Rivista "IBC" XXIV, 2016, 2

Dossier: Archaeology & ME

Archaeology&ME a Palazzo Massimo. Per un ruolo sociale del museo

Rita Paris
[Direttrice del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, Roma]

Accogliere nel Museo archeologico di Palazzo Massimo il progetto Archaeology&ME è nella linea di connotare il museo come luogo di incontro, formazione, stimolo sui tanti contenuti che le opere esprimono e che devono essere in grado di raccontare a tutta la comunità.

Il Museo di Palazzo Massimo raccoglie per lo più capolavori scoperti negli scavi della città e del suo territorio, in particolare degli ultimi decenni dell’800, dopo l’unità d’Italia e l’istituzione di Roma Capitale. L’ordinamento delle opere illustra lo sviluppo della cultura artistica a Roma dalla fine dell’epoca repubblicana (II-I sec. a.C.) all’epoca tardo antica (IV-V sec. d.C.) e, quindi, la storia della capitale dell’impero, attraverso i personaggi che ne sono stati i protagonisti, le tendenze, le mode, le abitudini, le tante componenti culturali, che possiamo conoscere attraverso i ritratti, le sculture decorative, i sarcofagi, gli affreschi, i mosaici.

Oltre a questo tema principale, che è la linea guida per la visita della raccolta, vi sono tante storie che ciascuna di queste testimonianze del passato può raccontare, quelle che le hanno portate a far parte di una collezione museale, dove, in forma solo apparentemente statica, fanno bella mostra di sé, in una sequenza espositiva che noi archeologi abbiamo progettato.

Un’opera, sottratta dal proprio contesto e allestita nella sala di un museo perde gran parte dell’interesse; è infatti pressoché impossibile immaginare l’opera come fosse nel contesto originario, molto spesso in spazi aperti, dove la luce, nelle diverse ore del giorno, la presentava in una condizione che non è ripetibile all’interno di un contenitore espositivo. Diverso interesse offre invece un sito archeologico dove si possono vedere sul posto originario gli edifici con gli affreschi, i marmi, i mosaici, gli elementi dell’arredo che li decoravano, offrendo una immediata comprensione della realtà antica. Prova ne è il grande successo delle ricostruzioni tridimensionali, delle realtà aumentate, delle applicazioni virtuali, che fanno vedere ciò che non esiste più ricreato in forma completa sui luoghi stessi dei ruderi, col piacere di poter apprezzare come erano in origine gli spazi della vita. Tutto questo non si può presentare nel museo, se non attraverso qualche episodio, dove è possibile, per migliorare la comprensione, integrare l’esposizione con prodotti multimediali. E, d’altro canto, sono rarissimi i casi in cui l’ambiente di provenienza è noto.

Il ruolo del museo e di coloro che ne sono i curatori, nel presentare a un pubblico eterogeneo l’esposizione di queste testimonianze del passato, deve raggiungere l’equilibrio giusto tra la descrizione della singola opera e, ove possibile, la relazione con il contesto di appartenenza e la funzione che svolgeva nella vita culturale, politica, sociale dell’epoca. In questo compito è fondamentale tenere conto dell’approccio da parte del visitatore che deve riuscire a comprendere tutti gli aspetti narrativi.

Il progetto Archaeology&ME, dunque, mira all’obiettivo di stimolare i visitatori affinché essi stessi possano, con la partecipazione diretta a cui sono chiamati, aiutarci a comprendere meglio la percezione e le impressioni nei confronti dell’archeologia e quindi anche di un museo archeologico. Accanto ai risultati di una delle attività del progetto NEARCH, rappresentati dal concorso, la sfida ora si gioca dentro un museo archeologico nazionale che viene chiamato a partecipare con le opere della propria collezione, nella certezza che questa esperienza lascerà una eredità preziosa. Le opere del concorso, inserite accanto alle opere del museo e lungo il percorso consueto di visita, creano un effetto di discontinuità netta: è come se i severi ritratti dei personaggi della fine dell’epoca repubblicana, la sobria classicità della figura di Augusto, esposti accanto, si interrogassero sul senso di questa “intrusione”, ossia le risposte date da parte di un pubblico europeo a cui è stata rivolta la domanda “che cos’è l’archeologia?”, con il fine - come espresso nell’introduzione di Maria Pia Guermandi - di conoscere, appunto, quale sia la percezione dell’archeologia presso la società civile.

Un progetto per stimolare i frequentatori del museo, ma anche per richiamare quella parte della comunità che quotidianamente si imbatte in un “problema” archeologico, per motivi diversi, e che abbia voglia di venire a lasciare una riflessione, una suggestione, il proprio senso nei confronti di questa disciplina.

Gli oggetti ritrovati nel sottosuolo, secondo le leggi italiane, appartengono allo Stato, per questo, ogni opera che comporti movimenti di terra, eseguita da parte di figure pubbliche o private e di qualsiasi entità, deve essere preceduta da uno scavo archeologico. Le scoperte che in una città come Roma - ma non solo – sono quindi all’ordine del giorno, destano sempre un interesse molto forte da parte della comunità e il riemergere del passato, tanto più se in zone dove è meno scontata la sua presenza, suscita un immediato senso di appartenenza e sviluppa tendenze alla salvaguardia e valorizzazione delle testimonianze antiche. Questa risposta, che il progetto della mostra ha l’obiettivo di stimolare, dovrebbe offrire l’occasione per sviluppare, più ancora di quanto sia accaduto fino ad oggi, il modo di condividere il ruolo istituzionale attraverso la partecipazione pubblica per formare una consapevolezza civile sul senso della tutela e il valore del patrimonio culturale.

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