Rivista "IBC" IX, 2001, 2

musei e beni culturali / convegni e seminari, interventi, mostre e rassegne

Musei al bivio

Fausto Pesarini
[direttore del Museo civico di storia naturale di Ferrara]

In occasione dell'XI Settimana della cultura scientifica e tecnologica, dall'8 al 16 maggio il dipartimento di Scienze della terra dell'Università di Ferrara ha organizzato una mostra storico-documentaria sulle origini dell'evoluzione umana e un convegno sul tema "Museografia scientifica, didattica, comunicazione", durante il quale è stato fatto il punto sulle tendenze attuali del settore. A margine di questo stesso tema abbiamo chiesto una riflessione al direttore del Museo civico di storia naturale di Ferrara.


I musei scientifici si trovano di fronte a un bivio. Il successo che incontrano presso il pubblico, si può dire in tutto il mondo, i cosiddetti science center (la Villette parigina certamente, ma come non accorgersi che grandi centri della scienza vanno sorgendo un po' ovunque?) costituisce una sfida aperta ai musei "di tradizione" - come per esempio i nostri musei di storia naturale. Da qualcuno questa sfida è avvertita in termini ultimativi: o trasformarsi o perire.

C'è qualcosa di sbagliato in questo modo di pensare; ma non si può negare che poggi su una preoccupazione molto concreta: quella di assistere impotenti a una perdita di legittimazione sociale dei nostri musei.

L'equazione "musei di tradizione uguale musei-relitto" è sbagliata anche per i musei scientifici perché trascura un fatto di importanza cruciale: il science center non rappresenta l'evoluzione necessaria della forma-museo ma qualcosa di "altro". Qualcosa che riflette nuovi bisogni espressi dalla collettività e tuttavia non fornisce risposte a chi cerca nel museo ciò che tale istituzione rappresenta per mandato storico: un luogo della conservazione della memoria materiale, in cui gli oggetti vengono presentati per i valori di segno che li rendono preziosi nell'interpretazione del mondo reale che ci circonda. Tali oggetti sono per questa ragione "beni culturali" e ci appartengono come dovrebbe appartenerci la nostra storia. Se rileggiamo la definizione di museo data dall'UNESCO: "un'istituzione permanente senza scopi di lucro, che ricerca testimonianze materiali sull'uomo e sul suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le fa conoscere e le espone ai fini di educazione e di diletto", ci accorgiamo che non coincide con l'identità e il ruolo perseguito dai centri della scienza. Questi infatti non ricercano né acquisiscono né conservano testimonianze materiali (come fanno invece - significativa e non secondaria differenza - i musei di scienza e tecnica), ma progettano e producono strumenti, dispositivi ed eventi ad hoc secondo una logica radicalmente diversa da quella del museo e che li apparenta semmai ai luoghi della rappresentazione scenica (leggi "teatri") e dell'intrattenimento (leggi "parchi-giochi").

Che il museo scientifico debba trasformarsi in science center può piacere o non piacere; bisogna però essere consapevoli di una conseguenza che, personalmente, giudico di grave portata. Cerco di illustrarla in breve.

Nessuno pensa che un museo d'arte debba chiudere in soffitta i suoi quadri, le sue sculture, le sue suppellettili e trasformarsi in un parco interattivo sulla storia dell'arte (o, perché no?, mirato a sollecitare la creatività); sarebbe interessante, ma ripeto: nessuno lo vuole. Nessuno vuole che un museo storico sgomberi i suoi locali da uniformi, bandiere, cimeli, decreti e quant'altro per diventare un laboratorio ludico-creativo in cui si ridisegna la storia pigiando pulsanti o cliccando su un mouse. Perché questo? Evidentemente perché si riconosce un valore intrinseco agli oggetti che questi musei conservano. Perché quegli oggetti fanno parte della nostra cultura. Perché le arti e la storia sono cultura. E perché questo non vale altrettanto per i musei scientifici?

Eccoci di nuovo di fronte alla contraddizione di sempre: ciò avviene perché la scienza non è entrata di diritto nel nostro concetto di cultura. È importante, è vitale, è anche appassionante, lo riconoscono tutti; ma per molti non è cultura. Si parla di cultura scientifica, è vero; ma in contrapposizione alla cultura tout court, su cui si fondano i valori in cui ci riconosciamo. La dimensione ludica della scienza, il fatto che l'esperimento riesca a coinvolgere e dilettare, è certamente una risorsa da sfruttare per veicolare i concetti della scienza presso il grande pubblico, ma può allontanarlo ancora di più dalla percezione della scienza come valore, come componente irrinunciabile della nostra cultura.

La conseguenza estrema può essere la deriva dei musei scientifici dalla loro missione storica in favore di una dimensione di intrattenimento che concorre con i parchi-giochi nel conquistare il favore delle famiglie con bambini. Non mi pare uno scenario improbabile. Dunque ben vengano i centri della scienza per le ragioni più volte richiamate, in una parola perché rispondono a un bisogno diffuso di apprendere; ma occorre riflettere consapevolmente su quale debba essere il ruolo del museo scientifico in quanto tale in una società che stenta a riconoscere ai suoi oggetti, alle sue collezioni, in una parola al suo patrimonio materiale, quei valori intrinseci per i quali la gente si reca nei musei, li affolla, li vive.

Un museo scientifico può, forse con profitto, tentare di allestire una sezione didattica sul modello dei centri della scienza, o introdurre elementi di interattività nel proprio percorso espositivo; molti musei lo hanno già fatto, come lo stesso Museo di storia naturale di Ferrara con la nuova sezione "Ambiente Terra"; non deve perdere però la propria identità, rinunciando ad alimentare il dibattito sulla forma-museo con proposte e soluzioni che valorizzino efficacemente il patrimonio materiale che conserva.

Del resto tutto quanto si vagheggia sulla "necessaria" trasformazione non solo dei musei scientifici, ma dei musei italiani in generale, in imprese culturali capaci di corrispondere ai nuovi bisogni espressi dalla collettività è frutto di un dibattito superficiale, che non poggia su un'analisi seria della situazione dei musei italiani. Il museo-impresa è un modello teorico che può funzionare nella pratica con importanti correttivi (leggi: ingenti trasferimenti, sempre e comunque, da parte dello Stato e degli Enti Locali; altrimenti è di un parco-divertimenti che si parla, e non di un museo, che è un istituto di conservazione, di tutela e di ricerca, ciò che sottintende una parte "sommersa" di attività che non è meno essenziale del ruolo più immediatamente percepibile dal grande pubblico); è un modello, dicevo, che può funzionare solo per pochi grandi musei ma non per il "tessuto" di centinaia, addirittura di migliaia di musei del nostro Paese.

Proseguendo ciecamente sulla strada del museo-impresa, quasi che questo modello fosse la panacea per i mali che affliggono i musei italiani, si conseguiranno due risultati, non so quanto desiderati, ma che non esito a giudicare nefasti: la delegittimazione sociale dei musei ancorati alla tradizione (non per una proterva chiusura nei confronti del nuovo ma per una rivendicazione della propria identità e della storia da cui scaturisce) e la progressiva estinzione di un patrimonio culturale straordinariamente ricco, che riflette le sfaccettature di una società stratificata storicamente e diversificata in tante realtà culturali locali.

Come potrebbero sopravvivere i cento musei di una piccola regione alla competizione innescata dalla corsa all'accaparramento di sempre più grandi volumi di pubblico? Come sperare che in questa lotta per la sopravvivenza un museo non insegua le suggestioni puerili della "cultura" di largo consumo, quella che si nutre, per intenderci, di dinosauri semoventi e di ricostruzioni virtuali più o meno fantasiose? E come non prevedere che questa corsa all'emulazione si tradurrebbe alla fine in un appiattimento su un unico modello di museo, quello "vincente" secondo la logica utilitaristica della domanda e dell'offerta?

In un mondo dominato dai meccanismi della globalizzazione non può sorprendere, in fondo, che gli effetti di questo processo si manifestino anche sul fragile tessuto dei musei. Al di là dei modelli culturali o pseudo-culturali di riferimento, questi effetti sono già leggibili, sul piano gestionale, nell'accanita, quasi forsennata omologazione dei musei a centri di spesa genericamente intesi intrapresa da molte amministrazioni. E qui veniamo al punto dolente dell'intera questione.

Un museo è indubbiamente un centro di spesa, e non può sottrarsi all'imperativo della razionalizzazione. Questo può voler dire giustamente combattere gli sprechi, incentivare le entrate, adottare nei limiti del possibile un'ottica imprenditoriale, attivando e favorendo l'erogazione di servizi a pagamento anche attraverso la loro esternalizzazione. Un museo può essere, anzi è certamente un'impresa culturale. Tutto sta però ad intendersi: quell'aggettivo, culturale, non può essere un optional. Lo Stato, gli enti locali, non possono sfuggire alla responsabilità di riconoscere e sostenere il ruolo sociale e culturale dei musei che sono loro affidati, così come sostengono il ruolo sociale della scuola senza porsi obiettivi tagliati con l'accetta in termini di costi e di ricavi.

Ma non è solo un problema economico. Le azioni di un museo devono poggiare su un progetto culturale. Questo deve essere chiaro, autorevole, coerente con la missione storica del museo. La sua elaborazione e la sua realizzazione devono essere affidate a persone competenti e titolate a farlo: direttori e curatori in possesso dei requisiti scientifici di base e opportunamente aggiornati sulle metodologie e sui criteri gestionali specifici per un museo. In una parola, un museo - scientifico o meno - non può essere omologato a un centro di spesa genericamente inteso.

Quello che sta succedendo in molti enti locali della nostra regione e un po' in tutta Italia è invece qualcosa di preoccupante. Con la riorganizzazione in atto nel comparto pubblico sta di fatto scomparendo la figura di direttore di museo. Colui che scrive, per esempio, non è più formalmente tale, ma "dirigente di Servizio", omologato appunto ai colleghi dei servizi demografici o della viabilità. Curatori con formazioni e ruoli specifici, come un conservatore di zoologia o di scienze della Terra, sono trasformati tutti quanti in "funzionari culturali", tra loro intercambiabili almeno teoricamente. Ai dirigenti e ai funzionari tutti, genericamente intesi, viene chiesto di formulare obiettivi di razionalizzazione delle risorse e di ottimizzazione dei risultati in termini di costi/benefici. Non viene più chiesto, perché non interessa, un progetto culturale: non è nella logica della riorganizzazione. Quello che interessa sono solo gli indicatori economici finalizzati al controllo di gestione.

Ora un museo - scientifico o meno - può ben darsi degli indicatori economici, ma devono necessariamente essere diversi - molto diversi - da quelli degli altri comparti di una pubblica amministrazione. Un museo lavora su tempi lunghi, investe sulle giovani generazioni, si pone come obiettivo la disseminazione e la maturazione di conoscenze, di consapevolezze, in altre parole lavora per la crescita di una cultura condivisa, che è il cemento di una comunità civile. Come può il direttore di un museo - benché "negato" in quanto tale perché omologato - accettare modelli di valutazione del proprio operato che disconoscono queste specificità?

Ai musei concepiti solo come centri di spesa viene sempre più sottratta autonomia, di cui avrebbero un immenso bisogno. Le procedure di spesa vengono centralizzate: al direttore (o dirigente) di un museo non sono assegnate risorse per l'acquisto di beni di investimento; vengono sottratti i fondi per l'aggiornamento del personale, e quelli teoricamente disponibili per incarichi, anche quando sono di minima entità, vengono sottoposti a un iter grottesco di pareri e di autorizzazioni; sono negati i fondi liquidi, anche questi di minimo importo, per provvedere a piccole spese urgenti (i cosiddetti fondi "a render conto"); vengono sottratti, sempre secondo la logica della centralizzazione, i fondi per l'acquisto di libri e di periodici, di materiali per l'ordinaria manutenzione e per il rinnovo di materiali di consumo; sempre, infine, i musei devono sottostare a procedure di spesa imposte da leggi che considerano astrattamente i problemi e le necessità della spesa pubblica con l'unica preoccupazione - degna di cause migliori - della trasparenza e dell'evidenza formale degli atti, e che valgono indistintamente per tutti i comparti dell'amministrazione, con il risultato di trasformare gli operatori dei musei in burocrati con poche velleità residue di occuparsi, a tempo perso, delle cose per cui in fondo sono pagati.

Che i riformatori della cosa pubblica (legislatori e amministratori) non si rendano conto di tutto ciò o non se ne preoccupino mi pare francamente inverosimile. Temo invece che si stia andando verso scelte irreversibili per le sorti dei musei italiani: giocare le carte dell'autonomia e dell'imprenditorialità sui pochi musei che hanno i numeri per contendersi il mercato; e occuparsi sempre di meno di tutti gli altri. Quanto sia consapevole questa scelta è difficile dirlo; le suggestioni del museo-impresa possono anche aver abbagliato le capacità di giudizio di molti e aver per così dire oscurato la reale complessità del problema. Le leggi regionali - la maggioranza dei musei italiani e in particolare quasi tutti i musei scientifici dipendono da enti locali - sono in genere molto ponderate e documentate, non sbrigative, ma direi che trascurano o fraintendono la vera natura dei problemi che affliggono i musei; in genere, si può dire, "volano troppo alto".

Forse il bivio di fronte al quale si trovano i musei scientifici non è quello rappresentato da modelli di museo alternativi o in qualche misura tra loro compatibili di cui abbiamo parlato all'inizio. Forse la vera alternativa, che pesa non solo sui musei scientifici ma sui musei italiani in genere, che sono quasi tutti parti indivisibili delle amministrazioni da cui dipendono, è tra il veder riconosciuta la propria specificità e il poter disporre di conseguenza di una relativa autonomia culturale e gestionale, e la sorte sempre più incerta e precaria a cui già oggi li sta consegnando l'omologazione tenacemente perseguita da una "cultura" politica e amministrativa pericolosamente incline ad accettare fino in fondo tutte le conseguenze della globalizzazione.

 

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