Rivista "IBC" VIII, 2000, 4
musei e beni culturali / interventi, pubblicazioni
Muse in California
Dopo la rievocazione dell'"allegria mondana e musica giovane" degli anni più spensierati, unita al ricordo degli avvenimenti culturali e salottieri di rilievo tra Europa e States, con la nostalgia appena percettibile dell'evasione e della leggerezza perduta della giovinezza, ecco la descrizione del primo Getty Museum, "la famosa Villa dei Finti Papiri, epitome allora del Kitsch più divertente e ridicolo", come annota il narratore, il quale si rappresenta "in pose e basette sfrontate e collane e bermudas d'epoca tra quegli ameni marmi e bronzi falso-tardoromani e le aiuole 'botanicamente storiche' e i cespugli 'storicamente autentici' in un candido peristilio ercolaneo tutto abbagliante di colonnati e criptoportici nuovissimi".
Poi l'occhio prismatico di Arbasino si concentra sul nuovo museo losangeleno opera di Richard Meier, che il critico d'arte del settimanale americano "Time" Robert Hughes definiva "il più costoso complesso architettonico mai dedicato alle arti e, secondo certi calcoli, il più costoso edificio della storia americana". Ma le ragioni nascoste di questa operazione del mecenatismo, simbolo della brama d'arte del Nuovo Mondo, non sfuggono all'osservatore esperto, il quale spiega che "sono immediatamente chiari i programmi di investimento e di immagine. Da parte del vecchio Getty: un landmark di visibilità e spesa ineguagliabile, come riscatto postumo per un autocrate in odor di parsimonia".
I materiali usati per la costruzione sono l'alluminio smaltato, il vetro e sedicimila tonnellate di travertino in blocchi fulvo pallido importati da Bagni di Tivoli e tagliati con una speciale "ghigliottina", per ottenere l'effetto di una superficie scabra, che assorbe anziché riflettere la luce. In questo caso Richard Meier ha rinunciato al bianco assoluto delle sue creazioni a favore della sfumatura light tan delle parti metalliche, la quale rende ugualmente accecante questa "big rock candy mountain", ovvero gli abbaglianti edifici del Getty simili a una montagna di zucchero candito: "Tutto nuovissimo nella luce californiana intensissima, con un effetto-zucchero-ne-varietur più abbacinante delle fiancate del Milite Ignoto a Ferragosto, dei Canova raschiati e rasati dell'Ermitage".
Con l'inevitabile richiamo a paesaggi italici inizia il gioco pirotecnico di analogie che accompagna la visita agli edifici del Getty, "tutto un Ritorno del Rivisitato, per noi: una Piazza Augusto Imperatore senza mausoleo, ma con tanti scorci scombinati e riciclati dell'Eur, senza pini di Roma. Come in un piccolo campus frammentario e omogeneo". La cittadella a picco sulla San Diego Freeway si può raggiungere solamente con un trenino a monorotaia che conduce i visitatori sulla collina, "instant-borgo storico e organico molto medioevale tipo Orte e Baschi", però l'apparizione risulta "scadente e deludente dal basso e dalle macchine (ma non si va per highways a piedi...), come un assemblaggio di prefabbricati per sismi umbri: siamo sulla fatale faglia che teme sempre il definitivo terremoto Big One". Per di più l'uniformità biancastra del travertino congiunta alla disarmonia dei volumi sfalsati e spezzati crea un senso di spaesamento, accentuato dall'aspetto postcubista di questa sorta di borgo medioevale con vaghe reminiscenze littorie che disorienta il visitatore, smarrito nella fitta selva di tubi, grate, "sbarre, spranghe, grappe, graffe, staffe, non funzionali ma esornative: e l'immagine sa di rimediato, adattato, nel protendersi geometrico e 'fine a se stesso' di inferriate e ringhiere e ballatoi e tettoiette superflue sopra e sotto e davanti e dietro le superfici di travertino che giustappongono il Levigato al Rugoso come ai bei tempi del Crudo e del Cotto, della Trasparenza e dell'Ostacolo, dell'Arte e dei Sogni".
E così, attraverso cataloghi e iperboliche enumerazioni, figure peculiari di uno stile esuberante e fosforescente, si scoprono i particolari di un'architettura che inevitabilmente influisce sulla ricezione delle opere esposte, imponendo allo spettatore una relazione particolare con l'arte, che tuttavia in questo caso sembra perdere un requisito fondamentale come l'accessibilità. Non per nulla Martin Filler, recensore della "New York Review of Books", sottolineava che la posizione arroccata e la necessità di prenotare la visita in anticipo impediscono di "entrare nel Getty con la stessa impulsività con cui si può decidere di entrare al British Museum di Londra o al Metropolitan di New York".
E il confronto con altri musei costituisce il motivo dominante delle pagine ironiche, a tratti corrosive, di Arbasino, il quale secondo la lezione di Roberto Longhi esercita l'occhio del conoscitore traducendo i quadri in parole, ma con uno stile del tutto personale che tende a moltiplicare le prospettive, rifrangendo la descrizione in un caleidoscopio inesauribile di aneddoti e ricordi. E proprio nel fluire inarrestabile di tali associazioni si intrecciano gli itinerari multipli della memoria, a formare la trama complessa di una narrazione che somiglia piuttosto a una conversazione tra amici. Svagato flâneur con il gusto della divagazione, l'autore entra nelle sale del museo abbaglianti di luce naturale, "la famosa luce losangelena fulgida come in Grecia", soffermandosi sulla collezione dei dipinti, i quali offrono il pretesto a vertiginose analogie. Al tempo stesso però questa sofisticata causerie non perde mai la lucida misura illuministica che contraddistingue Fratelli d'Italia, con la stessa ironia unita a un'autentica passione civile che racconta il presente denunciandone le contraddizioni in tono apparentemente frivolo e mondano.
Al ritmo vorticoso di questa penna wildiana si scoprono poi anche gli altri edifici del Getty Center, la biblioteca di settecentomila volumi, l'auditorium, il ristorante e gli istituti dedicati a lavori di ricerca, informazione e restauro. Ma attraverso le divagazioni disinvolte e audaci di questo snob dotto e curioso, che giudica l'arte da vero "arbiter novarum rerum" (come avrebbe detto Benjamin), emerge l'analisi delle strategie gestionali del Getty, organizzato come un disneyano parco dei divertimenti pronto ad accogliere "i più diversi utenti", per trasformarsi in luogo di "socializzazione e aggregazione trasversale", tra "allegri gitanti" e "comitive che si chiamano con sigle e i piccini che corrono fra i Mabuse e i Cézanne e i genitori che giocano con i neonati che strillano e poppano fra gli acquarelli di Schongauer e i busti di porcellana di Luigi XV e i Nuovi Testamenti bizantini, in attesa del picnic".
È l'evoluzione del museo, non più tempio di culto e santuario per la conservazione del "Passato Artistico", ma centro della società locale per il "coinvolgimento collettivo", ovvero "museo di comunità istantanea" con allestimenti e collezioni in continuo mutamento e movimento "come programmi di cinema e teatri o gli arredi delle signore impazienti". Affiora qui lo stesso spirito caustico che colpiva i costumi e malcostumi italici rappresentati come in un quadro di Bruegel affollato e gremito di zombi e cloni passivi, nonché "le grandi omogeneizzazioni contemporanee collettive" di Paesaggi italiani con zombi, che si concludeva con una battuta tagliente sull'attuale conformismo: "Quando eravamo sentimentali e soft, di fronte alle grandi masse inconsce e amorfe si diceva volentieri: un gregge di pecorelle eterodirette. La nostra speranza. I giovani. E mo'?".
E il flâneur in visita nelle dimore più prestigiose delle muse californiane mostra ancora la stessa apparente noncuranza, contaminando con disinvoltura elementi eterogenei nella stanza della memoria, dove si raffigura con simulata leggerezza un nuovo connubio di Arte e Vita nell'immenso sciocchezzaio flaubertiano del contemporaneo. È una lezione fra sorridente e aspra, che vale anche per noi, in un'Emilia-Romagna padana e adriatica.
Bibliografia
A. Arbasino, Fratelli d'Italia, Torino, Einaudi, 1978 (Milano, Adelphi, 2000).
Id., Paesaggi italiani con zombi, Milano, Adelphi, 1997.
Id., Le muse a Los Angeles, Ibidem, 2000.
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