Rivista "IBC" IX, 2001, 2
territorio e beni architettonici-ambientali / interventi
Questa è una piccola storia che quasi nessuno conosce. Giovannino Guareschi, che vive a Milano e qui lavora come impaginatore, vignettista e giornalista de "Il Bertoldo", continua a redigere quello che considererà sempre il suo primo giornale: "Bazar", un numero unico satirico-umoristico stampato a Parma, da lui fondato, diretto, scritto e disegnato per ben otto numeri. Nel 1937 chiede ad un gruppo di amici di scrivere un pezzo sulla sua città: Parma. Chiamerà a raccolta la redazione del "Bertoldo": Mosca, Merz, Marchesi, Steinberg. Ultimo, ma non ultimo, Cesare Zavattini, che aveva abitato a Parma quasi sette anni, e in quel periodo, nel 1925, era stato il suo istitutore al liceo Maria Luigia e sarà proprio lui, Zavattini, conoscendo il grande talento umoristico di Guareschi, a portarlo nella redazione del "Bertoldo". Za invece di scrivere il suo pezzo disegna una mappa, il centro della città, con le vie laterali che intersecano piazza Garibaldi. A fianco del disegno scrive alcune note che riportiamo:
Pianta di Parma di ZavattiniCielo di Parma = 1930, lo guardavo di nascosto e mormoravo: ho sete d'infinito. Presi il treno e mi fermai dove sono ancora oggi, a 110 km.
Borgo Tommasini: Abitazione del mio sarto, circondato da angeli e cherubini.
Via Cavour: La vetrina dell'ortopedico davanti alla quale feci i migliori sogni della mia giovinezza.
Via Cavour: Il caffè davanti al quale (1925) passavo arrossendo. Nel 1926 osai entrarvi. Nel 1927 i camerieri mi diedero del tu. Nel 1928-29-30 sottraevo insieme a R.M. i giornali del mattino e l'Illustrazione Italiana.
Via Mazzini: 1929, abitai qui, secondo piano. Non solo manca la lapide ma il proprietario assicura che gli devo ancora 125 lire.
Via Mazzini: In questo tratto raccoglievo le famose violette di Parma.
Cassa di Risparmio: dove fallì il colpo nel 1928.
Corso Vittorio Emanuele: Pasticceria dei nobili, dove soffersi molto vedendo che mangiavano le paste molto più educatamente di me.
I merli del Palazzo del municipio: I merli intorno ai quali rimasi (1926) molte notti. Io ero per i merli gufo.
Strada Farini. Il punto dove conobbi Montacchini.
Questo disegno non è più una mappa, diventa una geografia del cuore, una
toponomastica dell'anima. Un angolo di strada segna per Za la lapide di un
incontro amoroso, una via il luogo dell'amicizia, il negozio del sarto un
posto paradisiaco, dove poter sfoggiare, allora povero in canna, un'eleganza
ricercata di camicie d'organza. Anche la banca è un posto di sogni proibiti;
via Mazzini, invece, dove poter cogliere il miglior fiore femminile della
città.
Come un viaggiatore del Settecento sognava il grand tour nelle città d'arte dell'Italia, tra capolavori e rovine, così ho riprovato a camminare nelle strade che Za ha disegnato, che oggi sono ancora le mie strade, che sono il teatro della mia vita e quella dei miei concittadini e dei turisti che l'attraversano. La differenza è proprio qui: la mia città l'attraverso quotidianamente. Non l'abbandono dopo tre giorni o un fine settimana. È il teatro della mia vita quotidiana, degli incontri, delle conoscenze, dei momenti felici e dolorosi della mia vita.
Fare il turista nella propria città non basta per riscoprire uno scorcio. Con una mia amica venezuelana ho attraversato via Cavour all'incrocio con via del Duomo. Quando girammo verso la piazza duecentesca, con il battistero di marmo rosa appena restaurato, lei si fermò rapita da tanta bellezza. L'abitudine ammazza lo stupore, pensai in quel momento. Ogni volta che passo di lì cerco sempre lo sguardo vergine di lei, lo stupore della bellezza improvvisa che incanta.
E ho imparato anche a guardarle le architetture. A Strasburgo camminavo con Paolo Fabbri in piazza, proprio davanti alla cattedrale. Lì la piazza è strettissima, piccola, come soffocata di fronte all'imponente cattedrale. Non ammette panoramiche, grandiosità viste di fronte. La piazza ti costringe ad alzare lo sguardo, a guardare il cielo. È quella la verità di quell'architettura gotica. La piazza piccola ti obbliga ad alzare lo sguardo, e rimani lì ondeggiando, con la faccia a specchiarsi nelle nuvole.
Ecco perché fare il turista nella propria città non basta a riscoprirla. È stato quel disegno a farmi riflettere che, in verità, l'immagine che ho della mia città altro non è che lo specchio del teatro della mia anima. Quel disegno mi ha insegnato uno sguardo non fuori, ma dentro di me. Penso a Pavese, alla sua Torino, ai suoi "alberi inutili" perché non gli dicono nulla. Gli alberi che lui vede non fanno parte della sua anima. Il mondo diviene estraneo e indifferente, e allora il teatro in cui si cammina sono quinte che non dicono più niente, fanno parte di un altro spettacolo. Sono fondali senza significato. Potrebbero essere altre strade, altri palazzi, altri viali a fare da cornice alla propria vita. Non succede così quando si è costretti a vivere in un'altra città che non ci "appartiene". Quel disegno di Za mi obbliga proprio a riflettere sull'appartenenza ad un luogo. Quando cammino nelle periferie di Parma è come se camminassi in qualunque periferia. Anche i nomi delle vie sono gli stessi, come se le strade fossero, con quei nomi, il segno di una identità comune di storia e di vicende da noi lontane.
Non basta guardare, attraversare o viverci in un luogo. Nei luoghi bisogna
lasciare un segno, come fanno i cani. Anche loro tracciano sentieri immaginari,
territori invisibili ai più, ma reali e profondi per chi li sa riconoscere come
tali.
Ci sono due colonnotti, sotto i portici del Comune, davanti alla fermata dell'autobus, dove mi davo appuntamento con una ragazza che ho amato da ragazzino. Quei due colonnotti sono il segno di un amore mancato, di un amore sognato e sofferto in gioventù. Ancora oggi è un luogo amato dai giovani per darsi appuntamento. Come per me anche per altri ragazzi quel luogo (insignificante ai più) è un luogo importante della mia anima. Anche la pisciatina di un cane proprio lì mi fa sorridere in certi giorni, quando ci passo davanti.
Ho imparato dagli scritti di Roberto Tassi a capire quanto fosse importante per la mia vita di uomo e di scrittore la quinta del battistero dell'Antelami. La solida elegante compostezza dell'ottagono mi ricorda che lo stile è tutto, che in un luogo come la pianura, dove la nebbia cancella il mondo ad appena una decina di metri davanti a te, la solidità della pietra dell'Antelami è veramente un monito contro la morte. E lo zooforo che cinge il Battistero, non è solo una scritta apotropaica contro il maligno, è il segno della follia del male, è il segno del deviato, del mostruoso nelle forme tra uomo e animale. È la follia visionaria che ammala chi vive tra le nebbie.
Ecco perché quella piazza non è solo il centro della mia città. È anche il cuore e la prima radice del mio lavoro di scrittore. Lì c'è la tradizione del sanguigno e del realismo del Correggio e di scrittori come Guido Cavani e di Giuseppe Raimondi, di Bevilacqua e di Bacchelli, di scrittori che hanno raccontato la terra, nella sua cruda povertà; e poi c'è lo zooforo che s'incarna nelle voluttuose forme del Parmigianino, per raggiungere il fantastico nei voli di cavalli alati dell'Ariosto o nelle bizzarrie linguistiche del Folengo, giù giù fino a Zavattini e Fellini. Solo adesso capisco perché il pittore Remo Gaibazzi passava interi pomeriggi seduto sul cordolo del battistero. Lì si sentiva veramente a casa. Stare lì era come vincere il tempo. Davvero gli anni lì non contavano più nulla. Si sentiva in armonia con sé stesso e col mondo. Il teatro della piazza allora altro non è che un luogo primo dell'anima, la prima radice, il luogo dove veramente un'identità pulsa, dove il sangue s'innerva nelle periferie. Solo se si capisce questo si può dire "sì, sono di Parma", senza fare della retorica o definire solo un'appartenenza geografica. Vuol dire possedere l'immagine di un'identità che è singola e collettiva insieme.
Lo spazio urbano, lo spazio architettonico di una città non è solo il teatro
della nostra vita quotidiana, e non è solo l'immagine della nostra anima, è
anche un luogo in cui si comincia a pensare e a soffrire, ad amare e a
sorridere. Uno spazio urbano è un luogo dell'anima e un luogo dell'identità,
è un luogo del pensare e del vivere socialmente nel vero senso della parola,
come ho cercato di raccontare attraverso la mia esperienza di scrittore. Io mi
chiedo se gli architetti non ci pensano mai a questo. I quartieri tutti uguali
degli anni Sessanta e Settanta, che solo nella linea di un balcone o nella forma
dell'entrata lasciano il segno leggero di un'epoca, forse fa pensare in
maniera diversa.
Io cerco di capire le nuove generazioni quelle che vivono nelle periferie dell'anima che popolano le grandi città, che popolano le villette a schiera dei piccoli comuni o dei quartieri eleganti. Da pochi anni abbiamo la testimonianza di scrittori che hanno come geografia del loro cuore questi quartieri non di "centro" ma di "periferia", brutti ma efficienti. Come vivono e cosa scrivono, davvero i loro scritti sono assolutamente così vuoti? Davvero la loro scrittura è uguale per tutti, omologata come i colori delle facciate, come le forme dei loro palazzi? Come pensa la gente sradicata in questi alveari di cemento, che attraversano strade senza identità, in quartieri uguali a Trento come a Canicattì, a Londra come a Tunisi?
La città è prima di tutto un luogo del pensiero e dell'anima, sono luoghi dell'interiorità vera, come Benjamin e Baudelaire ci hanno raccontato. I quartieri e le piazze sono luoghi del pensiero e dell'identità. Allora anche una panchina in mezzo ad una piazza di autobloccanti può essere qualcosa in più. Tocca a noi non dimenticarlo ad ogni passo che facciamo nel nostro teatro quotidiano, qualunque esso sia. E forse anche lì c'è qualcosa che vale la pena raccontare.
Azioni sul documento