Rivista "IBC" IX, 2001, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni, restauri

Scavando si impara

Sauro Gelichi
[docente di archeologia medievale presso il Dipartimento di scienze dell'antichità e del Vicino Oriente dell'Università Ca' Foscari di Venezia]

Verso la seconda metà degli anni Settanta, quando l'archeologia medievale muoveva i primi passi anche da noi, il tema del rapporto tra archeologia e restauro divenne di prepotente attualità. Non che il problema fosse assente in precedenza. Tuttavia una pratica poco interessata a difendere i valori squisitamente archeologici delle epoche postclassiche riduceva il rapporto con il restauro, che rimaneva quasi esclusivamente confinato ad una operazione finale da estrinsecarsi, con rare eccezioni (ma presenti), su ruderi. Non vi è dubbio, dunque, che l'estensione cronologica dei soggetti da sottoporre ad attenzione archeologica (e dunque a tutela) anche ai beni medievali (e oserei aggiungere postmedievali) comportasse di necessità una riconsiderazione teorico-metodologica che coinvolgeva, nella sua totalità, le procedure del restauro. Non si trattava più, infatti, di decidere il ruolo che competeva all'archeologia su pochi ed isolati contesti monumentali, quanto di estendere tale pratica ad un'innumerevole casistica di complessi; l'archeologia dunque entrava, o si presupponeva dovesse entrare, nell'operare quasi quotidiano su ogni centro storico.

Correttamente, e non in modo poi così scontato, il problema venne fin dagli inizi impostato su due livelli. Il primo livello riguardava il ruolo che l'indagine archeologica doveva svolgere in occasione del restauro di un monumento storico (in modo da stabilire, nella sostanza, i meccanismi di interrelazione tra i diversi operatori che lavoravano sullo stesso contesto). Il secondo livello di impostazione cercava di definire i campi dell'azione archeologica, non essendo automatico che questa venisse ad interferire esclusivamente con i bacini sepolti. Questo secondo aspetto non era così ovvio come oggi può sembrare; e si rendeva possibile proprio grazie ad una inedita sperimentazione che alcuni tra i primi archeologi medievisti andavano mettendo in pratica negli stessi anni sugli elevati (e che darà vita a quella stagione di ricerche sull'archeologia del sopravvissuto che costituisce una tra le pagine più originali della nostra storia archeologica).

Introdurre l'archeologia in maniera organica nel restauro significava poi far intervenire procedure di analisi nuove in un protocollo molto ben codificato e comunque appannaggio di un'altra categoria di ricercatori, cioè gli architetti (da sempre chiamati in causa anche quando, più tradizionalmente, di restauro di monumenti antichi si trattava). Parlare di restauro dei monumenti voleva dire anche discutere, in maniera più ampia, di archeologia della città, dal momento che l'intervento sui singoli contesti architettonici finiva per costituire una frazione di una disegno più ampio che, nella sua totalità, finiva col coincidere con lo spazio della città storica. Architetti ed urbanisti furono dunque i primi interlocutori; ma naturalmente non mancarono di far sentire la loro voce anche storici dell'arte, geografi e storici tout court.

Per chi è interessato alla storia di questo dibattito ci sono almeno un paio di esiti da ricordare: il primo è il convegno organizzato dalla neonata rivista "Archeologia Medievale" a Rapallo nel 1978 ("Archeologia e pianificazione dei centri abitati") e pubblicato l'anno seguente; il secondo una giornata di studio tenuta a Siena nel 1987 ("Archeologia e restauro dei monumenti"). Naturalmente la discussione venne spostata anche in altre sedi e non solo archeologiche (basti pensare allo spazio che a queste tematiche è stato dedicato negli annuali convegni di architettura che si tengono a Bressanone).

Parlare oggi di restauro e di archeologia, dunque, significa discutere di un rapporto che, nelle sue linee essenziali, dovrebbe essere sufficientemente chiaro e condiviso. L'indagine archeologica sui bacini sepolti costituisce un passaggio obbligato perché ci consente di sfruttare un'occasione di conoscenza irripetibile: recuperare dati fondamentali sul monumento che si sta restaurando (ed anche, in molti casi, sulle situazioni anteriori) e che altrimenti andrebbero perduti. In questo senso l'indagine, che deve essere preventiva o, al massimo, contestuale, mette a disposizione dell'architetto restauratore scenari talvolta nuovi ed imprevisti, ma di cui si può e si deve tener conto. L'obbiettivo è creare una costante tensione dialettica che allontani il restauro da asettiche scelte a priori, per calare le decisioni conservative in un quadro di esperienze e conoscenze storicamente certificato.

Naturalmente la crescita a livello teorico e metodologico nello studio degli alzati, riconoscendo valori archeologici anche alle murature esistenti nei monumenti storici (e di conseguenza imponendo procedure adeguate), non solo amplifica la gamma dei bacini da analizzare, ma potenzia lo spettro delle nostre conoscenze. Anche in questo caso sarà tuttavia opportuno spiegarci, onde evitare fraintendimenti (e ce ne sono stati), soprattutto tra le file di alcuni architetti e di qualche archeologo. L'analisi stratigrafica degli alzati non è una procedura nuova sul piano empirico, dal momento che da sempre gli studiosi hanno cercato di interpretare la storia architettonica (e dunque cronologica) del monumento che stavano studiando attraverso quei segni che erano in grado di riconoscere sull'edificio stesso; e naturalmente, ancora a livello empirico, interpretazioni molto buone e attendibili di complessi storici sono state proposte nel passato. L'elemento di novità, affatto banale, è la codifica dell'applicazione di certi principi secondo determinate procedure (un po' come è successo per lo scavo archeologico); questo non solo ha prodotto un'omogeneità di comportamenti d'analisi (favorendo dunque il confronto e la comparazione), ma ha, come nello scavo, innescato salutari processi di elaborazione teorica e metodologica, facendo avanzare di molto lo studio dei caratteri tipologici (si veda ad esempio tutto il problema della cronotipologia relativa ed assoluta applicata ai contesti architettonici) e delle tecniche costruttive dei monumenti (dall'analisi mensio-cronologica dei mattoni, allo studio delle variazioni dimensionali del costruito in pietra e via discorrendo).

Che tali concetti siano sufficientemente diffusi e condivisi, non significa affatto che siano anche praticati. Non di rado, infatti, l'indagine archeologica, quando prevista, si limita ai bacini sepolti; oppure costituisce un'appendice realizzata a fine lavori; oppure ancora un intervento i cui risultati non servono affatto al progetto di restauro, spesso già elaborato prima di conoscere a fondo un monumento. Anche se può apparire ovvio, non sarà inopportuno ribadire ancora una volta come proprio il momento del restauro di un monumento storico costituisca un'occasione unica ed irrinunciabile di conoscenza; e come la conoscenza, a sua volta, sia di indispensabile aiuto per la formulazione di un coerente e credibile progetto di restauro (o comunque per supportare criticamente le scelte che l'architetto-restauratore dovrà prendere). In ogni modo costituirà la base conoscitiva che potrà permettere a chiunque, alla fine del percorso restaurativo, di riandare sempre ai segni rimasti sul monumento e che, di necessità, non sarà stato sempre possibile o opportuno conservare.

Come per i bacini sepolti, anche per le stratificazioni presenti sugli alzati, l'intervento archeologico ne provoca, molto spesso, la distruzione o l'alterazione; per leggerli, di frequente, è necessario ad esempio rimuovere gli intonaci, ed anche gli intonaci a loro volta possono attestare una storia lunga e stratificata, interessante non solo per i valori formali che in qualche caso celano (come negli esempi più fortunati dei supporti dipinti), ma anche per le informazioni che ci forniscono sulla sequenza evolutiva ed architettonica del complesso che stiamo analizzando. Dimenticarci di questo significa non solo scegliere spesso arbitrariamente la fase da conservare (o i palinsesti incomprensibili da ricomporre), ma anche cancellare per sempre la conoscenza di complesse fasi costruttive e funzionali del monumento; in poche parole semplificarne la storia o addirittura interpretarla non correttamente.

Il castello di Formigine, in provincia di Modena, proprio per i suoi caratteri architettonici e per la sua storia, bene si prestava ad un'analisi di questo tipo: archeologica sui bacini sepolti, da un lato, per mettere in evidenza le sequenze nascoste soprattutto delle fasi di vita iniziali; archeologica sui bacini superstiti negli elevati, dall'altro, per ripercorrere a ritroso la storia architettonica e tecnico-costruttiva di un edificio sufficientemente rappresentativo nel quadro dell'edilizia castellana medievale e rinascimentale di questa regione. Come molti castelli tardo medievali infatti (e Formigine è sicuramente tra questi, essendo stato fondato dai modenesi nel 1201) ha visto modificare rapidamente la sua funzione; da villaggio fortificato, posto a protezione dei confini meridionali del comune di Modena, a castello-residenza signorile, soprattutto a partire dagli inizi del XV secolo, quando il complesso passò sotto il controllo dei Pio.

L'indagine archeologica, contestuale al cantiere di restauro, ha conosciuto un'estesa campagna di documentazione e studio degli elevati (tra il 1998 e il 2001), sostanzialmente completata, e una campionatura sui depositi sepolti, che dovrà proseguire nel corso dei prossimi anni. I risultati sono stati, sotto tutti gli aspetti, di grande interesse. Gli scavi stanno mettendo in luce soprattutto le fasi iniziali del castello, dalla fortificazione originaria (di cui si è rinvenuto un tratto in muratura) alla chiesa all'interno del fortilizio, con annesso cimitero. La fisionomia dell'abitato e del primitivo impianto castellano, dunque, risultano con grande evidenza attraverso le strutture e i manufatti scoperti e disegnano un quadro insediativo del tutto sconosciuto per questi primi periodi. Lo studio degli elevati, invece, sta permettendo di fare chiarezza sugli sviluppi del castello dopo il Duecento: dalle prime fasi trecentesche di ristrutturazione (tra cui la cosiddetta Torre dell'Orologio, finalmente databile con una certa precisione, e il fossato interno), ai rifacimenti dei primi del XV secolo, fino ai restauri di epoca moderna. Queste analisi peraltro ci permettono di scomporre anche gli interventi, fortemente mimetici, che il monumento ha conosciuto soprattutto negli ultimi due secoli.

Al di là dei risultati specifici però - di notevole rilievo anche rapportati alle conoscenze sugli sviluppo castellani di quest'area - il progetto archeologico di Formigine costituisce un avanzato modello di sperimentazione (e non solo per quanto concerne alcuni aspetti dell'indagine sul contesto materiale, come ad esempio quella degli intonaci). Una sperimentazione soprattutto di rapporti, tra i progettisti, l'amministrazione comunale e la struttura universitaria, chiamata in questo caso ad interagire anche con i tempi, non sempre prevedibili, del restauro e del recupero architettonico. Credo che, come in questo caso, gli istituti universitari (e non solo loro, naturalmente), debbano rispondere positivamente alle richieste sempre più cogenti delle amministrazioni locali e mettere a disposizione le proprie capacità progettuali, le proprie competenze e le proprie risorse al servizio anche di progetti non necessariamente di pura ricerca (ma esiste poi una ricerca pura nel nostro settore di studi?). Sarebbe questo un modo anche per non abdicare del tutto ad una funzione sociale che le università dovrebbero svolgere non solo nel settore della formazione specialistica.

 

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