Rivista "IBC" XXIV, 2016, 2
Dossier: Archaeology & ME
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, dossier /
Archeologia e Potere
L’archeologia come la storia ha sempre avuto un ambiguo legame con il potere: l’uso del passato per fini politici è una costante che attraversa i secoli e rimane tutt’oggi un esercizio molto praticato a tutte le latitudini.
Il passato, esemplificato dal patrimonio archeologico che, per sua natura, può essere più sbrigativamente manipolato rispetto alle fonti scritte, e, grazie all’evidenza iconica, si presta maggiormente ad una funzione propagandistica, è divenuto quindi uno strumento al servizio del potere in molti momenti della storia.
Fra i numerosi esempi presentati dalla mostra Archaeology&ME, tutti ascrivibili all’ultimo secolo, perché più recenti e ancora ben presenti nella memoria collettiva, riportiamo qui quelli riferibili al rapporto fra Hitler e una scultura molto famosa, il Discobolo Lancellotti, e le recenti distruzioni dei monumenti di Palmira.
Hitler e il Discobolo
Nota è la fascinazione di Hitler nei confronti del mondo classico.
Pur se le sue preferenze andavano piuttosto al mondo greco, Hitler ammise di essere stato particolarmente colpito dai monumenti della romanità durante la sua visita ufficiale a Roma, nel maggio del 1938. E i grandiosi progetti urbanistici elaborati da Albert Speer, l’architetto del regime, a partire da quelli mai attuati per la nuova Berlino, assumono come modello inequivocabile l’architettura romana.
In realtà, l’ammirazione del dittatore era rivolta ad una classicità di maniera, quella che meglio si adattava all’ideologia razzista, cardine della politica nazista. È a questi ideali formali che si rifà del resto Leni Riefenstahl, nel suo film capolavoro del 1938, Olympia, destinato a celebrare le Olimpiadi svoltesi nel 1936 in una Germania risorta dalla catastrofe della guerra.
In quelle sequenze di grandissima suggestione, proprio all’inizio e subito dopo l’acropoli ateniese, la camera accompagna l’immagine della candida statua del Discobolo di Mirone che sfuma in quella di un discobolo moderno, un atleta dai tratti inevitabilmente “ariani”, sottolineando come meglio non si potrebbe la continuità fra la bellezza classica e quella della razza germanica, erede predestinata della prima.
Non era una scelta casuale, quella del Discobolo. Verso la metà degli anni ‘30 del secolo scorso, i Lancellotti, famiglia dell’aristocrazia romana, in ristrettezze economiche, manifestò l’intenzione di vendere la copia romana in suo possesso del discobolo di Mirone, ritenuta unanimemente la copia di migliore esecuzione artistica fra quelle pervenute dall’antichità, recuperata nel 1781 in una delle proprietà di famiglia sul colle Esquilino. La statua fin dal 1909 era stata vincolata con la notifica di opera di alto interesse nazionale, provvedimento che ne inibiva l’esportazione. Nonostante questo, furono intraprese trattative con il Metropolitan Museum di New York, che si arenarono per la richiesta economica dei Lancellotti, giudicata eccessiva. Nella primavera del 1937 il principe Filippo d’Assia giunse in Italia a capo di una speciale Commissione voluta dal Führer per l’acquisto di opere d’arte: in cima alla lista dei desiderata, era il discobolo Lancellotti. Mussolini stesso diede speciali disposizioni affinchè le richieste dell’alleato tedesco fossero soddisfatte e a nulla valsero le resistenze del ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai: il Discobolo fu acquistato dal governo tedesco per la cifra di 5 milioni di lire, pagati in contanti al principe Lancellotti.
La statua sarà esposta nella Glyptothek di Monaco di Baviera, dove il 9 giugno 1938 sarà ufficialmente presentata come dono al popolo tedesco.
La foto in mostra che ritrae Hitler mentre volge le spalle al Discobolo, è stata scattata presumibilmente nella Glyptothek. Pur di entrare in possesso della copia da Mirone, il Führer fu disposto a pagare un prezzo giudicato enorme, ma il valore della statua, ai suoi occhi, è da ricercare su di un piano diverso rispetto a quello delle centinaia di capolavori artistici di cui la Germania nazista fece razzia in tutta Europa. Il Discobolo rappresentava non solo un ideale di bellezza, ma incarnava il vero e proprio simbolo iconico di quella Herrenrasse, la razza superiore, per il trionfo della quale Hitler non esitò di fronte alle peggiori perversioni e a trascinare l’Europa in una delle pagine più funeste della sua storia.
A guerra finita, il Discobolo, confluito in uno dei Collecting Points gestiti dall’esercito alleato per
organizzare le operazioni di restituzione delle migliaia di opere sequestrate dai nazisti, fu oggetto di concitate trattative che videro a capo della delegazione italiana, Rodolfo Siviero. Esperto d’arte collegato ai servizi segreti, a Siviero si deve il rientro di moltissime delle opere requisite dai tedeschi in Italia. Le forti resistenze e le pressioni tedesche che non esitarono a rivolgersi al Presidente americano contro la restituzione della statua, furono alla fine superate grazie all’abilità e alla determinazione della task force italiana e il 16 novembre 1948 il Discobolo partì da Monaco alla volta dell’Italia per essere esposto, con altre opere, nel 1950, nella seconda mostra nazionale organizzata per celebrare le restituzioni.
Se, in questo caso, vi fu il lieto fine, la vicenda delle restituzioni, a oltre settanta anni dalla fine della guerra, presenta ancora molti casi insoluti. Per fortuna il Discobolo fa ora bella mostra di sé all’interno della collezione permanente del Museo Nazionale romano di Palazzo Massimo.
Accanto, un’altra copia del Discobolo sta a testimoniare la fortuna di un’icona il cui inestinguibile successo arriva, pur attraverso mille deformazioni, ai giorni nostri, come è possibile osservare nella gallery del sito web di Archaeology&ME che siete invitati a visitare.
Palmira, fra colonialismo e terrorismo
Quando nel maggio 2015 i video di tutto il mondo trasmisero le immagini di Palmira conquistata e
saccheggiata dalle milizie dell’Isis, unanime fu la riprovazione del mondo occidentale.
In realtà, le distruzioni sono una costante del nostro altalenante rapporto con le vestigia del passato.
Si distruggono i simboli del nemico per ribadire un rapporto di forza, di superiorità, per distruggerne la memoria storica: è un meccanismo che si perpetua da millenni e contro il quale, come sta a dimostrare non solo Palmira, poco possono opporre le Convenzioni Internazionali a partire da quella dell’Aja, del 1954 fino alla recente Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, n. 2199 del febbraio 2015.
Nel caso del sito archeologico siriano la distruzione, sapientemente documentata dall’Isis in funzione propagandistica, ha colpito non solo una località fino ad allora controllata dall’esercito nemico, quello di Bashar al-Asad, ma un sito di grande significato per il mondo occidentale.
Città di antichissima origine, Palmira dovette la sua fortuna alla posizione che la collocava, oasi in mezzo al deserto siriaco, all’incrocio di una serie di rotte carovaniere fra la Persia, l’India, la Cina e il bacino del Mediterraneo. All’inizio del primo secolo d.C. entrò a far parte dell’Impero romano, rivendicando però a più riprese uno statuto autonomo che le fu concesso più volte. Dopo la ribellione di Zenobia, autoproclamatasi regina di Palmira, alla metà del III sec. d.C. e la riconquista romana, il centro decadde, ma continuò ad esistere per alcuni secoli dopo la conquista araba del 634 d.C. Le sue rovine furono riscoperte da alcuni mercanti inglesi alla fine del XVII secolo, mentre i primi rilievi furono compiuti a metà del ‘700. Il sito fu poi scavato da équipes di archeologi francesi, tedeschi, cui si aggiunsero polacchi e anche italiani. Palmira è quindi uno degli esempi di quell’archeologia coloniale che ha accompagnato, a partire dall’800, la strategia di dominio delle potenze occidentali nei confronti del Medio Oriente. Anche per questo il messaggio dell’Isis diventa ancor più mirato: attraverso Palmira, ancor più che con le precedenti distruzioni di Ninive, Mosul o Nimrud, si colpiscono i simboli della cultura occidentale, del resto ben percepibili nelle architetture che ci parlano inequivocabilmente di uno dei grandi centri dell’impero romano. Anche – e probabilmente soprattutto - per questo il sito entrò, fin dal 1980, a far parte del World Heritage List, l’elenco dei siti patrimonio dell’umanità gestito dall’UNESCO, iniziando in questo modo la sua terza o quarta vita come feticcio turistico per viaggiatori occidentali di livello culturale medio-alto.
La stessa WHL è, peraltro, da alcuni anni, al centro di critiche radicali proprio come espressione dell’imperialismo culturale occidentale in quanto espressione di un discorso sul patrimonio appiattito su criteri e pratiche occidentali, secondo i quali i valori storici ed estetici prevalgono su quelli sociali e su usi collettivi non solo turistici del patrimonio. Che Palmira sia diventata quindi un’icona culturale soprattutto per il mondo occidentale, non giustifica naturalmente le azioni perpetrate dall’Isis, ma dovrebbe piuttosto servire a comprendere ancor meglio la lucida, perversa logica che si gioca sulla contrapposizione “noi-loro”, e cioè, rispettivamente, i pretesi custodi del vero Islam e il mondo occidentale cristiano. È a questo tranello ideologico che dobbiamo ribellarci, rifiutando ogni suddivisione manichea e ribadendo con le armi della ragione che non esistono culture o civiltà “pure”, “incontaminate”: Palmira, da sempre incrocio di merci, genti, lingue, dove il sincretismo religioso era la regola, sta lì a dimostrarlo, con i suoi monumenti risultato di uno straordinario incrocio fra tecniche greco - romane, influenze persiane e tradizioni locali.
Ricordando, allo stesso tempo, come dietro l’ideologia si nascondano spesso interessi molto prosaici, quali il commercio di reperti archeologici praticato dagli jihadisti a vantaggio di acquirenti per lo più occidentali, pratica che unisce quindi, in uno stretto rapporto economico, coloro i quali sul piano ideologico sono tra loro nemici contrapposti.
Dopo la riconquista del sito archeologico nel marzo 2016 da parte dell’esercito siriano e del suo alleato russo, le operazioni di salvaguardia e restauro sono state intraprese - in maniera esclusiva - da équipes russe insediatesi a Palmira, che hanno in questo modo riproposto una logica colonizzatrice nei confronti del popolo siriano.
Esempio straordinario di multiculturalità nel mondo antico e di odierno uso politico del patrimonio culturale, Palmira e i suoi monumenti testimoniano la forza simbolica del patrimonio archeologico. Ma nello stesso tempo la sua fragilità, che, per essere tutelata, ha bisogno non solo di conoscenze tecniche di alto livello, ma di un cambio radicale del nostro approccio ai beni culturali, beni di tutti e quindi di tradizioni culturali differenti che devono potersi esprimere alla pari e trovare fra loro una mediazione difficile, ma indispensabile.
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