Rivista "IBC" XXV, 2017, 1
Da più di un lustro, si parla molto di dati e contenuti aperti (o Open Data e Open Content) nel settore dei beni culturali. Malgrado alcuni sottolineino, non senza qualche fondamento, che le elucubrazioni teoriche siano ancora più numerose dei progetti applicati e ben strutturati, la disponibilità di dati liberamente riutilizzabili relativi al nostro patrimonio culturale è significativa ( 1), e pare in rapida crescita.
Ma cosa si intende per dati e contenuti “aperti”? La definizione di “conoscenza aperta” ( http://opendefinition.org/od/2.0/it/) è un riferimento quasi universalmente accettato per precisare il significato dell'aggettivo “aperto” (open) applicato alla conoscenza. In sintesi, “ La conoscenza è aperta quando chiunque ha libertà di accesso, uso, modifica e condivisione [in relazione] ad essa – avendo al massimo come limite misure che ne preservino la provenienza e l’apertura”. I riferimenti normativi del nostro ordinamento, come l'Art. 68, c.3 del CAD (Decreto legislativo 82/2005 e s. m. i.), sono sostanzialmente coerenti con questa definizione.
Coerentemente con quanto descritto dalla versione completa della definizione di conoscenza aperta, e come ho avuto modo di argomentare altrove in maggior dettaglio ( 2), dati e contenuti aperti hanno bisogno di licenze aperte. Siccome, infatti, la Legge sul Diritto d'Autore e diritti connessi (L. 633/1941) conferisce in modo automatico ampli diritti esclusivi ai titolari, proteggendo un gran novero di creazioni dell'ingegno, la libertà di uso, modifica e condivisione dev'essere esplicitamente concessa ai terzi, tramite uno strumento giuridico quale la licenza. Lo stesso CAD riconosce questa esigenza, elencando tra le caratteristiche dei “dati di tipo aperto” il fatto di essere “disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l'utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato” (oltre alla gratuità e alla disponibilità online, in formato machine readable).
Nell'ambito dei beni culturali, due sono le principali categorie di dati e contenuti che si tende a mettere a disposizione di chiunque, in modalità aperta. Da un lato, il gran novero di metadati prodotti da ricercatori, catalogatori, curatori e altri professionisti del mondo GLAM (Galleries, Libraries, Archives, and Museums). Dall'altro le riproduzioni fotografiche dei beni stessi (e parlo solo di queste, poiché è scontato – in termini di diritto d'autore – che il contenuto testuale di libri e documenti antichi sia nel pubblico dominio, salvo le norme su edizioni critiche e simili).
È fuori di dubbio che molte riproduzioni fotografiche siano tutelate dal diritto d'autore – nei casi in cui una fotografia sia genuinamente creativa, o addirittura artistica –, ovvero dal più limitato diritto connesso sulle fotografie, di durata ventennale. Quest'ultimo, infatti, tutela con un diritto esclusivo “le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale,” ivi “comprese le riproduzioni di opere dell'arte figurativa”. ( 3) Tale diritto spetta al fotografo, ed è eventualmente trasferito al datore di lavoro o all'ente che commissiona la fotografia.
Per quel che riguarda i metadati relativi ai beni culturali, è abbastanza pacifico che parte di essi non siano tutelati direttamente dal diritto d'autore (con l'eccezione di testi descrittivi, dove la creatività e l'ingegno del ricercatore e catalogatore siano più rilevanti della mera rilevazione tecnico-scientifica), ma ciò non risolve il problema, poiché il nostro ordinamento prevede un diritto speciale (c. d. diritto sui generis) sulle banche di dati, che nasce in capo al costitutore delle stesse, ovvero – di norma – l'ente che sostiene l'investimento rilevante necessario a costituire la banca dati stessa. Non potendo entrare, in questa sede, nei complessi dettagli relativi alla proprietà intellettuale sulle banche dati, in prima approssimazione si può dire che i database sono tutelati da un diritto connesso al diritto d'autore, che analogamente al diritto d'autore stesso non ha bisogno di alcuna registrazione, e dunque protegge automaticamente i beni immateriali, nel momento stesso in cui vengono creati.
Dunque, dati e contenuti aperti richiedono licenze aperte. E, tra queste, le più diffuse sono di gran lunga le licenze standard del progetto Creative Commons. ( 4) (A queste licenze se ne sono ispirate molte altre: nel caso dell'Italia e dei dati e contenuti pubblici, si può citare, in particolare, l'Italian Open Data Licence, oggi disponibile nella sua versione 2.0: www.dati.gov.it/iodl/2.0/.)
Creative Commons (CC) è un’associazione senza scopo di lucro, legalmente basata negli Stati Uniti, ma sostanzialmente internazionale, grazie a gruppi di lavoro in più di 85 paesi. L’iniziativa fornisce agli autori di opere creative di ogni genere uno strumento giuridico semplice, atto a gestire il loro diritto d’autore in modo “aperto”.
Anziché seguire il modello “tutti i diritti riservati” (che si applica automaticamente nel silenzio dell’autore, sottraendo molte opere alla possibilità di libera circolazione e successive trasformazioni), CC offre la possibilità di far circolare le proprie creazioni mantenendo solo “alcuni diritti riservati”. Non solo: le licenze sono accompagnate da una versione comprensibile a chiunque (anzi: “agli esseri umani”, ironicamente contrapposti ai giuristi, cui è indirizzato il testo completo). Sul sito di CC (www.creativecommons.org o www.creativecommons.it, per le licenze tradotte e adattate alla normativa italiana), un questionario consente anche di scegliere in modo interattivo la licenza appropriata, a seconda che l’autore voglia (o meno): permettere usi commerciali della propria opera; consentire la creazione di opere derivate; imporre l’uso della stessa licenza su queste ultime. La procedura di scelta della licenza può essere sperimentata su https://creativecommons.org/choose/?lang=it.
Infine, per liberare la creatività, non basta che esistano opere da distribuire e/o remixare liberamente: dev’essere anche possibile trovarle. Per questo, CC ha realizzato dei “meta dati” (etichette informatiche), che permettono ai motori di ricerca di individuare facilmente opere liberamente distribuibili e/o modificabili (si può sperimentarne l'effetto, ad esempio, grazie al filtro “usage rights” di https://www.google.com/advanced_search).
Più in dettaglio, i moduli che compongono le licenze standard di Creative Commons sono i seguenti: “Attribuzione” (BY), ovvero il requisito base, legato al riconoscimento della paternità dell'opera originaria, anche lungo la catena delle opere derivate; “Non commerciale” (NC), ovvero il modulo (opzionale) che vieta gli utilizzi a fini di lucro diretto (compenso monetario) o indiretto (vantaggio commerciale); “Non opere derivate” (ND), che permette solo la creazione di copie identiche; e “Convidi allo stesso modo” (SA), in virtù del quale l'autore impone ai creatori di opere derivate l'uso della stessa licenza adottata per l'opera originaria (il cosiddetto effetto “virale” o “copyleft”). ( 5)
Dalle combinazioni (non assurde) degli elementi precedenti emergono sei differenti licenze, due delle quali possono essere definite “licenze aperte”: Creative Commons Attribuzione (CC BY) e Attribuzione - Condividi allo stesso modo (CC BY-SA). ( 6) CC BY-SA è la licenza utilizzata da Wikipedia e da molti progetti collegati. Oltre a queste licenze standard, CC offre uno strumento di rinuncia ai diritti o dedica al pubblico dominio (che in subordine diventa una licenza molto permissiva, nei sistemi giuridici in cui non si possa rinunciare ad alcuni diritti): Creative Commons Zero (CC0). CC0 è la licenza/liberatoria scelta dal progetto Europeana per l'interscambio dei metadati. Più di recente, anche Wikidata – “base di conoscenza libera e aperta che può essere letta e modificata allo stesso modo da umani e macchine” e che “fornisce un accesso centralizzato alla gestione di dati strutturati” a progetti come Wikipedia – ha scelto questo strumento per rendere del tutto liberi i dati che raccoglie.
Data l'esistenza di tutti questi strumenti per la messa a disposizione di dati contenuti aperti, è opportuno ricordare quanto sia importante chiarire la scelta del licenziante, per evitare confusione presso il licenziatario. Ad esempio, un museo che voglia mettere a disposizione dati e immagini con licenza CC, non dovrà far generico riferimento ad una “licenza Creative Commons”, bensì specificare: “licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale, v. https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/deed.it”.
Se questo articolo non fosse scritto da un italiano per italiani, potrebbe probabilmente concludersi qui. Infatti, nella teoria del diritto d'autore, i beni culturali ricadono nel pubblico dominio: quella «preziosa risorsa di informazioni che è libera dalle barriere all'accesso o al riuso generalmente associate alla tutela del copyright» e che rappresenta anche una fondamentale «espressione del bagaglio comune di conoscenze e cultura» di un popolo (v. Manifesto del Pubblico Dominio, disponibile all'indirizzo http://www.publicdomainmanifesto.org/italian). In altre parole, a parte il “caso particolare” di beni culturali che siano anche opere d'arte create da autori morti da meno di 70 anni (e dunque ancora sotto l'esclusiva autoriale), il bene culturale stesso è da considerarsi in pubblico dominio, e quel che c'è da discutere è solo se e come i dati e contenuti che lo riguardano (foto, metadati, etc.) siano tutelati da diritti di proprietà intellettuale dei creatori di tali dati e contenuti.
Tuttavia, analizzando la normativa sui beni culturali italiana (ma qualcosa di analogo avviene, per fare un esempio, in Grecia), si evince come la maggior parte delle immagini degli oggetti storicamente, archeologicamente, architettonicamente rilevanti, anche quando i loro autori siano morti da ben più dei 70 anni di durata del diritto d'autore, siano ben lungi dall'essere liberamente riutilizzabili da parte di chiunque. All'opposto, quasi tutto ciò che è più vecchio di una cinquantina d'anni e culturalmente interessante finisce per essere assoggettato a vincoli analoghi a quelli derivanti dal diritto d'autore, ma legati alla specifica normativa sui beni culturali (in particolare, gli articoli 107 e 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, Decreto legislativo 42/2004 e successive modificazioni – nel seguito, il Codice).
Sino a qualche anno fa, tali limitazioni erano particolarmente restrittive, soprattutto in relazione ai decreti attuativi del Codice (in particolare, Decreto 20 aprile 2005 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, GU n. 152 del 2 luglio 2005), che dettavano criteri e modalità per la riproduzione di beni culturali. Ho avuto modo di discutere questo stato di cose più in dettaglio in lavori precedenti ( 7). In pratica, la normativa italiana prevedeva che – per ottenere l'autorizzazione a scattare e pubblicare foto di beni culturali – si dovessero non solo pagare concessioni potenzialmente salate, ma anche indicare finalità dell'utilizzo dell'immagine e numero di copie da realizzare. Un approccio apparentemente incompatibile con l'uso di una licenza aperta (e largamente incompatibile con la pubblicazione online in generale).
Negli ultimi dieci anni sono stati fatti passi nella direzione della più indiscussa applicabilità delle Licenze Creative Commons alle riproduzioni di beni culturali. Uno, in particolare, è stato compiuto col Decreto Legge 31 maggio 2014, n. 83, meglio noto come “Art Bonus”, che ha modificato l'articolo 108 del Codice come segue. Il comma 3 prevede ora che sia i soggetti pubblici che quelli privati siano esentati da qualsiasi canone di riproduzione, quando la stessa avviene “per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro.” Inoltre, il nuovo comma 3-bis prevede che “[siano] in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni bibliografici e archivistici attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l'esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all'interno degli istituti della cultura, l'uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto.”
Si noti che il fatto che una fotografia, per poter essere divulgata, debba esserlo “in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto” potrebbe far pensare a riproduzioni in bassa risoluzione, con deturpanti filigrane, e simili.
L'effetto di tali norme è evidente: anche progetti molto aperti nella loro impostazione finiscono spesso per diventare restrittivi in relazione alla gestione delle immagini, non per scelta di curatori, ricercatori o istituzioni, ma semplicemente perché “così dice la legge”. Un esempio a me caro, tra i molti possibili, è il Progetto Lorenzo Il Magnifico, che si prefigge lo scopo di rendere fruibile tutta la collezione numismatica del Monetiere del Museo Archeologico di Firenze. I risultati del progetto, realizzato perlopiù grazie a volontari, sono stati (già da molti anni) messi a disposizione con licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Tuttavia, tale licenza non si applica alle immagini del sito, e “[n]el rispetto dell'attuale legislazione le foto offerte in questo catalogo sono a bassa risoluzione. Le stesse di qualità superiore potranno essere richieste direttamente al Servizio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana.”
Malgrado l'approccio adottato dal Progetto Lorenzo Il Magnifico sia ragionevole (e prudente), vi è un approccio alternativo, che garantisce lo stesso risultato, ovvero evitare ulteriori riproduzioni a scopo di lucro: si tratta dell'apposizione di una licenza Creative Commons di tipo Non-Commerciale, che impedisce legalmente – anziché tecnicamente – che terzi lucrino su quelle immagini. Questo approccio mi pare del tutto coerente con la normativa vigente.
Spingendo oltre l'interpretazione – che, però, si fa qui più ardita – si potrebbe anche argomentare che la pubblicazione delle immagini con licenze del tipo Condividi allo stesso modo sia funzionale allo scopo di cui sopra, o almeno alla ratio legis del Codice. Se, infatti, le licenze come CC BY-SA non vietano l'uso commerciale, esse sono un modo per impedire l'appropriazione proprietaria di un bene pubblico: chiunque può trarre vantaggio, anche monetario, dall'uso dello stesso, ma solo purché e finché rende a sua volta le riproduzioni liberamente modificabili e riutilizzabili.
Premesso che, personalmente, ritengo il Codice debba essere ulteriormente emendato in senso permissivo ( 8), ci sono alcune possibilità di riforma più modesta già nel brevissimo periodo. Ad esempio, il MiBACT ha annunciato che a breve interverrà con un decreto ministeriale, che possa chiarire alcuni dubbi interpretativi relativi al riutilizzo delle riproduzioni di beni culturali, oltre ad aggiornare la normativa delegata, relativa a canoni e corrispettivi vari. Potrebbe essere un'ottima occasione per chiarire, come minimo, che l'uso di licenze standard come CC BY-NC è un'ottima (leggasi: preferibile) alternativa alle deturpanti filigrane e alla bassa risoluzione, al fine di garantire che le immagini di beni culturali non possano “essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro, neanche indiretto.”
1 Sui 10.338 dataset del portale open data nazionale, dati.gov.it, il “tema” più rappresentato è proprio la cultura, con 346 dataset (circa due terzi dei dataset presenti non paiono, tuttavia, classificati per tema). Si noti che la voce “cultura” è separata dalla voce “turismo, sport e tempo libero” (304 dataset) e da quella “istruzione, formazione e diritto allo studio” (259 dataset), che la seguono immediatamente in questa graduatoria.
2 Morando, F. (2013). Legal interoperability: making Open Government Data compatible with businesses and communities. JLIS. It, 4(1), 441. Disponibile anche in italiano online: http://dx.doi.org/10.4403/jlis.it-5461
3 Per quanto le nostre corti paiano interpretare questa previsione in modo restrittivo, ricordo che – ai sensi dell'art. 87 L. Dir. Autore – non sono soggette alla tutela in questione “le fotografie di scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili”. Insomma, almeno le fotografie “tecniche” di beni culturali, a fine di inventario e catalogazione dovrebbero essere senz'altro escluse dalla tutela autoriale (pur restando assoggettate a quella specifica per i beni culturali).
4 Prendendo nuovamente a parametro la diffusione delle licenze su dati.gov.it, la distribuzione (su 10.338 dataset) è la seguente: Creative Commons Attribution (6.618, inclusi alcuni dataset erroneamente classificati), Italian Open Data License 2.0 (2.258), Creative Commons CCZero Public Domain (909), Creative Commons Attribution Share-Alike (221), Italian Open Data License 1.0 (151), seguono altre licenze con meno di 100 dataset l'una.
5 É possibile trovare più informazioni pratiche sulle licenze CC all'indirizzo www.creativecommons.it Per un commento più teorico e imparziale, si veda invece (la prima parte del lavoro di) Niva Elkin-Koren, “Exploring Creative Commons: A Skeptical View of a Worthy Pursuit.” The Future of the Public Domain. Ed P. Bernt Hugenholtz and Lucie Guibault. Kluwer Law International, 2006.
6 Si noti, per altro, che CC BY è sostanzialmente equivalente alla Italian Open Data Licence v. 2.0, mentre CC BY-SA è sostanzialmente equivalente alla Italian Open Data Licence v. 1.0
7 Morando, F., & Tsiavos, P., Diritti sui beni culturali e licenze libere (ovvero, di come un decreto ministeriale può far sparire il pubblico dominio in un paese), Quaderni del Centro Studi Magna Grecia, Università degli Studi di Napoli, Federico II, 2011. Disponibile online: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2148343.
8 Ciò sarebbe necessario, come minimo, per eliminare quella che molti ritengono un'ingiusta discriminazione a danno degli utilizzatori di beni bibliografici e archivistici, esclusi dalla “liberalizzazione” dell'Art Bonus. Inoltre, una modifica normativa si renderebbe probabilmente necessaria, al fine di rendere inequivocabilmente accettabile la pubblicazione di fotografie di beni culturali con tutte le licenze libere o, almeno, con licenze libere virali, come la CC BY-SA di Wikipedia e molti altri progetti liberi online.
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