Rivista "IBC" VIII, 2000, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne
Fosse concesso aggiungere un sottotitolo all'intestazione dichiaratamente programmatica scelta per la mostra "Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa" (Museo civico archeologico di Bologna, 1 ottobre 2000 - 1 aprile 2001), nulla potrebbe essere più appropriato dell'espressione popolare "il buon giorno si vede dal mattino". Mentre le manifestazioni del primo Ferro comunemente note con il nome di villanoviano hanno, per rimaner sotto metafora, la timida luminosità dell'aurora, l'età seguente possiede infatti tutto il fulgore di un'alba che annuncia il divenire di una cultura proiettata di qui in poi verso le sue vette più avanzate.
E non si allude all'abbagliante fastosità della cultura materiale che accompagna, come sempre del resto in ogni luogo e in ogni tempo, l'ascesa degli áristoi e che pure giustamente delizia con connotazioni inusitate e rare gli occhi dei molti visitatori, ma alla nascita di strutture ideologiche, sociali, istituzionali adombrate dallo straordinario florilegio di documenti, selezionati ed esibiti con la massima cura combinando la rilevanza artistica con il valore testimoniale.
Molti sono i modi per connotare un periodo tutto sommato breve in prospettiva storica - poco più di un secolo - ma così cruciale sotto il profilo del processo formativo. "Età dei principi", quando l'accento cade sull'emergere e il consolidarsi di un ceto di optimates, annunziato e sancito dalla diffusione di beni suntuari e dalla prammatica ostentazione di status symbol. "Orientalizzante", qualora si voglia mettere a fuoco quel rapporto privilegiato istituitosi fra il Mediterraneo, al cui centro la penisola italiana giace incastonata come transito spontaneo verso l'Europa, e il Vicino Oriente, terra favolosa di merci lussuose ed esotiche, ma anche di uomini, di idee, di modelli.
Fuori d'ogni questione nominalistica, fra le numerose espressioni definitorie proponibili, nella sua disadorna efficacia interpretativa ci pare colga esattamente nel segno quella di uno dei massimi etruscologi italiani, che vi vede un'epoca di transizione, nella quale la protostoria cede il passo alla storia, al tramando orale si sostituisce la scrittura, l'insediamento protourbano diviene città.
Se l'Italia è un paese di città, se gli Etruschi vanno, e a ragione, considerati una grande civiltà urbana, dal momento che nessuno come loro ha dato vita nella prima Italia ad un sistema di entità insediative dotate di tutte quelle caratteristiche spaziali, organizzative, tipologiche che conosciamo come "città" e che costituiscono l'eredità più originale e duratura trasmessa ai posteri, questo è l'istante preciso di maturazione delle premesse necessarie al passaggio dall'arcaica esperienza dei villaggi agli incipienti fenomeni urbani.
In simili conquiste, tappe di un percorso che avrà il suo naturale epilogo nei secoli venturi, si condensa compiutamente la capacità tutta etrusca di farsi interpreti e mediatori fra culture, di appropriarsi e di saper rielaborare quanto di meglio sono stati in grado di esprimere i popoli con cui gli antichi abitatori della Toscana, del Lazio, della Campania, della Padania sono venuti in contatto, hanno commerciato, intrattenuto rapporti. Non finirà mai di stupire l'ineffabile reattività e fluidità del tessuto sociale etrusco, sempre pronto ad accogliere nel proprio seno genti e maestranze alloctone, tutto proiettato a valorizzare in ottica squisitamente economica - si intende - saperi e competenze, perizia tecnica e valentia artistica. E in ciò apparentemente indifferente agli assetti che lo vedevano politicamente contrapposto (si pensi ai conflitti con i Greci sul Tirreno) proprio alle compagini d'origine degli artigiani e degli artefici stabilitisi in sì gran numero nei centri dell'Etruria costiera e interna.
Nella sequenza di testimonianze archeologiche che come in una "camera delle meraviglie" compendiano le più significative espressioni della quotidianità e dell'ideologia dell'epoca, non è affatto agevole, neppure con lo smaliziato soccorso dello specialista, mettere in risalto eccellenze e novità. Tutto appare di altissimo rilievo, a cominciare dallo stupefacente corredo funerario della necropoli reale di Salamina di Cipro con il suo trono, eloquente incarnazione della poetica omerica, per finire con le masserizie e le proprietà personali del principe celta di Hochdorf, evocativa sintesi del carattere divulgatore della civiltà etrusca. Veri alfa e omega della mostra questi complessi, sospesi fra Oriente ed Europa, posti come sono al principio e al termine del percorso espositivo.
Quanto a novità, nulla può dirsi tale in senso stretto, vista la copiosità di materiali da tempo noti nella letteratura e negli studi di settore. Non pochi fra essi rimandano anzi ad autentici tópoi della scienza etruscologica, che la brevità di spazio necessariamente priva di una citazione esauriente: gli antenati del palazzo di Murlo, la situla di Plikasna, l'ossuario Paolozzi, la tavoletta di Marsigliana, il vaso di Duenos, la fibula di Manios, la stele Malvasia Tortorelli. Per non dire di alcuni degli eleganti reperti della Tomba Regolini Galassi: la prima sepoltura che abbia svelato al mondo, nella ormai lontana temperie dell'archeologia romantica dell'esordiente Ottocento, chi fossero davvero i principi etruschi, divenendo una vera pietra angolare della museografia etrusca fondata nel cuore stesso del complesso museale vaticano.
Eppure proprio in ciò risiede probabilmente uno dei meriti maggiori della mostra. L'aver scelto di porre fianco a fianco e a diretto raffronto come in una synopsis oggetti prelevati da luoghi e da insiemi diversi e lontani, svincolandoli dalle più consuete - e meno comprensibili per il pubblico - letture di contesto o lungo l'asse cronologico, per riproporne invece una interpretazione in chiave tematica, così che ogni elemento della vita dei principi possa essere messo in luce nelle sue molteplici sfaccettature, nella complessità delle connessioni interne, nell'intreccio di rapporti con l'universo esterno. Con la consapevolezza, insomma, che era davvero tempo di una sistematizzazione e di una categorizzazione delle conoscenze, sintomo di maturità disciplinare e preludio a nuovi traguardi.
Qualche breve considerazione andrà tuttavia riservata ad almeno due aspetti che per la loro minore appariscenza non stimolano forse nel visitatore l'interesse che meriterebbero. L'apprendimento della scrittura, in primo luogo, qui peraltro illustrato da insigni e vetusti monumenti epigrafici di capitale importanza, esattamente sulla soglia fra una penisola di popoli senza litterae e un'Italia divenuta letterata grazie al tramite etrusco. Non v'è alcuna esibizione di magnificenza e di prestigio, attraverso qualunque mezzo perseguita, che racchiuda in sé come la parola scritta il potere del futuro, che sia capace di consegnare il presente, anche quello dei principi, all'immortalità della memoria. Al monumentum aere perennius rappresentato da ciò che "in quanto scritto sarà per sempre" i principi etruschi e tutti coloro che sono venuti dopo - intuendone l'impareggiabile forza comunicativa - hanno affidato la dichiarazione della loro esistenza e del suo significato all'interno della comunità degli uomini.
Come non rimarcare infine che ora è anche il momento del fissarsi di un lessico istituzionale e della prima rappresentazione delle forme del potere: asce, bipenni, fasci, scettri, tutti attributi che parlano con il loro carico di simbolismo il linguaggio eterno dell'autorità temporale o religiosa, testimoni perfetti del conservatorismo tenace che al potere indissolubilmente si unisce attraverso i secoli. E che nessun oggetto meglio del lituo/pastorale, ieri strumento del sacerdote-augure e poi del magistrato, oggi insegna della potestà ecclesiastica, potrà mai esemplificare.
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