Rivista "IBC" IX, 2001, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / linguaggi, interventi

Nel cerchio di Pascal

Jonathan Sisco
[redattore della rivista modenese "Energie Nuove"]

Esiste un modo abusivo di parlare? un espediente per essere il clandestino di una conversazione? Probabilmente no. Aprendo bocca non è facile contrabbandare la propria voce o anche solo nasconderla. Tuttavia c'è una situazione, in cui almeno una volta ci siamo trovati tutti e che anche questo breve articolo si trova a rappresentare, che risponde bene a quest'idea di un interlocutore non autorizzato. È quella del pubblico, dei presenti, degli uditori, di chi è abituato a farsi mettere in moto da parole altrui. Probabilmente, anzi, una delle doti più preziose di una conferenza o di un dialogo dal vivo è proprio quella di produrre istantaneamente questo coro sommesso di interlocutori clandestini, che poi prosegue, se vuole, per le proprie derive e per i propri errori.

Chi nel febbraio scorso ha preso parte all'incontro con Claudio Magris svoltosi all'Archiginnasio e organizzato dall'Istituto Gramsci di Bologna ricorderà senz'altro di aver provato una sensazione simile. L'occasione per la serata era la proiezione di un film, prodotto dalla bolognese "Movie Movie", dedicato al rapporto fra lo scrittore triestino e il suo mondo originario, quello più profondo, fra Trieste, il Piemonte e la Croazia, da dove vengono anche i suoi libri più importanti. Nella sua linearità il film, girato in digitale e con una fotografia estremamente discreta, quasi spontanea, va visto come il risultato di una pertinente intelligenza registica, intesa a filmare il parlato esplicito di Magris più che a fornirne un ritratto letterario, riuscendo soprattutto, alla fine, a ricollocare semplicemente lo scrittore dentro le sue regioni, a mostrarlo, sia in posa che con naturalezza, in alcune delle sue località natali.

Subito dopo la proiezione si è avviato invece un lungo dialogo fra Magris ed Ezio Raimondi, un dialogo che sulle prime ha tratto i suoi temi dal film ma che si è poi mutato in un vero e proprio scambio di idee, prendendo il ritmo regolare di una conversazione condotta attraverso un orizzonte problematico condiviso. Almeno a ripensarci ora l'incontro deve essersi rivelato anche più denso del previsto, tanto che, davvero, le due o trecento persone rimaste ad ascoltare per quasi due ore il colloquio assomigliavano più ad un vivace complesso silenzioso che a una semplice cornice. Per questo vale forse la pena di rimettersi nella loro prospettiva e di riprendere almeno in parte lo zigzag tematico e concettuale di quella conversazione, però non per fornirne il resoconto, bensì qualcosa di più vago, come gli appunti mentali e le reazioni spontanee di un ascoltatore qualsiasi davanti a quel dialogo. Dal punto di vista di uno spettatore emiliano è anche un modo di ricordare qualche parola di Magris e di Raimondi e per vedere se pure nella cultura della nostra regione si possano porre alcuni di quei problemi, se siano legittime certe associazioni e certi suggerimenti paralleli.


Nel ricordo le ragioni contenute in una frase tendono sempre a moltiplicarsi, quasi a espandersi per una strana paura del vuoto. Per questo le ipotesi che si raccolgono sono utili soprattutto se riescono a introdurci a un tema ampio ma poi subito a riposizionarci con precisione, se procurano una prospettiva che permette di percorrere l'insieme. Così, quando dopo aver preso a epigrafe una propria battuta ("I luoghi nascondono sempre delle grandi verità") Magris dice che "parlare dell'origine dei libri è sempre qualcosa che tocca, perché quello è anche il proprio mondo, forse addirittura il nostro mondo più intimo, quello in parte dimenticato", ecco che il gioco della comunicazione tende subito a estendersi. Lo sguardo non si posa più, come nel filmato, sullo scrittore o sulla letteratura ma passa attraverso la letteratura, vorrebbe entrare in quel taglio sottile che mette a contatto la scrittura con ciò che scrittura non è. "Ma cosa vuol dire" - continua Raimondi - "far vivere la letteratura in un mondo che non è quello della letteratura?".

In effetti, il luogo comune forse più ampio su cui negli ultimi decenni il pensiero letterario si è trovato a convergere è la necessità, tanto per gli scrittori come per i critici, di misurarsi con una percezione dei confini geografici e simbolici divenuta via via più difficile ed enigmatica. Da una parte è come se ci si trovasse disorientati, dall'altra è come se nel mondo circostante cominciassero a sorgere nuovi punti di riferimento, come se tutte le lontananze stessero per presentificarsi. "Non siamo più innocenti, non siamo più semplici parrocchiani del locale" - ha scritto il poeta irlandese Seamus Heaney - "andiamo a Parigi per Pasqua anziché far rotolare le uova a casa", eppure si continua a sentire il dovere di "cercare la continuità", di trovare "un elemento stabile" a cui appoggiare "la storia delle nostre sensibilità". È una cronaca diffusa, fatta di contrasti interiori e di distanze esterne, ma è anche una storia più concreta, fatta di vicende statali e personali, che solo in apparenza rimangono lontane dalle nostre regioni.

Il desiderio di "spostare il centro del mondo", avanzato per esempio dal romanziere kenyota Ngũgĩ wa Thiong'o, ovvero il "diritto" rivendicato da moltissimi paesi non europei "di definire sé stessi ed il loro rapporto con l'universo partendo dai propri centri", è una prospettiva tutt'altro che estranea al nostro senso attuale degli spazi naturali e umani. Se si vuole si può parlare con i sociologi di una mancanza generazionale di fondamenta comuni che creerebbe il bisogno pressante di "lealtà di tipo tribale", o di un senso più debole di "connessione" o di una schematica "compresenza", ma di fatto sono tutti segnali di un venir meno di qualcosa, del dubbio di trovarsi in un posto che non si conosce poi troppo bene. È una forza attiva nella cultura emiliano-romagnola non meno che fra i parlanti swahili. Per dirla con Carlos Fuentes, il grande romanziere messicano, a un certo momento si è cominciato a sentire che "tutti siamo eccentrici" e di colpo abbiamo cominciato a vivere "nel cerchio di Pascal, dove la circonferenza si trova dappertutto e il centro da nessuna parte".

Potrebbe già essere interessante notare come sia possibile fare interagire fra loro scrittori così distanti (dall'Irlanda, all'Africa, al Messico), accomunati dall'intuizione di una specie di sfarinamento dell'esperienza spaziale che, invertendo la prospettiva da cui siamo partiti, dalla vita di ogni giorno viene a coinvolgere la letteratura. "Ma se è vero che fra lo scrittore e il suo mondo c'è una compresenza e uno scambio durevole" - prosegue ancora Raimondi - "dove si deve cercare, nella realtà, questa relazione? e fino a dove possono spingersi, partendo da quel punto, le parole della letteratura?". La prima cosa che viene da aggiungere è che, probabilmente, se la seconda parte del Novecento ha prodotto una mitologia, questa è stata quasi certamente una mitologia spaziale, legata soprattutto alle terre e agli ambienti. Forse non a caso, allora, se si trasporta questa prospettiva nella tradizione emiliano-romagnola e si retrocede fino all'inizio del secolo, tornano alla mente per primi alcuni episodi di fallite mitologie della cultura locale, episodi che, riletti oggi, funzionano come prove in negativo di quest'eventualità.

Una delle caratteristiche del rapporto odierno che gli scrittori intrattengono con gli spazi a loro vicini è l'assoluta mancanza di enfasi espressiva. "In un racconto i luoghi sono evocati" - per riprendere ancora una battuta di Magris - "ma la loro figura sbiadisce se viene richiamata con descrizioni drastiche o enfatiche". Per questo diventa utile ricordare, come primo esempio, un'opera come le Novelle del mito del forlivese Antonio Beltramelli, perché in esse si incontrano proprio i toni enfatici di una macchina mitologica inceppata.

Scritte nei primissimi anni del Novecento, anche se raccolte definitivamente solo nel 1941, queste novelle propongono una Romagna accesa e leggendaria, dominata da spiriti occulti, come l'"Anna Perenna" o "il dio degli uomini rudi" con cui dialoga la voce del narratore, e da forze erotiche e ancestrali, le quali tuttavia agiscono come un inesorabile schermo di irrealtà, che anziché modellare la Romagna in aspetti eterni la lasciano confinata in un mondo che sembra non esistere o non essere mai esistito. Fin dall'esordio, quando il "novellatore" si richiama al "mare di Romagna, verde di smeraldi, acceso dalle rosse vele latine" affinché gli apra "il cuore delle genti", le cadenze epiche si incontrano con una materia che propone ritmi diversi. Tanto è vero che il mondo romagnolo resta chiuso, non risponde a Beltramelli. Viene meno proprio quando il discorso cerca più apertamente gli emblemi del mito, e torna sulla scena, al contrario, quando è descritto quasi di sfuggita.

Riprendendo ancora una formula di Raimondi, è come se "la moralità delle cose" dominasse il volere della scrittura. Come quando nella Nave rossa, che racconta la vicenda un po' fosca della giovane Uriana, bruciata dal marito per averlo tradito con il figlio che quest'ultimo aveva avuto in prime nozze, entrano in scena parvenze primordiali del tutto irrisolte quali "le donne del mare" che cantano "una nenia dolce" indirizzata alla morte, ovvero "alla bianca sorella che ritornava dalle tenebre, salutata dalle acque scroscianti, dai venti e dalle grandi selve oscure", mentre un semplice elenco di strumenti da pesca, incontrati lungo un molo, sparsi fra "i fuochi che accendevano i marinai", sembra ritrovare d'improvviso la meraviglia visibile del mare romagnolo: sono "lo stuolo di paranze ancorate", l'"odore di pesce", "le alte vele, gli alberi, i fasci di corde", che al tramonto "pareva uscissero a pena da l'ignoto, silenziosamente".


Tuttavia, al mito ingenuo della natura e della società, si aggiungono nella nostra tradizione anche forme diverse di "scambio e compresenza" fra la letteratura e i territori delle sue origini. Se si pensa a una figura come il bracciante Tivàr protagonista del romanzo Uomini sul delta di Corrado Govoni, bisogna sostituire ai prototipi tellurici del mondo immaginato da Beltramelli la figura di un vero eroe della terra, anzi, in senso proprio, di un eroe del terreno. Tivàr è a suo modo un campione di fisicità; nel corso della sua formazione diventa il protagonista di una lotta duplice, quella col fango e con gli elementi naturali (oggi diremmo che cerca la sua "nicchia biologica" entro l'ecosistema del delta del Po), e poi quella economica, fatta di scontri con i possidenti latifondisti.

Ma a fianco della narrazione, si inseriscono delle panoramiche dello sguardo che presentano l'ambiente secondo una prospettiva diversa:


Su tutta la squallida deserta regione del Delta si formano spesso, di primavera, meravigliosi ammassi di nuvole temporalesche: cumuli enormi di vapori bianchi, rosati, violacei, a foggia di incudini, di alberi di teste animalesche, di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci... il tutto agitato e sconvolto, malgrado l'apparente immobilità della massa, da una specie di frenetico estro creativo che dove non trasforma e riplasma, qua aggiunge elementi, là modifica, toglie e corregge particolari, dando all'insieme il disegno della più complicata, sconcertante e fantastica architettura.


Le valli del fiume cominciano ad acquisire un valore estetico; gli "spettacoli della natura", si legge poche pagine dopo, sono come "manifestazioni del bello artistico": "come l'opera di un titanico artista che avesse a sua disposizione per tradurre in atto i suoi incubi, ogni sorta dei più eterogenei materiali". Il punto di vista di Govoni, forse debole sotto il profilo letterario, introduce però una novità di non poco conto: l'ipotesi che il mondo percepito sia un insieme dotato di senso e quindi, con Raimondi, che "l'immaginazione", a volte, non possa nascere se non "da una meditazione tangibile sugli spazi della terra".

Ma uno stesso segmento spaziale tende sempre ad acquisire significati diversi. "I luoghi" - ha detto Magris - "sono come tempo rappreso; sono come i cerchi di un tronco: c'è una compresenza". È per questo che, anche per chi non si occupa di letteratura, diventa prezioso l'occhio degli scrittori, perché rende evidenti le maniere in cui le zone abitate dagli uomini si elaborano attraverso il collegamento delle generazioni e le sensibilità che mutano.

In uno dei più straordinari racconti della letteratura emiliana, per esempio, L'airone di Giorgio Bassani, lo stesso "paesaggio artistico" descritto da Govoni, il triangolo fra Pomposa, Codigoro e Gorino, cambia radicalmente di segno, da bello diventa simbolico, cede le sue componenti estetiche di "fantastica architettura" per entrare più a fondo nella coscienza di un singolo uomo. L'airone descrive nel complesso un itinerario circolare, lungo poco meno di ventiquattro ore, e rispetto al romanzo di Govoni inverte anche la prospettiva sociale: qui è un avvocato, possidente per tradizioni di famiglia, che deve misurarsi con le prime mutazioni sociali del dopoguerra, con gli scioperi e i nuovi diritti dei lavoratori. Riprendiamone brevemente la trama.

Alle quattro del mattino Edgardo Limentani si sveglia per andare a caccia. È un fatto abituale. Deve arrivare a Volano in tempo utile per farsi guidare fino alle valli e infilarsi nella botte. Inaspettatamente, però, tutto ciò che lo circonda comincia a mutare. La sua casa, i luoghi familiari della sua esistenza, mostrano qualcosa di estraneo, una faccia incomprensibile da cui scappare. Edgardo esce di casa ma da subito è come in fuga. Dovrebbe riconoscere bene quei paesi, ma le sue aspettative vengono disattese. Non c'è "nessuna luce" nel centro di Codigoro, è "tutto chiuso, tutto buio. Non un'anima": "Non sognava che di essere di là da Codigoro", dalla parte del Po Grande, vicino alla "buia massa compatta del bosco della Mesola", nelle "vuote distese della Valle Nuova". Pensava che "in valle avrebbe trovato tutto ciò di cui aveva bisogno, serenità, salute del corpo e della mente, gioia di vivere". Proprio il mondo della valle, invece, gli mostra un altro segno alieno, un indizio di condanna. È l'airone rosso, una "buffa bestia" attratta dai richiami per le anitre. L'uccello è piuttosto grosso ma "gracile", e ha fattezze quasi umane: "Il lungo collo a esse, stretto fra le scapole; le vaste ali marrone, di una pesantezza da stoffa, aperte a tirarsi sotto la pancia il maggior volume di aria possibile: sembrava non farcela a tagliare di traverso il vento".

Il gioco di identificazioni si conclude quasi subito. Nel pomeriggio, mentre a Edgardo "niente più appariva come reale", a un tratto ritorna l'airone e gli si mostra "con straordinaria, quasi insopportabile evidenza". Con un doppio sparo l'uccello viene abbattuto. Il cacciatore "credeva che fosse morto e che la cagna si sarebbe avventata a raccoglierlo. Invece no. Appena riemerso, fu pronto a drizzarsi su quei suoi trampoli di gambe, cominciando a muovere in qua e in là la testina minuscola. 'Dov'è che mi trovo?', aveva l'aria di chiedersi. 'E cosa mi è successo?'". Per Edgardo l'avviso si chiarisce. La fuga muta in condanna. Edgardo torna a casa. Evita la moglie e decide lucidamente di suicidarsi. Per non essere disturbato, prima di dormire passa a salutare la vecchia madre.

Lo schema drammatico del racconto di Bassani, lascia vedere bene quella che nel Novecento è stata probabilmente la forma più tipica e radicata della percezione letteraria del mondo attuata in Emilia-Romagna, ovvero il sentimento dello sconosciuto nel vicino, dell'ignoto che si mostra nel familiare. È una prospettiva dimessa, in cui manca forse l'intuizione vera della lontananza, ma che sembra ancora capace, quantomeno, di non accontentarsi del senso apparente degli spazi conosciuti. Proprio al modo in cui a Edgardo, in conclusione, torna ad apparire la madre: "circondata da tutto quello che aveva di più suo e di più intimo, la cagnetta idolatrata a contatto quasi diretto, e poi le fotografie di famiglia, la pergamena del nodo di Savoia incorniciata d'argento, i flaconi multicolori delle medicine, le custodie di pelle degli occhiali, il minuscolo parallelepipedo dorato della sveglia Zenith, i libri in uno scaffale, il Giornale dell'Emilia posato sulla trapunta di seta verde alla stessa altezza del minimo mucchietto di pelo nero della Lilla, eccetera eccetera, seguitava a sorridergli. Bianca, laggiù, reclusa nel suo bozzolo di luce".

 

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