Rivista "IBC" IX, 2001, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne, storie e personaggi
È partita dalla Reggia di Colorno (1 settembre - 25 novembre) la rassegna monumentale su Giovanni Lanfranco, che per illustrare le diverse tappe della vicenda artistica del pittore proseguirà a Napoli in Castel Sant'Elmo (14 dicembre - 24 febbraio) e a Roma in Palazzo Venezia (15 marzo - 2 giugno). Sono più di cento le opere presentate, dipinti e disegni scelti da Erich Schleier, massimo esperto dell'argomento, ideatore dell'esposizione diretta da Lucia Fornari Schianchi e organizzata nelle sale, molte di recente apertura, della reggia settecentesca.1
Pittore "d'ombra e di luce tra la terra e il cielo", "il primo a dilucidare l'apertura di una gloria celeste con la viva espressione di un immenso luminoso splendore", Giovanni Lanfranco (Parma, 1582 - Roma, 1647) fu, ad ogni effetto, protagonista assoluto del passaggio dal caravaggismo alla fase iniziale della pittura barocca, profondamente trasformata dall'immissione di valori figurativi emiliani. La verità degli affetti e il moderno "sentire" di matrice bolognese, la mutevolezza del lume e i sottinsù scorciati di derivazione correggesca, furono le espressioni di quella tradizione condotta dall'artista ai trionfi della capitale. Qui Lanfranco era giunto dalla nativa Parma nel 1602, alla morte del suo primo maestro, Agostino Carracci, cui lo aveva affidato il conte Orazio Scotti di Piacenza, ammirato dalla non comune precocità del suo giovane paggio nelle arti del disegno. Fu il committente di Agostino, il duca Ranuccio, a inviare a Roma Lanfranco insieme al conterraneo Badalocchio, con il compito, privilegiato, di esordire al fianco di Annibale Carracci nella decorazione della Galleria Farnese per il cardinale Odoardo. Intruppato nella schiera prestigiosa dei collaboratori del celebre pittore, Giovanni operò in numerose imprese: per il cardinal Sannesi, per Scipione Borghese, collaborando con Guido Reni, altra autorevole presenza nel panorama artistico romano.
Ma è a partire dal 1612, data del rientro a Roma dopo un soggiorno di due anni nel ducato (1610), conseguito alla morte di Annibale Carracci, che si scalano le opere di maggiore impegno. Rafforzate l'ispirazione correggesca e l'attenzione per il colorismo neoveneto delle tele emiliane del Carracci, meditata l'invenzione gestuale ed espressiva di Ludovico, è da ritenere che Lanfranco mise a frutto questo periodo di maturazione intensa con viaggi e spostamenti per tutta l'area padana, fino a saldare altri e più sottili elementi all'esperienza centroitaliana. Lo si scorge nelle pale piacentine prodotte intorno al 1611 - La Vergine di Reggio (Napoli, Gallerie nazionali di Capodimonte), il San Luca e l'Angelo (Piacenza, Collegio dei Notai, ora Musei civici) - dove l'irrobustimento delle forme sottolineate da tonalità accese di matrice schedoniana preannuncia il cedimento a cangiantismi messi a punto col ritorno a Roma. Datano a questi anni, di più vivace dissidio tra il classicismo dei Carracci e il naturalismo di Caravaggio, chiari omaggi al luminismo del Merisi e del Borgianni. Nonostante il registro bolognese evidente nella sua produzione e a differenza dell'antagonista Domenichino, Lanfranco fu sensibile alla corrente naturalista, tanto che le sue opere, dal secondo decennio, costituiscono un parallelo alle magiche atmosfere e ai chiaroscuri dei caravaggeschi "nobilitati": da Gentileschi a Turchi, da Hontorst a Saraceni. È questo il caso della tela, straordinaria, con Sant'Agata visitata in carcere da San Pietro (Parma, Galleria Nazionale, 1613-1614), che per l'ardito controluce ha indotto la critica (Schleier) a ravvisare esiti "paracaravaggeschi"; gli ampi panneggi, poi, anticipando Vouet, confermano l'autorevolezza del maestro nel dibattito artistico romano. Proprio l'abilità nel procedere su più binari combinando stili diversi costituì la sigla di questo artista prolificissimo, riconosciuta dagli studiosi ma nondimeno dai suoi contemporanei. Fu la "prestezza del pennello", tanto celebrata, ad assicurare a Lanfranco commissioni importanti: dagli affreschi in palazzo Mattei ai dipinti per il cardinal Montalto - splendido l'ovale con Giuda e Tamar (Roma, Galleria Corsini, 1616 circa), dove vivo è il ricordo del classicismo florido di Annibale Carracci - allo scorciato, arditissimo, dell'Assunzione di Maria Maddalena (Napoli, Gallerie nazionali di Capodimonte, 1617) per il Camerino degli Eremiti contiguo al palazzetto Farnese, modernissimo per la concezione spaziale del paesaggio, nel cui genere il pittore fu maestro, visto in questo caso da una prospettiva rialzata così nuova da anticipare Dughet. Altre importanti innovazioni si leggono, del resto, nella sua produzione, come nel caso della Santa Margherita da Cortona (Firenze, Galleria di Palazzo Pitti, 1622), il cui abbandono parve al Burckhardt la prima fonte per l'ispirazione dell'Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini.
Ma non soltanto nel genere su tela l'autorità del linguaggio di Lanfranco determinò un'egemonia sulla scena artistica romana: altre innovazioni interessarono l'affresco inaugurando la stagione trionfante dell'illusionismo barocco con una serie di cupole di ispirazione correggesca. Prima fra tutte l'Assunzione della Vergine sulla volta della cappella Bongiovanni in Sant'Agostino (1615) e finalmente - dopo cicli pittorici di grande impegno al Quirinale, con Tassi e Saraceni, in San Giovanni dei Fiorentini (1624), in San Paolo fuori le Mura e al piano nobile del Casino Borghese (1624) - la commissione più prestigiosa della sua carriera: la cupola di Sant'Andrea della Valle (1628), dove Domenichino aveva decorato i pennacchi. Capolavoro dell'artista parmense, il grandioso impianto decorativo sembra portare a compimento i vortici luminosi dell'illusionismo correggesco, in direzione di una dinamica barocca in anticipo sulla volta Barberini.
Di lì a pochi anni, nel 1634, le prove "mirabili" affrontate nel genere dell'affresco condussero fino a Napoli il Lanfranco, che in competizione con Domenichino, nell'arco del suo soggiorno durato tredici anni, avviò un rinnovamento di fortissimo ascendente sui pittori del periodo successivo: da Giordano a Mattia Preti a Solimena. Cicli pittorici di vastità inimmaginabile segnano questa fase e svolgono la lezione del Correggio nelle cupole del Gesù Nuovo, della cappella del Tesoro in Duomo, della Certosa di San Martino (1637) e nella distesa, impressionante, della volta dei Santi Apostoli (1638), l'impresa di maggiore impegno per il pittore, che nondimeno riuscì ad eseguire, in quegli stessi anni (1638 - 1639), sei scene di storia romana per il palazzo del Buen Retiro a Madrid.
Tornato a Roma (1646), all'avanguardia dei tempi, lasciò l'ultima grande opera negli affreschi della tribuna di San Carlo ai Catinari, che lasciò incompiuti per il sopraggiungere della morte (1647).
Note
(1) Catalogo: Giovanni Lanfranco. Un pittore barocco tra Parma, Roma e Napoli, a cura di E. Schleier, Milano, Electa, 2001.
Azioni sul documento