Rivista "IBC" VIII, 2000, 4
Dossier: Misurare il tempo
musei e beni culturali, dossier /
L'orologio associa sempre dentro di sé una rappresentazione del tempo e una visione del mondo. E se oggi è pressoché ridotto al ruolo di protesi velocizzata e preziosa dei ritmi giornalieri che nel "migliore" dei casi assume il volto del vuoto pneumatico del gioiello di precisione, in altre epoche il suo valore era differente e si sposava con i tempi della vita della comunità, con il sacro della meditazione sulla vanitas, con il dispotico controllo dei tempi di lavoro da parte dei padroni. Era insieme l'immagine del mondo, la metafora del corpo, dello stato e dell'armonia celeste. Portava con sé la doppia natura di oggetto fisico e metafisico che misurava, come fa ancora adesso, ciò che non è misurabile: il tempo.
Automa supremo, l'oggetto cronometrico, è stato investito, nei secoli passati, di significati che solo apparentemente superavano la sua natura di manufatto meccanico, ma che in realtà esprimevano la profondità archetipa di un simbolo tra i più inquietanti che l'umanità abbia prodotto.
La prima e più arcaica soluzione alla misurazione del tempo fu la meridiana che però, nel corso dei secoli, ha visto confluire nella sua semplicità i complessi perfezionamenti tecnicomatematici la cui teoria occupava interi trattati. Seguirono orologi ad acqua, le vere clessidre, e a sabbia, misuratori elementari e fragili di un tempo che doveva essere moltiplicato per soddisfare il calcolo dell'intera durata del giorno.
La precarietà di queste soluzioni portò l'ingegno medievale a progettare e costruire orologi meccanici di grandi dimensioni, e a collocarli generalmente sui campanili nelle città. A Milano, a Cluny, a Chartres, a Genova, a Padova, a Bologna, tra la fine del XIII secolo e la seconda metà del XIV si poteva ascoltare i grandi orologi suonare le ore e avvertire i cittadini, che partecipavano economicamente e socialmente alla loro costruzione e manutenzione, del passare del tempo. Il tempo della chiesa e il tempo del mercante trovavano negli orologi pubblici, che calcolavano la durata delle attività monastiche e quelle della città medievale, il punto di unione di due esperienze che oramai andavano diversificandosi.
L'impatto di questo ordigno sull'immaginario collettivo è stato fin dalle origini straordinario. La disciplina e l'obbedienza temporale comportano il controllo degli strumenti orari e più volte le proteste degli operai, nel Medioevo come in epoca di rivoluzione industriale, nascevano dall'uso irregolare, o dall'abuso, che i padroni facevano degli orologi. Nel Medioevo, poi, le campane segnatempo venivano viste anche come simboli del potere da combattere attraverso l'espropriazione simbolica della loro funzione oppressiva: potevano chiamare a raccolta adunate di ribellione contro il dominio e lo sfruttamento temporale degli operai stessi.
Dall'uso simbolico nel sociale si può spostarsi all'uso simbolico e sacro nella letteratura, dove il caso dantesco costituisce uno degli esempi più straordinari quando nel X canto del Paradiso la ruota dei beati viene metaforizzata attraverso il richiamo alla tecnica ingegnosa dell'orologio il cui suono è una sorta di inno mattutino simile a quello che sveglia la gente dal sonno:
Indi come orologio, che ne chiami
nell'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l'ami,
che l'una parte l'altra tira ed urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirto d'amor turge,
così vid'io la gloriosa ruota
muoversi [...].
Gli ordigni cronometrici attirarono costantemente nel corso dei secoli la curiosità intellettuale di uomini di cultura, e ben presto si cominciò a scrivere trattati sul modo di costruirli. La raffinatezza dei congegni e la meraviglia che essi suscitavano li resero rapidamente adatti a penetrare nelle rappresentazioni artistiche e nelle raccolte di curiosità in cui giacevano accanto a reperti storici, monumenti, meraviglie naturali e artificiali. La loro presenza negli "studioli" e poi nelle Kunst und Wunderkammern fu costante e di estrema importanza. Nato come strumento per misurare il tempo, l'orologio veniva sempre più recepito come il suo simbolo misterioso, come enigma da decifrare, come mirabile invenzione umana e memento mobile e visibile della fuga della vita verso la morte, nonché nel Cinquecento anche come "amuleto" per la penetrazione dei Gesuiti nella Cina dei mandarini, stando alle narrazioni del padre Matteo Ricci.
Non solo, da Leonardo a Brunelleschi gli "oriuoli" vengono progettati, costruiti, descritti anche in poesia a testimoniare la diffusa novità e l'interesse per un oggetto oramai entrato a far parte di un universo simbolico che ne potenziava e moltiplicava i significati. "Gli orologi della Sapienza" - avverte il Brusa - "sono rappresentati in parecchi codici miniati francofiamminghi del XV secolo" e il trattato di Enrico Susone Horologium sapientiae (ca. 1333-34) ne è certamente uno degli archetipi morali e teologici.
Dipinti, tarsie, apparati iconologici accolgono, nella disputa tra arte e natura, il segnatempo nelle sue varie forme tanto che, soprattutto quello meccanico con quadrante, può da un lato essere assimilato alla nozione, magari albertiana, di quadro, per cui sarebbe, come scrive Alpers ne L'arte del descrivere, "una superficie o una tavola incorniciata posta a una certa distanza da un osservatore che guarda attraverso di essa un mondo altro sostitutivo", dall'altro ad un'idea di teatro realisticodescrittivo in cui l'occhio è in grado di penetrare all'interno per coglierne la fisiologia e la dinamica del funzionamento.
Attraverso i turbamenti interiori e allucinati del Tasso prigioniero a Sant'Anna ("tintinni ne gli orecchi e ne la testa, alcuna volta sì forti che mi pare d'aversi un di questi orioli da corda") si entra nel XVII secolo che negli orologi auscultò lo stridente fluire della materia temporale, calcolandone il battito sordo e oscuro di ordigno che mostrando il tempo lo sottraeva. Scienza e meditatio mortis, politica e spiritualità, poesia e Natura Morta si trovavano unite in un immaginario multiforme e visionario che cercava, attraverso lo spazio numerato di un teatro mobile e meccanico, di vedere l'invisibile del tempo.
Veniva messo in campo lo stesso dispositivo concettuale che era necessario alla decrittazione degli emblemi, dove l'interazione di motto e figura, poesia e immagine, doveva svelare all'ingegno perspicace il senso di un messaggio cifrato. Le lancette di un quadrante, la sabbia o l'acqua di una clessidra, l'ombra della meridiana, erano l'alfabeto mobile del tempo, il linguaggio per mezzo del quale rappresentarlo, vederlo, nella sua precisione illusoria. Già, perché l'orologio - scriveva il Tesauro - nel XVII secolo "sempre corre e non si muove; non è astrologo e mostra i tempi benché menta sovente". Privo di forma, dice un poeta come il Melosio, confonde "il presente, il preterito e'l futuro" fino a confondere, fa da contrappunto il Sempronio, "anch'ei ne' propri error sé stesso".
Serpente meccanico che si ravvolge su di sé, l'orologio mette in scena il paradosso del tempo, il sofisma che ammette di poter misurare, scandire visibilmente ciò che è invisibile. Lo sguardo ossimorico che soggiace a tali paradossi accresce la coscienza dell'inafferabilità del fluire temporale e il senso di vanità che pervade la vita, tanto che un altro poeta e predicatore come il Lubrano in un Oriuolo ad acqua vede il "meccanico Cristal" che addita "quasi stille del Tempo, i giorni erranti" che fuggono e naufragano "in flüido feretro", e l'essere dell'uomo "struggersi a stille in agonie di vetro".
L'uomo barocco, come con diverse ambizioni quello settecentesco, cerca di indagare il labirinto del tempo nell'immagine moltiplicata degli strumenti che lo misurano: universi ridotti alla misura dell'occhio, microcosmi trasparenti da scrutare dall'esterno da parte di chi, però, resta involto tra le ruote interne del tempo. La lacerazione esistenziale da cui viene intonato il rintocco verbale di chi sente la sua durata consumarsi è espressa con acuita sensibilità da un altro poeta che, attingendo allo spagnolo Quevedo, svelava la straziante funzione di memento mori dell'emblema orologistico: "mobile ordigno di dentate rote / lacera il giorno e lo divide in ore / ed ha scritto di fuor con fosche note / a chi legger le sa: Sempre si more" (Ciro di Pers).
Il teatro interiore della caducità che l'orologio barocco rendeva drammaticamente percepibile, assume nella tradizione scientifica una fisionomia variata che va da applicazioni politicomorali - ad esempio nel gesuita spagnolo Antonio De Guevara, il cui Relax de principes, già nel Cinquecento, spiegava che "l'orologio dei principi non funziona con sabbia, né con il sole, né con le ore, né con l'acqua: è l'orologio della vita. Poiché gli altri orologi servono a sapere che ora è della notte e del giorno: mentre questo ci mostra e ci insegna come dovremmo tenere occupate le nostre menti e come dovremmo ordinare la nostra vita" - alle classiche visioni dello stato-orologio, ad esempio quella di Hobbes.
Ma con la rivoluzione scientifica e soprattutto con i suoi sviluppi illuministi si ha il cambio di paradigma in senso meccanicistico anche nella percezione del tempo. Se il mondo era interpretato attraverso il modello della macchina oraria con Boyle, Keplero, Leibniz e Newton, e Dio era il suo sommo, e più o meno abile, orologiaio, Cartesio spostava il valore analogico dell'ordigno al microcosmo umano, per farne una metafora fisiologica del corpo e dei suoi organi che arriverà fino a L'uomo macchina di La Mettrie o agli Elementi di fisiologia di Diderot.
La precisione metafisica della meccanica illuminista e gli ornamenti rococò che fiorivano sulle casse degli orologi settecenteschi si tramutavano nella critica positiva e "progressista" all'ansia temporale che fino al XVII secolo aveva pervaso la cultura europea. Il tempo spingeva in avanti alla conquista di una razionalità sempre più chiara e precisa che però tendeva ad identificare l'uomo e le sue attività con il funzionamento impassibile e materiale della macchina. A questa visione orologistica dell'uomo si cominciò a reagire quando con Kant si faceva più chiara la diversità profonda tra macchina e organismo, tra la natura e l'inorganico. E se l'orologio non poteva avere la stessa vita e le stesse funzioni di un albero, per parafrasare, rovesciandola, un'immagine cartesiana, si imponeva di conseguenza e nuovamente la differenziazione di un tempo artificiale da un tempo vitale.
In autori come l'inglese William Blake la contrapposizione tra gli orologi a sabbia che, come le meridiane, segnano ancora un tempo biologico, e gli orologici meccanici simbolo dell'oscurità satanica viene fatta risaltare in tutti i suoi significati cosmici e teologici: allo stesso modo il carattere negativo, e morbosamente introiettato, dell'ordigno meccanico era pure sentito da scrittori come Hoffmann e Poe che hanno costantemente narrato, in atmosfere da tecnologia neogotica, dei rapporti e degli incroci di anime umane e meccaniche, di voci e incarnazioni al limite del diabolico che pulsavano nei labirinti cigolanti di automi e orologi, cercando, magari, di esorcizzare il tempo e i valori del progresso che stavano oramai cancellando il mondo, per così dire, biologico della natura.
Ma dal XIX secolo oramai è il tempo della città che viene rappresentato: un tempo del caos, della perdita dell'esperienza che ha frantumato la coscienza e le sue facoltà percettive. Simboli della rivoluzione industriale, gli orologi misurano nello stesso istante il ritmo del tempo e quello del denaro. Sono l'ornamento pubblico e l'ossessione dei lavoratori schiacciati tra disciplina e velocità, accelerazione e precisione. Fanno da contrasto a questa visione L'orologio e altre poesie di Baudelaire che, come in un memento mori barocco, ma acutamente moderno, mostrano "un dio sinistro", "impassibile", pronto a ricordare all'uomo che "il tempo mangia la vita". E non è un caso che il più grande libro sul tempo del Novecento, Alla ricerca del tempo perduto di Proust, e uno dei grandi quadri di Salvador Dalì, Persistenza della memoria, abbiano come nucleo conoscitivo, negli orologi fluidi e sfuggenti della loro temporalità, la presenza della memoria a garantire la sopravvivenza di un'immagine del tempo.
Dai primi decenni del nostro secolo sono state elaborate numerose e differenti teorie del tempo, dalla fisica alla chimica, alla psicanalisi e alla medicina. Ciascuna ha comunque messo in rilievo il rapporto tra un tempo, per così dire, universale e un tempo proprio dell'individuo. E se da un lato, oggi, i teorici della "freccia del tempo" inseguono l'irreversibilità, gli scenari artistici o quelli filosofici cercano di approfondire la complessità e gli intrecci delle numerose temporalità interne ed esterne che si incrociano nelle nostre facoltà percettive.
C'è da dire, tuttavia, che dal secondo dopoguerra ad oggi si sono moltiplicate le strategie di costruzione e di vendita di orologi sempre più precisi, più attendibili nel misurare fedelmente il supremo ingannatore. Il tempo, oramai, lo si può comprare; è il più grande produttore di denaro e il più pagato artigiano del nostro secolo. Per poterlo avere in casa o al polso si possono spendere milioni o poche migliaia di lire. È il teatro quotidiano del nostro balletto meccanico, lo specchio neutro della nostra ansia calcolata e miniaturizzata. La soglia da infrangere continuamente per battere ogni tipo di record. La scadenza che limita persino i nostri sogni, ma che non allunga certo la vita, né allontana il nostro esito finale, ma ne registra l'infallibile avvicinarsi. Ma all'astrazione di un tempo misurato nell'esattezza dell'istante corrisponde, al di qua della morte, il tempo concreto e buio dell'esperienza, il tempo senza respiro della materia.
Bibliografia
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Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia poetica del Seicento, a cura di V. Bonito, Palermo, Sellerio, 1996.
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