilagare di committenze pubbliche a pioggia, con una caratteristica comune: quella di lasciare libertà d'azione al fotografo, che diventa così improvvisamente un osservatore libero.

 

Che cosa comporta questa diversa considerazione del ruolo del fotografo?

Al fotografo viene attribuita una capacità nuova: saper vedere quello che gli altri non vedono e creare così con le sue immagini una memoria reale dei luoghi. Non la memoria che fino a quel momento era affidata all'immagine firmata Alinari o Touring Club o all'immagine stereotipata dell'Italia turistica. Si tratta di uno sguardo reale che cerca di decifrare ad esempio come le architetture storiche convivono con le strutture industriali e come i centri storici convivono con le periferie.

 

Quali sono gli autori e i momenti più significativi di questa stagione?

I fotografi che hanno determinato questa svolta sono numerosi: ricordo, tra gli altri, Luigi Ghirri, Mimmo Iodice, Mario Cresci, Guido Guidi, Gabriele Basilico e poi la generazione più giovane con Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Vittore Fossati, Fulvio Ventura. Molti di questi fotografi hanno ricevuto ripetute committenze pubbliche e a loro è stata affidata una nuova e inedita lettura del paesaggio. Possiamo datare il fenomeno dal 1981, anno della prima grande iniziativa del Comune e dell'Ente del turismo di Napoli. Un'altra tappa importante è rappresentata nel 1984 dall'apertura di "Viaggio in Italia" la storica mostra curata da Luigi Ghirri che ha avuto il merito, tra l'altro, di ufficializzare l'esistenza di una serie di fotografi intensamente impegnati sul paesaggio.

Tutti gli anni Ottanta vedono un crescendo di iniziative. Si moltiplicano le mostre, i cataloghi, i progetti di archivi pubblici. C'è da ricordare a questo proposito l'esperienza esemplare avviata dalla Provincia di Milano denominata "Archivio dello Spazio" che copre un arco di dieci anni dal 1987 al 1997. In questo lavorìo nasce una nuova figura di fotografo che non è più solo l'ottimo documentatore, ma si avvia a diventare artista in senso pieno. Ormai anche la committenza pubblica ha come premessa che il fotografo sia un artista che interpreta con il massimo di libertà la situazione che ha di fronte e ne dà una lettura soggettiva.

 

In che cosa è consistita l'esperienza milanese?

L'esperienza dell'Archivio dello Spazio si innesta su un'attività di catalogazione dei beni architettonici e ambientali che la Provincia di Milano avrebbe in ogni caso condotto, corredando le schede della relativa documentazione fotografica. L'architetto Achille Sacconi, responsabile del progetto di catalogazione, scelse di puntare su di una documentazione fotografica di alto livello, chiamando a lavorare fotografi noti e impegnati sul tema del paesaggio.

Il progetto diventa operativo nel 1987 e succede che la documentazione fotografica prenda il sopravvento, al punto che si decide di trasformare l'Archivio in un grande laboratorio che impegna cinquantotto fotografi e produce circa ottomila immagini. I fotografi - ai nomi noti si erano aggiunti anche i giovani - erano lasciati liberi: l'unica richiesta tassativa era che il bene fotografato non fosse isolato dal suo contesto reale. Il risultato è uno spaccato straordinario del paesaggio italiano nel momento in cui da industriale si fa postindustriale, e al tempo stesso uno spaccato del linguaggio dei fotografi italiani nell'arco di dieci anni"

 

Quale è la situazione attuale dell'Archivio?

L'Archivio è stato completamente schedato e sarà presto trasferito a Cinisello Balsamo a Villa Ghirlanda, sede del futuro museo della fotografia contemporanea costituito dal Comune di Cinisello Balsamo, dalla Provincia e dalla Regione. I lavori di restauro della villa dovrebbero concludersi alla fine del 2002. Un comitato scientifico internazionale ha redatto nel 1997 il progetto che prevede per il futuro museo, oltre alle attività canoniche di catalogazione e gestione dei fondi, anche una cospicua attività rivolta verso l'esterno: mostre periodiche, didattica, nuove campagne fotografiche.

 

Torniamo al rapporto tra fotografia e committenza pubblica.

A metà degli anni Novanta il fenomeno scoppia. L'esperienza dell'Archivio dello Spazio rappresenta anche in senso simbolico il culmine e la conclusione di un modo di intendere il rapporto tra fotografia e paesaggio, il laboratorio teorico-pratico in cui i nodi e le discussioni si sciolgono e si attua il passaggio dalla documentazione alla libera interpretazione. Con la fine degli anni Novanta assistiamo a committenze che si sono quantitativamente ridotte, ma hanno comunque acquistato maggiore consistenza economica e in cui sul tema del paesaggio si innestano nuovi temi legati al sociale. Si sono aggiunte anche committenze di tipo privato avviate dalle industrie e da fondazioni come la Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Assistiamo però anche a piccole committenze avviate da piccoli comuni. Oggi in ogni caso la committenza pubblica è diventata un'area di lavoro anche professionale per il fotografo, avvalorando in questo un'intuizione dello stesso Ghirri.

 

Proprio quest'anno l'assessorato all'edilizia della Regione Emilia-Romagna ha affidato a Gabriele Basilico una campagna fotografica dedicata alle aree urbane dismesse come supporto alla legge regionale 19/98 che finanzia progetti di riqualificazione di quelle stesse aree. Ne sono scaturiti un catalogo e un'ottima mostra che nel corso del 2002 sarà allestita in molti dei Comuni coinvolti. Questa iniziativa, avviata in collaborazione con l'IBC, può essere un paradigma per la ripresa di un rapporto tra fotografia e ente pubblico? Più in generale come vede l'evoluzione di questo rapporto?

C'è ancora da parte della committenza pubblica una necessità di documentazione. In questo senso la scelta di Basilico è esemplare perché il linguaggio di Basilico è quello della fotografia documentaria. In questo caso quindi le necessità della committenza si incrociano con le peculiarità espressive dell'artista. In generale penso all'avvio di progetti in cui convivano più discipline e più esperti e in cui il fotografo viene chiamato a interpretare un tema o a trarne spunto per la sua ricerca.

 

 

L'archivio fotografico dell'Istituto per i beni culturali

(Riccardo Vlahov)

 

Nel lessico degli anni Settanta, quando il concetto stesso di "bene culturale" era patrimonio di una esigua élite della società italiana, ricorrevano frequentemente parole come "campagna" fotografica, "rilevamento" o "censimento". La fotografia era considerata uno strumento di "riappropriazione" delle emergenze storico-artistiche, architettoniche, ambientali. Quale strumento di analisi della realtà e di diffusione della conoscenza, essa contribuiva a rendere più incisivi ed efficaci i progetti finalizzati alla conservazione, al restauro e alla valorizzazione dei beni culturali.

L'archivio fotografico dell'Istituto ha acquisito, utilizzato e conservato immagini realizzate nel corso di varie "campagne" fotografiche che traggono origine sia dalla committenza pubblica che dall'iniziativa privata. Uno dei più celebri esempi di questo secondo caso è la raccolta di immagini riguardanti l'Emilia e la Romagna, tratte dagli archivi Alinari. Realizzate agli inizi del Novecento, con uno stile tipico e inconfondibile, "aulico" e "monumentale", queste immagini rappresentano lo stato di fatto di edifici di pregio, luoghi di culto, opere d'arte, ambienti urbani ed extraurbani della regione e costituiscono una preziosa fonte iconografica storica capace di trasmettere indicazioni di alto significato documentario, anche in relazione alla conservazione, allo stato di degrado e alle trasformazioni subìte nel tempo dal nostro patrimonio. Ci permettono infatti di comprendere non solo l'essenza e le caratteristiche degli oggetti allora fotografati, ma anche gli effetti disastrosi che l'incuria, la mancanza di adeguata manutenzione, o l'introduzione di nuove tecnologie, hanno prodotto nel corso del tempo.

Tra le immagini prodotte su committenza pubblica conservate nell'archivio dell'Istituto, le fotografie di maggior prestigio sono quelle eseguite da Paolo Monti nel corso di una serie di censimenti fotografici riguardanti non solo alcune città storiche dell'Emilia-Romagna, ma anche insediamenti minori dell'Appennino, delle zone della Bassa Padana e del litorale romagnolo. Esse rappresentano un insostituibile punto di riferimento per un'attenta analisi dell'evoluzione delle nostre città e del nostro territorio e costituiscono una memoria che non è nostalgia, ma coscienza, attenzione, volontà di decidere, riflettendo con forza e chiarezza lo stile e la personalità di uno dei più importanti fotografi di architettura e urbanistica del Novecento.

Un'altra importante campagna di rilevamento fotografico commissionata dall'Istituto ha avuto come obiettivo il censimento dei teatri storici dell'Emilia-Romagna. Realizzata nel biennio 1980-1982, ha prodotto una documentazione sistematica ed estensiva sullo stato di conservazione degli edifici, evidenziandone in modo preciso e sintetico le caratteristiche architettoniche, le decorazioni e le attrezzature tecniche. L'indagine fotografica è successivamente ripresa negli anni Novanta, alla conclusione di importanti interventi di restauro e recupero funzionale eseguiti in alcuni edifici teatrali. Attualmente una mostra dal titolo "La musica degli occhi", destinata ad una circuitazione internazionale, espone una selezione di immagini fotografiche dei gioielli dell'architettura teatrale della nostra regione.

Verso la metà degli anni Novanta, è stata realizzata la riproduzione digitale dell'intero e consistente nucleo di immagini riguardanti i teatri storici. Attualmente è in corso il processo di riorganizzazione dell'intero archivio fotografico dell'Istituto, fase preliminare alla catalogazione scientifica di tutte le immagini e all'aggiornamento del sistema per la conservazione degli originali fotografici conforme alle nuove esigenze gestionali.

 

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