Rivista "IBC" XXVIII, 2020, 1
territorio e beni architettonici-ambientali / interventi, pubblicazioni
La casa farmaceutica Aboca ha un comparto editoriale, che ha inaugurato nel 2019 la collana “Il bosco degli scrittori” con un mio libro intitolato L’olmo grande. È stata un’occasione per riunire molti temi della mia scrittura, intessendo alla riflessione diversi livelli narrativi.
Provo a riassumere i temi principali.
L’industrializzazione delle campagne, che corrisponde alla fine della civiltà contadina, è arrivata nel luogo dove vivevo alla fine degli anni Sessanta, quando avevo dagli otto ai dieci anni. In precedenza c’era stato solo l’apparire di qualche macchina agricola, che non aveva modificato nulla della vita di allora. Poi, come un’onda feroce che strappa via la terra sotto i piedi, nel giro di due o tre anni, quello che era stato un paradiso di vegetazione, di acque e di animali diventa un deserto dominato dalle monocolture intensive. In pianura, tutto ciò è stato più facile e veloce. Un ambiente, non solo naturale, ma anche umano, viene spazzato via. È l’esito definitivo di una mutazione antropologica iniziata, negli stessi luoghi, poco più di un decennio prima dall’industria manifatturiera, che aveva determinato il parziale abbandono dei campi e l’emergere di una figura sociale, ironicamente definita “metalmezzadro”, che ancora alternava il lavoro in fabbrica alla cura dei campi.
Non si può nascondere che la furia della modernità imponeva una certa euforia al compimento del disastro: la vita contadina era faticosa, sempre incerta, tenuta insieme da legami familiari di particolare durezza. C’era molta speranza in una vita migliore. E nel furore del mutamento neppure ci si rendeva conto che si stava cancellando un mondo.
A questa trasformazione del “terreno di vita” si accompagnava una alterazione culturale profonda della vita in tutti i suoi aspetti relazionali, dalla famiglia alla contrada, all’intero paese. L’autonomia acquisita dai giovani, donne e uomini, comportava l’accesso al paradiso dei consumi, ma anche la percezione di una nuova solitudine sociale, di una fragilità nei rapporti, di una ricerca di nuove forme di vita che significavano perdita di memoria (non della propria, certo, ma dei simboli, della lingua) e, con la memoria, di una parte di se stessi. Nel turbine di quegli anni si consuma il distacco di due generazioni dalla precedente: i figli dei contadini che accedono al mondo industriale, e i figli di questi ultimi che vanno incontro a una realtà ancora diversa attraverso un percorso di studi superiori. Nelle famiglie, nelle comunità, all’antico impasto di amori e rancori subentra l’indifferenza, alla solidarietà obbligata l’egoismo programmatico. Quanto si risolveva prima sul piano pratico, deve poi attraversare il muro delle differenze ideologiche.
Di tutta questa devastazione è rimasto, per lungo tempo, in fondo ai campi dietro la casa dove ho vissuto per decenni, un grande olmo. E per molto tempo è stato un landmark, lo si vedeva da grande distanza, ma anche il simbolo del passato e insieme una potente presenza.
L’olmo è stato colpito, però, dalla grafiosi, la “malattia degli olmi”. E la sua assenza ha contato nella memoria, come realtà e come metafora, quanto aveva contato la sua presenza.
L’intreccio di narrazioni e riflessioni presenti nel libro porta verso la scoperta personale di qualcosa che prima non era mai venuto per me stesso a chiara coscienza: non sono stati solo gli animali a sviluppare una simbiosi, una coappartenenza nello stesso “terreno di vita” con gli esseri umani, ma anche gli alberi. Nella realtà del lavoro e dell’esistenza quotidiana, gli alberi hanno per millenni intrecciato la loro vita alle vicende umane. Sono stati realtà e simbolo, parte dell’ambiente e vita viva.
L’attitudine attuale a guardare gli alberi come fonte di soddisfazione estetica o attraverso il filtro di un parziale pensiero ecologico non rende ragione alla complessa storia che gli alberi hanno condiviso con gli umani e che ancora condividono (proprio come gli umani, destinati a risolvere la loro esistenza nella dicotomia tra produzione e consumo).
Una vera ecologia tiene conto del fatto che non è compito dell’uomo “salvare la natura”, ma è necessità dell’intera specie umana salvarsi attraverso un nuovo patto con la natura. Prina di tutto con la propria natura, ovvero con la totale, inappropriabile e allo stesso tempo inesorabile appartenenza terrestre. La consapevolezza “leopardiana” che la natura è violenta (e del fatto stesso che la natura prevede la mia morte) deve farci riconoscere la violenza umana come qualcosa che va accettato e costantemente curato, come la cura della nostra esistenza sociale e individuale deve prestare opera costante alla natura.
Nella vicenda delle civiltà storiche, che è solo un battito di ciglia rispetto alla vita del pianeta terra e all’evoluzione umana, si deve pensare di nuovo alla storia non soltanto come storia dell’umanità, ma come storia di tutti gli esseri viventi, animali e piante. Solo così si potrà fondare un pensiero ecologico più vero e completo.
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