Rivista "IBC" IX, 2001, 3

territorio e beni architettonici-ambientali / convegni e seminari

Acque per una città sostenibile

Stefano Pezzoli
[IBC]

Nello scorso mese di marzo si è tenuto a Modena un convegno promosso dall'Agenzia nazionale per l'ambiente e dall'ufficio Ricerche e documentazione sulla storia urbana del Comune di Modena, dal titolo "Le città sostenibili. Storia, natura e ambiente. Un percorso di ricerca". L'evento ha costituito un'interessante occasione d'incontro e di scambio culturale fra storici, naturalisti e tecnici addetti alla pianificazione urbana e territoriale. Questo articolo mira a riassumere gli interventi introduttivi, chiedendosi come la conoscenza della vicenda storica possa fungere da asse interpretativo delle problematiche ambientali per poi soffermarsi su uno dei grandi temi che riguardano il rapporto fra natura e spazio insediato: le acque e la città.

Lo storico Piero Bevilacqua, dell'Università La Sapienza di Roma, ha ricordato come la storia offra la possibilità di una conoscenza genetica dei problemi del nostro tempo, che non sono isolabili in un presente senza cause, ma vanno collocati in un quadro prospettico. Così la città, la più artificiale delle creazioni umane, rivela sempre di essere un habitat speciale fatto di natura trasformata, costruita dalle origini e per moltissimo tempo con le risorse disponibili nel suo territorio, e quindi sintesi di natura e storia. È dalla città che, in modo accelerato dal secondo dopoguerra, è partita un'aggressione particolarmente violenta agli equilibri del territorio non solo in chiave di modificazione strutturale e di inquinamento, ma per lo stesso modello economico di sviluppo che ha messo in crisi la stabilità dell'ambiente.

Oggi, recuperando in senso metaforico l'assunto di Cattaneo secondo cui l'agricoltura nacque dalla città, occorre che amministratori, intellettuali, organizzatori culturali e ambientalisti si attivino per un progetto di salvaguardia della natura storica che è nella città e nel territorio circostante; un processo più che mai possibile perché la crescita onnivora della città dovrebbe ragionevolmente placarsi con il rallentamento della crescita demografica e con la deindustrializzazione che tende a dismettere i grandi spazi delle fabbriche. Anche se molti amministratori non se ne accorgono sta venendo meno la ragione di un utilizzo direttamente produttivo, strumentale ed economicistico del territorio.

Pertanto è dalla città che bisogna partire, rendendola vivibile alle persone, ritrovandone il valore usurato della bellezza, un valore che si riconquista se i cittadini vengono poi messi in condizione di fruirne. Un circolo virtuoso che non implica solo il restauro dei monumenti e la riqualificazione dei luoghi della cultura, ma significa soprattutto riacquistare spazi ora divorati dalle automobili e dal rumore, soddisfare bisogni paradossalmente elementari: passeggiare, respirare aria meno inquinata, vedere i colori del cielo, godere del sole e del verde.

Per gli stessi motivi occorre aver cura di risorse sempre più difficilmente riproducibili, come, per fare un esempio assai importante, l'acqua. Si tratta di un elemento che lega fortemente la città al territorio tramite gli acquedotti, e proprio dalla attività economica più naturale, l'agricoltura, viene una minaccia alla qualità dell'acqua da bere, dalle falde inquinate dai prodotti chimici. E ancora l'acqua si manifesta come fonte di rovina per le sempre più frequenti alluvioni che ci fanno ogni volta scoprire la fragilità del nostro territorio. Perciò la città, per proteggere sé stessa, deve farsi carico della cura di un territorio più ampio.

Enrico Guidoni, storico dell'urbanistica presso l'Università La Sapienza di Roma, ha rievocato una sostenibilità che per migliaia d'anni, e a tutte le scale d'insediamento, è stata garantita ai centri abitati dall'attività agricola dei territori di loro pertinenza e dalla pratica degli scambi e dalle attività produttive svolte in seno alla città stessa. Poi, con la rivoluzione industriale, tutti questi equilibri sono saltati, ed oggi non esiste più una sostenibilità locale, nemmeno per gli insediamenti più piccoli. Ritornando al passato Guidoni ha rilevato come ogni città possedesse un territorio ad essa assoggettato, limitato da rigidi confini che garantivano uno sfruttamento tutto devoluto al capoluogo. E la testimonianza di questa organizzazione, relativa soprattutto all'età medievale e preindustriale, si ritrova tutta nell'archivio della comunità egemone, cosa che consente di recuperare la dimensione storica in perfetta sintonia con l'ordinamento delle fonti. Gli statuti cittadini sono fonti dettagliatissime per conoscere tutti gli aspetti della vita territoriale urbana e la vita sociale: fin dalle origini si occuparono del controllo dell'ambiente e delle risorse necessarie alla sopravvivenza della comunità. Fondamentale era il controllo delle acque correnti, non solo per l'alimentazione, ma anche per l'irrigazione, la produzione, la navigazione, la pulizia e la difesa delle mura urbane. Protetto era pure il bosco di pertinenza della comunità, per l'approvvigionamento del legno da costruzione, attentamente sorvegliato per evitare sottrazioni e danni. E protezione particolare era riservata all'area urbana più rappresentativa: la piazza comunale e le vie ad essa circostanti.

Queste normative quasi maniacali sono scomparse da secoli lasciando un vuoto che non è stato più colmato, spesso con gravi danni ambientali. Le conclusioni di Guidoni invitano pertanto a rileggere la storia delle comunità in un momento in cui la protezione del territorio avviene per strumenti centralizzati, quali i piani paesistici, che non tengono conto delle storie locali minori. Allora i piani di sviluppo e quelli di protezione a scala regionale dovranno anche avere una compatibilità e una articolazione per comunità, per trovare un sostegno più condiviso, fatto di storia, di immagine e di gratificazione, idoneo a valorizzare meglio il patrimonio storico.

La sessione del convegno dedicata al tema delle acque come sistema che viene a relazionare la città con l'ambiente naturale è stato aperto dall'intervento di Marina Foschi dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, che ha posto l'accento sulla caratteristica ambientale storica del nostro territorio: un contesto che porta visibili segni di una presenza millenaria dell'acqua, l'elemento che ha inciso con maggior forza sulle trasformazioni ambientali, dell'economia e della società stessa. La terra di questa regione è stata modellata dal deflusso delle acque dei fiumi appenninici e la regimazione idraulica è stato uno dei temi e dei problemi preponderanti per la società regionale; la stessa economia ha largamente fruito dell'energia di derivazione idraulica; così anche i trasporti si sono per secoli avvalsi di un'ampia rete di canalizzazioni che collegava le città della via Emilia all'asta del Po. E ciascuna città presenta nella sua conformazione uno stretto rapporto coi corsi d'acqua preesistenti o con i canali artificiali; quindi si può affermare che ogni città è qui a rappresentare l'esito di una pressante relazione fra terra e acqua.

A dimostrazione di questa correlazione storica l'IBC ha svolto un ruolo di organizzatore di ricerca, promuovendo e collaborando a diverse iniziative di studio relative a diversi centri urbani della nostra regione. Marina Foschi ha poi sottolineato l'importanza della documentazione cartografica storica ai fini della ricerca sul sistema delle acque regionali, ricordando che alcune di queste fonti sono state acquisite dal Piano territoriale paesistico regionale e sono state inserite nella normativa che indicava una metodologia per la perimetrazione dei centri storici. Di seguito ha illustrato le principali serie documentarie riprodotte o pubblicate a cura dell'Istituto e pertanto rese disponibili a pianificatori e studiosi del territorio, mettendone in luce le potenzialità derivanti dal sistematico riscontro effettuabile con la cartografia tecnica odierna. E sul tema delle acque ha rilevato la capacità analizzativa di dette topografie per interpretare la funzionalità della rete idrica nel primo Ottocento.

Lo scrivente ha messo poi in luce gli aspetti caratterizzanti dell'esposizione "Bologna e l'invenzione delle acque. Saperi, arti e produzione tra Cinquecento e Ottocento", mostra dal titolo apparentemente paradossale che voleva richiamare la vicenda territoriale, economica e sociale di una città che per secoli ha sapientemente sfruttato il corso delle acque artificialmente indotte dai fiumi limitrofi, ottenendo approvvigionamento per le attività artigianali e industriali, per la navigazione ed i commerci. Senza trascurare la dimensione culturale della storia delle acque bolognesi, che per il problema del loro deflusso a valle propiziarono l'evoluzione degli studi idraulici e contemporaneamente lasciarono una traccia che influì nella stessa vicenda dello sviluppo urbano, sugli organismi istituzionali e nella dimensione della vita collettiva. L'intervento ha poi ricordato il progetto complessivo prospettato dall'IBC a tutte le istituzioni pubbliche con competenze territoriali, progetto che mira a coinvolgere le capacità di ciascun soggetto nel recupero e nella valorizzazione del sistema idraulico storico per indirizzarlo a trasformarsi in una percorrenza riqualificata, che sia tramite e comunicazione tra città, periferia e campagna: fra monumenti, manufatti idraulici, parchi e aree verdi, per riconsegnare identità a luoghi ora decontestualizzati.

Ha fatto seguito la relazione di Marco Cattini dell'Università "Bocconi" di Milano, incentrata sui vincoli ambientali imposti dalla presenza delle acque nello sviluppo urbano e industriale di Modena fra il secondo Ottocento e il primo Novecento. C'è un fascio di canalizzazioni proveniente da sud che penetra la città ed alimenta la forza motrice di diversi mulini per poi unificarsi nel canale Naviglio diretto al Panaro. Negli anni Venti dell'Ottocento viene costruita la nuova darsena e di lì a poco (1859), sempre a nord, arriva la nuova ferrovia: quest'ultimo posizionamento è condizionato dalla fascia delle risorgive che avvolge ad est e a sud l'organismo urbano, e che mantiene umido il terreno e sconsiglia l'impianto della via ferrata. E così ferrovia e via d'acqua si ritrovano strettamente collegate in un'unica area di scalo commerciale. Da qui, dove erano già allocati i primi insediamenti industriali, si viene a sviluppare un polo che sfrutta dapprima i bassi costi del trasporto per acqua, poi la sinergia di questo col sistema ferroviario, e infine, col precipitare della competitività del Naviglio (causata anche dal depauperamento idrico provocato da una agricoltura sempre più sviluppata), è quasi del tutto rivolto al tramite della strada ferrata. Come accade pure i nuovi insediamenti abitativi, che per gli stessi motivi dei limiti imposti dai terreni umidi e costipati trovano una più favorevole espansione ad est (del resto da questa parte, intorno al 1670, per la stessa imposizione naturale, era stato pensato un allargamento della città).

Di approvvigionamento di acqua potabile in città ha parlato Stefania Barca, dell'Istituto universitario orientale di Napoli, una metropoli che alla metà dell'Ottocento è la più popolata d'Italia, è sovraffollata e in disastrose condizioni igieniche. Per Napoli appunto, ma questo vale sempre, necessità di risanamento e d'espansione non possono fare a meno d'interagire con le risorse ed i vincoli dell'ecosistema. La questione idrica è dunque centrale nel processo di trasformazione e di modernizzazione. Napoli all'epoca aveva due acquedotti, quello d'impianto romano, la Bolla, e quello seicentesco, il Carmignano. La relazione ha messo in luce l'incapacità progettuale di risanare gli antichi condotti e l'imprevidenza di perseguire a tutti i costi e precipitosamente, in una logica di ricerca dell'abbondanza, una soluzione che assecondasse necessariamente un'espansione urbana su aree collinari (e quindi più difficilmente raggiungibili dall'erogazione). Così nel 1885 si scelse la via di un nuovo acquedotto che ben presto per cattiva amministrazione (mancanza di controllo sugli sprechi e gli usi impropri) si rivelò insufficiente, e la stessa logica di accettazione dello spreco inficiò in seguito le integrazioni portate da nuovi condotti. Così ancora oggi il fabbisogno idrico è insoddisfatto e si deve attingere con prelievi in falda.

Ha concluso la giornata l'intervento di Pietro Laureano del Politecnico di Bari, che ha rilevato come il tema della sostenibilità riguardi la stessa vivibilità sul pianeta (un miliardo di persone non dispone normalmente di acqua potabile) e che quindi la pura conservazione dei beni culturali ed ambientali un giorno potrebbe risultare del tutto vana. C'è la necessità di un nuovo modello a cui abituarsi e che deve anche fungere da esempio per quei paesi ormai obbligati a scelte drastiche per sopravvivere. Laureano ha descritto il caso di Harar, città antichissima dell'Etiopia orientale, un tempo fiorente per i commerci e ricca d'acqua per via dell'organizzazione delle corporazioni cittadine, che sapevano sfruttare il breve periodo delle piogge per alimentare artificialmente mediante condotti la falda sottostante. Venuta meno questa gestione con l'accettazione di un altro modello di sviluppo la città ha perduto la sua risorsa idrica ed ora rischia la scomparsa fisica nonostante la protezione dell'UNESCO e della Banca Mondiale: quello che la teneva in vita era un microsistema che non può essere sostituito con altri apporti. Una lezione ed un invito a saper gestire al meglio le risorse locali.

 

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