Rivista "IBC" VIII, 2000, 3

musei e beni culturali / progetti e realizzazioni

E i nostri Celti? Dormono sulla collina

Fiamma Lenzi
[IBC]

Nell'immaginario collettivo degli italiani l'idea dei Celti - o dei Galli, come sono meglio conosciuti - è tutta racchiusa fra i due estremi del celebre Vae victis! intimato da Brenno ai romani costretti a capitolare e del De bello gallico, cronaca ufficiale delle gesta che, rovesciate le sorti, vedranno l'imporsi del dominio romano sui "barbari" per eccellenza. Tutt'al più potranno tornare alla mente di alcuni le splendide immagini del Galata morente e del Galata che si suicida con la moglie filtrate attraverso la raffinatissima idealizzazione scultorea dell'arte ellenistica.

Eppure, fra le reminiscenze di una scolastica istituzionalizzata della storia, alimentata solo di pillole/icone senza che nulla o quasi del lavoro dell'archeologia vi faccia breccia, e quella conquista che ha spalancato all'Italia le porte di nuovi mondi, così familiare non già grazie agli immortali Commentarii di Cesare, ma per le imprese di Asterix ed Obelix scaturite dalla matita e dalla penna del duo Goscinny-Uderzo, c'è molto, davvero molto di più. E c'è un "prima". Pagine importanti di una storia nazionale che non avrebbe potuto essere né scritta né narrata se anche questo popolo non ne fosse stato protagonista, non ci avesse lasciato così cospicue vestigia di sé.

Il filo conduttore del celtismo ha infatti per il nostro paese radici inimmaginabilmente profonde, che si spingono a ritroso fino alle soglie stesse della storia. Quando coll'emergere degli éthne che comporranno il complesso mosaico dell'Italia antica si manifesta tra altre, nella porzione nordoccidentale della penisola, la cultura di Golasecca. Nel suo ambito almeno da una certa data - quella testimoniata dall'apprendimento delle litterae - si parla un dialetto che ne dichiara l'inequivocabile origine celtica.

Risuona poi viva la voce delle fonti letterarie. Tito Livio, principe degli storiografi, racconta di Galli discesi in Italia addirittura al tempo di Tarquinio Prisco. Ma anche nell'onomasticon etrusco, ligure, venetico, umbro, ossia di tutti i principali popoli della prima Italia allignano casi ove - a torto o a ragione, a seconda delle diverse opinioni espresse dai linguisti - è lecito intravedere una celticità italiana che antecede la tradizionale calata dei Galli nota a tutti, che autorizza a riconoscere elementi celtici in qualche modo aggregati/integrati nelle comunità locali.

Per non dire della cultura materiale, del via vai di oggetti, mode, beni di lusso, materie prime che fra VII e inizi del V secolo a.C. varcano in un flusso costante la catena alpina alla volta dell'aristocrazia celtica d'oltralpe, spesso per il tramite e con la mediazione degli Etruschi, che risultano competitivi avendo nella Padania la loro principale testa di ponte sostenuta da una robusta trama di città capisaldi del controllo di terra (Bologna/Felsina, Melpum, Mantova) e di centri portuali come Spina, vera "porta" mediterranea.

Questi ed altri aspetti, come la penetrazione nel settentrione italiano di accessori dell'armamento celtico, inusuali ed estranei al vestiario locale, spiegano e fanno comprendere come l'irruzione dei Celti transalpini nella pianura del Po agli esordi del IV secolo a.C. sia circostanza tutt'altro che isolata e affatto pianificata. Un simile avvenimento muove dunque da un retroterra nutrito di rapporti e di legami che rappresentano l'obbligatoria premessa alla loro espansione e insediamento nell'Italia del nord, da dove poi si spingeranno verso Roma. Il loro arrivo sancisce l'inizio di circa duecento anni cruciali di storia contrassegnata dal dissolversi di molti dei solidi assetti politici del passato e conclusasi, dopo alterne vicende, scontri, alleanze e controalleanze, con l'imposizione della pax romana.

Gli ultimi due decenni sono stati sicuramente i più fecondi per l'archeologia dei Celti nel nostro paese, sotto lo stimolo di un rinnovato fervore delle ricerche sul campo. Vi hanno anche contribuito importanti occasioni scientifiche sfociate nella grande mostra del 1991 a Palazzo Grassi, nella quale la necessità di riunire in un unico e vasto affresco la molteplicità di manifestazioni e di fisionomie di questo popolo e l'aver opportunamente scelto di rimarcarne il carattere davvero paneuropeo hanno un po' stemperato e messo in ombra la realtà italiana, pur inserita con presenze eccellenti come quella di Monte Bibele.

La recente inaugurazione del Museo di Monterenzio, legato alla scoperta e alla valorizzazione scientifica di questa "cittadella" boica, sorta nel cuore dell'Appennino bolognese in seguito all'affacciarsi dei Galli Boi e alla conquista di un ampio spazio territoriale fra Parma e Rimini, porta nuovamente alla ribalta il tema dell'apporto celtico alle vicende padane, riproponendolo agli studiosi e al pubblico attraverso un organismo museale aggiornato che è, e rimarrà per molto tempo ancora, l'unico del genere nel nostro paese.

Non che manchino in Emilia-Romagna le testimonianze, anche di un certo rilievo, collegate all'arrivo dei Boi. In fondo è ben documentato un "secondo tempo" di Bologna, dopo che fu Felsina etrusca e prima che divenisse Bononia romana. Sopravvivono in qualche modo parecchi altri centri, alcuni di illustri ascendenze come Marzabotto. Non sono poi poche le tracce archeologiche disseminate entro i due limiti geografici ad occidente e ad oriente della regione.

Nessuna delle evidenze ricordate ci appare però così emblematicamente significativa come Monte Bibele, per la singolare occorrenza dell'essersi ugualmente, e insieme, conservati l'abitato e la necropoli. Ma anche per il suo aderire in modo tanto puntuale alla descriptio liviana della organizzazione territoriale impostasi dopo il collasso etrusco. Una organizzazione che in una maglia fitta di piccole comunità arroccate nell'entroterra montano, talora binate sui due opposti versanti vallivi come in un gioco di rispecchiamenti, sceglie la chiave di volta per assicurarsi il controllo del territorio, per la costruzione di una linea continua di difesa in grado di sbaragliare gli attacchi esterni, "naturalmente" favoriti dalle vie di penetrazione intrappenninica.

In questo insediamento è inscritta, infatti, per intero e in modo esemplare la parabola dei Celti sudpadani: l'incontro/scontro con gli Etruschi, il prevalere della componente celtica che identifica sé stessa come guerriera e attribuisce all'armamento il valore distintivo di ruolo e di rango all'interno della comunità, il tempo della "normalizzazione" dei rapporti e dell'integrazione con gli antichi dominatori, le alleanze politiche, i matrimoni interrazziali, l'adozione di particolari abitudini funerarie - le stesse della Keltiké d'oltralpe - come la "distruzione" rituale delle armi, il ripristino di costumanze ed usi degli Etruschi, che preferiscono invece rappresentare il proprio status attraverso altri simboli.

E infine Roma, che spezza ogni resistenza e mette il territorio a ferro e a fuoco. Su Monte Bibele incendiata e sui Celti cala il silenzio. Si fondano o si rifondano le città, le si inanella lungo l'antica pista pedemontana, si aprono i collegamenti con il cuore della penisola. Si ristabilisce insomma un nuovo equilibrio.

Il museo dà conto di tutta questa vicenda, inserendola storicamente nella diacronia di un settore dell'Appennino bolognese sempre in primo piano sin dalla preistoria, con la perizia e la dottrina che derivano ai suoi curatori - gli studiosi dell'Ateneo bolognese - da un lavoro di recupero, di ricerca e di valorizzazione durato vent'anni, tenacemente perseguito insieme all'Amministrazione di Monterenzio e agli altri enti che a tale progetto hanno creduto, nella consapevolezza del rilievo che questo patrimonio e la struttura che lo custodisce hanno ed avranno in ambito regionale, nazionale, europeo.


Cosa c'è da vedere?

Sono molte le chiavi di lettura che il nuovo Museo "Luigi Fantini" a Monterenzio è in grado di offrire ai suoi visitatori, tutte ugualmente stimolanti, tutte altrettanto significative

L'essere in primo luogo un museo territoriale, e quindi profondamente radicato nella realtà locale, consente di restituire memoria ad un singolare contesto ambientale come quello delle vallate dell'Idice e dello Zena, ripercorrendone gli eventi, interpretando il significato dei "segni" dell'uomo, leggendo la varietà di aspetti di un paesaggio a cui proprio l'antropizzazione ha conferito dimensione, forma e volto.

Fra le numerose testimonianze storiche distribuite in un lungo arco di tempo che dalle prime frequentazioni umane durante il Paleolitico tocca l'epoca della romanizzazione, spicca l'eccezionale deposito votivo risalente al V secolo a.C. rinvenuto sulle pendici di Monte Tamburino. Si tratta di circa duecento statuette schematiche di bronzo raffiguranti devoti e devote in atto di preghiera e centinaia di vasi in miniatura che, con la loro funzione di ex voto, documentano l'esistenza di un luogo sacro, ove si praticavano culti salutari forse legati alle acque, frequentato dalle genti che imboccavano le vie di crinale alla volta del CentroItalia e viceversa.

Un secondo, forte elemento di interesse risiede nell'inscindibilità del collegamento con l'insediamento etrusco-celtico di Monte Bibele, la sola area archeologica visitabile nel Bolognese insieme a Marzabotto. Esiste anzi fra questi due centri un indiscutibile rapporto di complementarità storica e archeologica, che non deriva solo dalla loro perfetta leggibilità in ognuna delle parti costitutive (abitato, necropoli, aree di culto), ma anche dal rappresentare il primo un intatto organismo urbano, fondato ex novo per volontà degli Etruschi, e come tale emblematico dell'organizzazione politico-territoriale da essi stabilita a partire dalla metà del VI secolo a.C., e il secondo l'esito del crollo di tale visione ordinatrice agli inizi del IV secolo a.C. sotto la spinta dei Celti e l'instaurarsi di un nuovo modello insediativo e demografico magnificamente esemplificato appunto dal sito.

Ampio spazio nel percorso museale viene perciò dedicato ai diversi aspetti della vita quotidiana di questo villaggio - le attrezzature domestiche, le attività produttive, i commerci - rivisitata attraverso le vestigia della cultura materiale. Allo scopo di contestualizzare gli oggetti rinvenuti nel corso delle campagne di scavo e di renderne più agevole la comprensione, con grande efficacia espositiva viene presentata al centro dell'edificio la ricostruzione al vero di una dimora tipica dell'insediamento d'altura, fedele nelle caratteristiche costruttive, nella ripartizione interna degli spazi, nella dotazione di suppellettili ed arredi.

Il carattere di unicità del museo di Monterenzio come sede di uno dei più cospicui complessi di materiali celtici conservati in Italia è messo in luce attraverso i corredi funerari restituiti dalla necropoli. Le circa centosettanta sepolture ad inumazione e cremazione, accompagnate da vasellame in ceramica e bronzo per il banchetto funebre, da manufatti connessi con l'abbigliamento e l'ornamento della persona, la cosmesi, le attività ginniche, le occupazioni muliebri, disegnano e compongono un mosaico pressoché completo delle costumanze, dei riti e delle consuetudini adottate dagli abitanti del luogo.

Su tutti primeggiano per importanza e per interesse, non solo scientifico, gli elementi e gli accessori connessi con l'armamento, che è esclusivamente di tipo celtico e palesa confronti e analogie strettissime con l'ambiente europeo: spade di ferro con relativo fodero, lance e giavellotti, i diversi sistemi di sospensione delle armi al cinturone nelle evoluzioni di foggia affermatesi col tempo. In questa comunità militarizzata, nella quale il ruolo del guerriero ha il dovuto risalto, come particolare segno di distinzione fa la sua più occasionale comparsa fra gli oggetti destinati al defunto l'elmo, che assume talora forme simboliche e cerimoniali. Come lo straordinario esemplare da parata con corna in lamina di bronzo, destinato con ogni evidenza alla sepoltura di un capo.

 

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