Rivista "IBC" VIII, 2000, 4

Dossier: Misurare il tempo

musei e beni culturali, dossier /

Sulle "macchine orarie"

Fabrizio Bònoli
[docente di Storia dell'astronomia e direttore del Museo della Specola all'Università di Bologna]

Il testo che segue è una sintesi della relazione che ha introdotto la presentazione del volume Macchine orarie. Orologi da torre e orologiai in Emilia-Romagna avvenuta presso il Museo civico archeologico di Bologna il 20 giugno 2000.

 

Alcuni anni or sono venni contattato da due funzionarie dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna a proposito di un progetto, in fase del tutto iniziale, relativo al censimento, classificazione e catalogazione degli orologi da torre della nostra regione. A quell'epoca, dopo aver completato il catalogo del Museo della Specola,1 mi occupavo di criteri di classificazione della strumentazione storica astronomica all'interno di una commissione appositamente costituita dalla Società astronomica italiana. Mi erano ben chiare, quindi, le difficoltà presenti in un progetto di così ampia portata, sia per la vastità del territorio in esame, che per i problemi legati a questo tipo di censimenti e di catalogazioni.

È stato con una certa sorpresa, ma senza dubbio con molto piacere, che ho ricevuto il libro Macchine orarie. Orologi da torre e orologiai in Emilia-Romagna, che Antonio Campigotto, Alessandra Parisini e Patrizia Tamassia, con la collaborazione di Micaela Guarino, hanno realizzato e pubblicato nella collana "Dossier" dell'IBC a conclusione di quel vasto lavoro che aveva sollevato il mio ingiustificato scetticismo.

Le "macchine orarie" dunque, ma perché questo interesse per oggetti che oramai fanno parte del panorama storico delle nostre città, ma ai quali molto distrattamente volgiamo gli occhi, abituati come siamo ad usare non quelli, bensì l'orologio che abbiamo al polso per sapere che ora è? Perché "tutta la popolazione lo desidera" come viene riportato nel verbale della seduta straordinaria del 9 febbraio 1903 del consiglio dell'Opera parrocchiale di Traversetolo (Parma), riunitosi per richiedere al sindaco l'installazione di un nuovo orologio pubblico sulla torre del campanile in quanto il precedente "per il lungo uso si è reso inservibile e da due anni non funziona più", secondo quanto si legge nella scheda relativa del libro. E anche il sindaco di Gualtieri (Reggio Emilia), il 31 dicembre del 1921, si raccomanda al pubblico regolatore affinché avesse cura dell'orologio della torre civica "tanto utile alla popolazione in genere e ai datori di lavoro, agli operai e commercianti".

Si tratta quindi, come è ovvio, di strumenti che servono per misurare il tempo, anzi, per essere più precisi, per conservare la misura del tempo. Un orologio, sia questo un vecchio meccanismo da torre oppure un moderno strumento al quarzo, non esegue una misura assoluta del tempo. Infatti quando il nostro orologio si ferma siamo costretti a rivolgerci ad un segnale orario che ci consenta di "metterlo a punto". Un vero "misuratore del tempo" può essere un orologio solare o una meridiana, come ancora ne troviamo all'interno delle vecchie torri dove venivano alloggiati gli orologi meccanici, e che servivano, appunto, per dare il segnale orario, l'ora solare esatta, cioè necessaria a regolare il meccanismo dell'orologio, il quale deve cercare di procedere con un moto il più uniforme e regolare per il maggior tempo possibile, conservando così, come si diceva, la capacità di misurare il trascorrere del tempo.

 

Il tempo viene da noi percepito come qualcosa che procede incessantemente, uniformemente e indipendentemente da qualunque altra cosa e gli uomini hanno sempre cercato di misurare questo procedere incessante ed uniforme.2 Sin dai tempi più antichi i corpi celesti sono stati i primi "oggetti" ad essere utilizzati a questo scopo.

Il sole, con la sua differente altezza durante il giorno e nel corso delle stagioni, e con la conseguente differente ombra proiettata da un semplice palo piantato al suolo - un ramo, un bastone da viandante, una lancia da soldato, uno strumento da contadino. La luna, con il suo mutevole aspetto, facilmente riconoscibile e memorizzabile di notte in notte attraverso le varie fasi - e lo attestano le numerose incisioni rupestri di simboli lunari con le fasi presenti in tutte le civiltà. Le stelle, con il loro regolare e perenne rivolgersi in cielo, presentandosi sulla volta celeste a segnalare l'approssimarsi o la fine delle stagioni.

"Venti violenti di ogni tipo infuriano quando le Pleiadi, inseguite dall'impetuoso Orione, si tuffano nel mare scuro" scrive Esiodo ne Le opere e i giorni, suggerendo agli agricoltori di iniziare i raccolti quando le Pleiadi si levano all'alba (a quell'epoca, ottocento anni prima di Cristo, avveniva in maggio) e di arare quando tramontano all'alba (a novembre). E queste stelle, che appaiono come uno sciame di mosche sulla schiena della grande costellazione del Toro, erano anche dette "le stelle dei naviganti", in quanto la loro levata vespertina indicava la fine della stagione estiva della navigazione e vi è chi suggerisce che il loro nome derivi proprio dal verbo greco plein, "navigare". Possiamo inoltre facilmente affermare che questo uso del cielo come grande orologio sia proseguito sino a non molto tempo or sono, se è vero che i vecchi contadini o marinai ancora oggi usano riferirsi al sole, alla luna o alle stelle per avere un'idea del tempo trascorso.

In questa affannosa ricerca di qualcosa per misurare il tempo ed il suo trascorrere l'uomo ha sviluppato una tecnologia che è passata dai bastoni usati come gnomoni alle clessidre, agli orologi ad acqua, ai notturnilabi, ai primi rozzi meccanismi che si limitavano a suonare una campanella ad ore prefissate, all'invenzione del pendolo, al cronometro - che risolse solo nel Settecento il secolare problema della determinazione della longitudine in mare -, sino ai moderni orologi, che hanno richiesto la definizione di un nuovo "tempo", il tempo atomico.

La frazione di questo nuovo "tempo", il secondo atomico, è stata definita come l'intervallo di tempo necessario al compimento di oltre nove miliardi di oscillazioni (9.192.631.770, per la precisione) dell'emissione dell'atomo di cesio 133, opportunamente eccitato. Ma la nuova tecnologia non poteva comunque fare a meno della astronomia ed il numero di quelle oscillazioni, infatti, fu stabilito eguagliando la durata del secondo atomico alla durata del secondo medio del tempo universale medio, vale a dire, misurato con le osservazioni astronomiche della rotazione terrestre nell'anno 1900. Rotazione che rallenta a causa della forza mareale della luna e che fa sì che l'anno solare aumenti di 0,8 secondi al secolo.3

Unitamente a questo sforzo tecnologico per migliorare la misura del tempo l'uomo ha anche cercato di comprendere e di definire, in qualche modo, questa "entità" dall'aspetto così sfuggente ad ogni misura e ad ogni definizione. "Tempus est mensura motus secundum prius et posterius" sosterrà Aristotele, nel suo tentativo di definire tutto il mondo fisico rispetto a vari tipi di movimento. Il tempo esisterebbe solo in presenza di un osservatore che ne misura il movimento secondo un prima e secondo un dopo? Non esisterebbe, quindi, senza che le cose avvengano? Aristotele non avrebbe fornito una risposta a queste domande e a queste contraddizioni insite nella sua definizione. Ci proverà molti secoli dopo un altro grande pensatore, Agostino, affascinato anch'egli dal problema del tempo e dal suo legame con chi avrebbe creato tutte le cose e, quindi, anche il tempo: "Cos'è allora il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so: se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che, se nulla passasse, non esisterebbe un passato, se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro, se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente". Apparentemente, comunque, neanche Agostino si inoltra in un tentativo di risolvere il problema della definizione del tempo in presenza o meno di qualcuno che ne osserva il trascorrere.

Ma, mentre i filosofi... filosofeggiavano sulla natura del tempo, la gente comune continuava ad aver bisogno di misurarlo e così, già nel II secolo a.C., a Roma era stata installata una clessidra pubblica e due secoli più tardi Augusto avrebbe fatto costruire un grande orologio solare nel Campo Marzio,4 anche se - e come sempre ricompaiono gli "intellettuali" - Seneca ebbe a lamentarsi del fatto che "è più facile mettere d'accordo due filosofi che due orologi!".

 

Bisognava tuttavia attendere ancora molti secoli perché la tecnologia potesse svilupparsi, sicuramente anche sotto l'influsso di conoscenze arabe ed orientali, sino a far sorgere, verso la seconda metà del Duecento, l'idea di utilizzare dei meccanismi che cercassero di dare un'indicazione del trascorrere del tempo, riproducendo i movimenti astronomici. Nel commento del 1271 di Robertus Anglicus al Tractatus Sphaerae di Sacrobosco si legge: "Non è possibile per alcun orologio seguire l'opinione dell'astronomia con sufficiente accuratezza. Gli orologiai cercano ancora di costruire un meccanismo che compia una rivoluzione completa per ognuna delle rotazioni equinoziali, ma non sono in grado di rendere perfetto il loro lavoro. Tuttavia, se ci riuscissero, realizzerebbero un orologio veramente preciso e in grado di misurare il tempo meglio di un astrolabio o di altri strumenti astronomici".5

È in questa ricerca di strumenti che "seguano l'opinione dell'astronomia", cioè il metodo consueto di usare i moti del cielo per misurare il trascorrere del tempo, che si inserisce l'invenzione dell'orologio meccanico. Si tratta, come per tante altre realizzazioni dell'ingegno, di una invenzione della quale non si riesce a fornire una data e un nome, anche se si pensa che possa essere nata nell'Italia meridionale, proprio per i legami culturali che vi erano con il mondo arabo. La forma più antica di forza motrice cui ricorsero i primi artigiani fu un peso in caduta verticale, in grado di fornire una trazione uniforme. Il controllo di questo movimento si ottenne successivamente con l'invenzione dello scappamento a verga con "foliot".

All'inizio si trattava di strumenti di uso limitato all'ambiente monastico: un meccanismo che consentiva ad un martelletto di battere su una campana le ore alle quali richiamare i monaci alle preghiere. Poi l'uso dello strumento meccanico e della campana per le ore venne esteso all'ambito pubblico e nel Trecento, dall'Italia a tutta Europa, si ha una vera e propria fioritura di orologi pubblici da torre: mentre gli orologi monastici erano limitati al battito delle ore per la regola conventuale, gli orologi pubblici servivano a regolare il tempo per le attività comuni, quali i mercati, i dazi, i lavori dell'artigianato e dei campi. E questo duplice utilizzo non è certo stato dimenticato nel tempo, dal momento che in Macchine orarie leggiamo che l'arciprete di Renazzo, in una lettera inviata alla commissione municipale di Cento, nel settembre del 1849, richiedeva la riparazione dell'orologio del campanile in quanto "tanto necessario al buon regolamento delle sacre funzioni, non che pei segni precisi della Scuola Comunale".

Pare che il primo a usare il termine "orologio pubblico" sia stato il Petrarca, il quale, in una lettera del 1353 ad un amico, ricorda come un petulante visitatore che era andato a trovarlo fosse stato interrotto nel suo chiacchiericcio solo dal suono del "publicum horologium". Ma pare anche che questo suono non sempre venisse ben accetto, soprattutto in presenza di più orologi nella stessa zona che suonavano in modo decisamente discorde, a causa della difficoltà di tenerli regolati e di assegnare a tutti la stessa ora. Si dice infatti che intorno al 1370 Carlo V, frastornato dal continuo scampanio degli orologi parigini, ordinasse che tutte le chiese di Parigi suonassero le campane quando gli orologi reali battevano le ore.6

Avevano così origine i primi tentativi di unificazione e regolazione dei segnali orari. "Nato per misurare il tempo" - scrive Carlo Cipolla - "[l'orologio] impose successivamente agli uomini misurazioni accurate di attività che prima o non erano misurate o lo erano con vaga approssimazione",7 finendo quindi per indurre profonde modificazioni di carattere sociale ed economico, così come è avvenuto per tante altre invenzioni apparentemente di poca importanza: la macchina, scrisse Oscar Wilde, tende a fare dell'uomo una macchina!

 

Ma torniamo alla nostra regione e alla nostra città, Bologna. A margine di una cronaca del principio del Quattrocento è riprodotto un disegno che illustra una piccola campana dentro una finestrella e si trova l'informazione sul primo orologio pubblico di Bologna: "El primo arluoglio che avesse mai el comune de bologna comenzo' a sonare adi' 19 de mazo il 1356, et fo meso su la tore del capitanio, che da la piaza, et felo fare messer Zoanne da uolegio".8 Così come per molti altri orologi dell'epoca, come si è già detto, il meccanismo consentiva solo di far suonare i battiti di una campana e solo successivamente venne aggiunto un quadrante esterno con una sola freccia che indicava le ore: la precisione era così bassa che la freccia dei minuti era del tutto superflua.

Questo primo orologio bolognese venne poi fatto sostituire dal cardinale Bessarione, nella metà del Quattrocento, con uno più moderno posto sulla torre del Palazzo comunale, il quale presentava una ricca mostra con un astro fiammeggiante al centro ed una processione di figure lignee che appariva ad ogni ora. Un vecchio aneddoto, favorito anche da uno scritto di Rubbiani dei primi del Novecento,9 sosteneva che Nicolò Copernico, venuto nel 1496 a studiare a Bologna, avesse tratto l'idea del suo rivoluzionario sistema eliocentrico proprio dall'orologio della piazza, nel quale l'astro fiammeggiante avrebbe rappresentato il sole, mentre la terra ed i pianeti gli avrebbero ruotato intorno. In realtà si trattava di un orologio astronomico-astrologico, simile a quelli che ancora oggi si vedono in molte città d'Europa, come avrebbe poi accuratamente spiegato Simoni nel 1963.10

L'orologio di Bessarione, dopo alterne vicissitudini, venne sostituito nel 1773 con un meccanismo di Rinaldo Gandolfi, ancora oggi visibile e ottimamente restaurato negli anni Ottanta da Giuseppe Fini. Dell'orologio quattrocentesco sono rimasti alcuni personaggi della processione esposti nelle Collezioni comunali d'arte, mentre nulla ci rimane del più antico "arluoglio" posto sulla "torre del capitanio".

È un vero peccato che di quelle antiche generazione di macchine orarie non resti più alcuna traccia né da noi né nel resto d'Europa. Infatti, anche nella quarantina di schede del censimento compiuto dai ricercatori dell'IBC - su circa un centinaio di sopralluoghi effettuati - non appaiono meccanismi precedenti al Sei-Settecento. Il più antico orologio funzionante censito è quello settecentesco della chiesa di San Giovanni Battista a Dosso (Ferrara). È stata rintracciata una macchina precedente (forse secentesca) nella chiesa della Natività della Beata Vergine di Gaibana (Ferrara), ma abbandonata in condizioni di completo degrado in quanto sostituita dopo la guerra con un orologio a movimento elettrico.

Nel volume si può allora seguire - tra le varie schede descrittive e i numerosi documenti d'archivio analizzati - la storia e lo sviluppo di questi oggetti dal Settecento in poi, degli uomini che li hanno faticosamente costruiti e di quelli che, umilmente nel corso degli anni, hanno curato il loro corretto funzionamento, oltre che delle istituzioni pubbliche o religiose che si sono impegnate a reperire fondi e a organizzare la costruzione di queste macchine divenute oramai così importanti per il buon funzionamento della vita cittadina.

Si può così seguire in dettaglio la storia secolare dell'orologio di Modigliana e delle sue vicissitudini, dei quattro orologi della torre di San Giovanni in Persiceto e, in alcune interessanti monografie, della storia di alcuni tra i più noti costruttori della regione e delle loro industrie: la Manifattura italiana d'orologeria di Luigi Beccarelli a Parma, la ditta Melloncelli a Sermide, i Ruggeri a Pian di Lama. Si scopre in tal modo uno spaccato dell'artigianato e dell'industria emilianoromagnola tra la fine dell'Ottocento e la metà del Novecento, con i problemi relativi sia alla crescita industriale dell'epoca e ai suoi rapporti con le pubbliche ammistrazioni, sia alla situazione dei lavoratori impiegati. "La fabbrica del Bertarelli" - recita la relazione pubblicata dalla Camera di commercio di Parma nel 1879 - "[...] è provvista di laboratorio per disegnatori e indoratori, e mantiene al lavoro circa 100 operai fra uomini, donne e fanciulli". E quello che oggi si chiama "lavoro minorile" veniva ampiamente giustificato all'epoca. Infatti nella relazione presentata al Sindaco con le indagini svolte dalla polizia comunale sulla ditta Bertarelli a seguito della sua intenzione di trasferimento a Traversetolo si legge: "[...] inoltre egli [il Bertarelli] spera che sottraendo i suoi operai, specialmente i teneri giovanetti, dalle distrazioni cittadine [di Parma], e dai pericoli del vizio, spera di meglio utilizzarli e di fare di essi probi e buoni operai".

Soffermandosi in particolare ad esaminare la situazione di Bologna, viene presentata una ricognizione sugli orologi cittadini svolta a partire da una analoga del 1925 di Arturo Natali: dei trentasette orologi censiti da Natali, ne sono stati ritrovati oggi solo quattordici e di questi appena tre sono funzionanti! Emerge allora con chiarezza come proprio da questo tipo di censimenti si può sperare che prendanno l'avvio un recupero, un restauro ed una salvaguardia di quel poco che è rimasto a testimoniare una parte di storia della tecnica, della scienza che ha prodotto quella tecnica e dell'ingegno che è riuscito a realizzarla.

 

Note

(1) E. Baiada, F. Bònoli, A. Braccesi, Museo della Specola, Bologna, University Press, 1985.

(2) A. D'Ercole, Storia del tempo, "Giornale di Astronomia", 24, 1998, 3, pp. 2-17 e le numerose referenze che contiene.

(3) E. Pollastri, Visita guidata alla misura del tempo, Ibidem, pp. 18-22.

(4) M.C. Fanigliulo, Sull'orologio di Augusto, Ibidem, 25, 1999, 2, pp. 50-59.

(5) Tractatus de spera Io. De Sacroboscho cum glo. Ro. Anglici, latin text from L. Thorndike, The Sphere of Sacrobosco and Its Commentators, Chicago, The University of Chicago Press, 1949, p. 180; L. Thorndike, Invention of the mechanical clock about 1271 A.D., "Speculum", 1941, 16, pp. 242-243; S.A. Bedini, Clocks and reckoning of time, in Dictionary of the Middle Ages, ed. J.R. Strayer, New York, Charles Scribner's Sons, 1982, p. 459.

(6) Per una storia delle origini e dello sviluppo dell'orologeria cfr.: G. Brusa, L'emblema di "Hora". Origini e sviluppo del computo delle ore all'italiana, "La voce di Hora", 1995, 1, pp. 3-17; G. Brusa, L'arte dell'orologeria in Italia: i primi duecento anni, "La voce di Hora", 1996, 2, pp. 3-31; C. Cipolla, Le macchine del tempo, Bologna, il Mulino, 1996; G. Dohrn-van Rossum, History of the Hour, Chicago, The University of Chicago Press, 1996, pp. 89-91; J.D. North, Monasticism and the first mechanical clocks, in The Study of Time, eds J.T. Fraser and N. Lawrence, II, Berlin, Springer Verlag, 1975, p. 385.

(7) C. Cipolla, cit., p. 89.

(8) Cronaca della Città di Bologna, di ignoto autore, dall'892 al 1420, codice cartaceo ms. n. 1090, Bologna, Biblioteca dell'Archiginnasio.

(9) A. Rubbiani, L'Orologio del Comune di Bologna e la Sfera del 1451, Bologna, Zanichelli, 1908.

(10) A. Simoni, L'orologio pubblico di Bologna del 1451 e la sua sfera, "Culta Bononia", V, 1963, 1.

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