Rivista "IBC" XXIV, 2016, 1

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali, leggi e politiche, storie e personaggi

È recentemente scomparso Nazzareno Pisauri, a lungo direttore dell'IBC, personalità di forte spessore culturale, riferimento per tutti coloro che operano nel mondo delle biblioteche e degli archivi e non solo. Lo ricordiamo riproponendo un suo scritto.
Leggere è uguale per tutti

Nazzareno Pisauri
[già direttore dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna]

Un po' scherzando ho dettato questo titolo ma è vero che, a pensarci anche sul serio, la seconda metà del secolo che abbiamo attraversato avrebbe dovuto considerare la lettura come obiettivo primario e innovativo per un Paese arretrato come il nostro in fatto di servizi culturali. "Leggere è uguale per tutti" poteva essere lo slogan della biblioteca pubblica in Italia se l'Italia avesse perseguito l'obiettivo di dotarsi di questo strumento della democrazia, come è stato chiamato; se la democrazia in Italia, oltre a informare i principi della Costituzione, avesse informato anche i programmi e le azioni dei Governi che hanno gestito il Paese fino ad oggi; se la rivoluzione culturale degli anni sessanta e degli anni settanta avesse almeno in parte permeato le forze della sinistra storica e della sinistra nuova, come la chiamammo; se queste stesse forze, che ora sono giunte al Governo, non dico avessero una politica culturale ma si ponessero almeno il problema di reperirne una più o meno distintiva rispetto a quella craxiana o berlusconiana tuttora dominante.

La politica culturale del nostro Paese, infatti, è ancora quella degli anni ottanta e quella di Berlusconi ne rappresenta il dispiegamento più coerente e funzionale. Vediamone in breve i principi più radicati: la cultura è spettacolo, anche sotto le specie dell'informazione, della ricerca e della divulgazione; la cultura è un lusso quindi si paga; l'economia della cultura deve far fruttare i giacimenti e tagliare i rami secchi; l'impresa culturale privata funziona, la gestione pubblica no. Tutto il ceto politico di questi anni ragiona così. I ceti intellettuali non sono da meno a mio avviso: fior di intellettuali progressisti, sconfitti anche col referendum sull'interruzione dei film in televisione, anziché analizzare la sconfitta, magari chiedendosi se fosse posto bene o male lo slogan "non si interrompe un'emozione" (visto che il tradimento del cinema come linguaggio, come bene culturale era già avvenuto nel momento in cui il film nato per essere proiettato nelle sale è stato ridotto ai ceppi dei canali televisivi), questi intellettuali, dico, consumato l'ultimo atto della loro militanza politica, si sono ormai arresi e convertiti finalmente al nuovo verbo. Magari partecipano ancora ai nostri dibattiti e vi ripetono i discorsi di un tempo in segno di coerenza del proprio pensiero.

Adesso però con una novità: un tempo si dichiaravano impegnati e venivano gratis, oggi ai fanno pagare. Questo è tutto quello che hanno appreso − si direbbe − dalle sconfitte della politica. l più avveduti, per la verità, sono anche capaci di aggiornare i loro discorsi. Ci avvertono per esempio che mentre le tecnologie della prima rivoluzione industriale comportavano investimenti e infrastrutture pesanti, oggi la risorsa principale è il sapere, ormai strategicamente decisivo, più importante ancora del possesso materiale di ricchezze. Ma se anche arrivano a dirci questo, e qualcuno ci riesce, lo fanno però più in base a quello che dice Umberto Eco che in base a quello che fa Bill Gates. E troppo spesso anche noi, noi operatori culturali dico, crediamo di poterci adeguare a queste novità più rileggendo McLuhan − un epigono confusionario, quando non piuttosto plagiario pressapochista − che non studiando il suo predecessore Harold Junis, del quale nessuno ricorda l'opera fondamentale, che non parlava di media e di messaggi ma coniugava, attraverso i percorsi macro-storici delle passate civiltà, gli imperi e le comunicazioni su cui erano fondati. Non si capisce davvero, intendo dire, come mai − se la nuova ricchezza strategica è il sapere − le nostre battaglie campali si consumano sulle pensioni o sull'orario di lavoro ma non sulla cultura: come se il sapere non facesse parte del welfare! Tanto meno si comprendono le ragioni di battaglie titaniche sulle piattaforme digitali e sul cablaggio delle città, senza preoccuparsi né dell'alfabetizzazione dei cittadini rispetto ai nuovi mezzi né, tanto meno, dell'offerta culturale e informativa che viene loro riservata. Capita così che il Comune di Bologna mette a disposizione Iperbole per tutti meno che per le proprie biblioteche; capita che la Telecom riduce le tariffe per alcune utenze sia pubbliche che commerciali o private ma non per lo studio e la ricerca né, ancora, per le biblioteche; capita che il Ministero per i beni culturali sotto l'illuminata guida di Veltroni, applica la meravigliosa legge Ronchey con una circolare che impone alle sue biblioteche di far pagare agli utenti il consumo dei loro computer attaccati all'impianto elettrico. Credo che questa circolare stia per essere ritirata, dopo le proteste benefiche degli interessati, però adesso ce n'è un'altra: qualche tempo fa il Ministero per i beni culturali ha emanato un'altra circolare alle sue biblioteche sul prestito interbibliotecario. Voi sapete che il prestito interbibliotecario costava le spese postali vive, 5-6.000 lire; adesso costa − grazie a questa nuova circolare − 30.000 lire tonde e prepagate. In compenso lo stesso Ministero, dopo aver investito almeno 200 miliardi per la rete SBN, non solo ne stanzia il doppio per la rete parallela dei Beni culturali, anziché sfruttare quella che ha già, ma si rifiuta di mettere in grado le biblioteche minori del Paese di catturare i dati dell'indice SBN, alimentato peraltro con denaro pubblico e col lavoro dei bibliotecari pagati dall'erario. Il tutto mentre per parte sua il Ministero della pubblica istruzione sua costruendo una terza rete, e l'Università non riesce a far funzionare la sua rete GARR. Sono comportamenti demenziali (dal dibattito di stamani sono attivati altri esempi: Luigi Crocetti e Lorenza Davoli citavano il progetto "Mediateca 2000") ma l'aggettivo demenziale suona eufemistico, se pensiamo ai toni delle crociate sul contenimento della spesa pubblica e alle motivazioni che accompagnano i tagli, non dico nei dibattiti televisivi, ma nelle stesse relazioni ufficiali che accompagnano il bilancio dello Stato o, in fotocopia, quello di una Regione come la nostra.

Come si spiega tutto questo? Forse una spiegazione si può trovare in ciò che da qualche tempo va ripetendo Umberto Galimberti. La sfera dell'economia legata alle innovazioni tecniche è ormai talmente sovrastante e autoreferenziale che nessuna politica, dice Galimberti, nessuna politica e nessuna morale - se pensiamo anche alle biotecnologie - potranno più illudersi di governarla. E in più questa sfera esercita un effetto di ritorno talmente devastante sulla nostra mentalità che i principi della buona cultura umanistica, che meno di vent'anni fa ci apparivano ancora eterni, si sono ormai volatilizzati.

Questo, non vedo che altro, fa si che dai discorsi dei nostri politici siano scomparse alcune parole. Chi osa oggi pronunciare la locuzione "riforme di struttura"? Sorto termini che non si usano assolutamente più. Chi pronuncia più la parola "bisogni"? I bisogni sono diventati le "domande" dei cittadini, e così pure i diritti. Ma se sono domande non sono più istanze che il governo della cosa pubblica deve gestire: è semplicemente il mercato che deve gestirle. Che cos'è in fondo la scelta dei manager che le nostre amministrazioni di sinistra, all'avanguardia naturalmente come sempre, ci vanno propinando? Sono personaggi questi, anche intelligenti talvolta, anche simpatici ma che non pronuncerebbero la parola "servizi" neppure sotto tortura. Esiste un aureo libretto pubblicato dalla Regione Emilia-Romagna dal titolo La Regione globale. Scenari e opzioni strategiche per l'aggiornamento del piano territoriale regionale, ne faceva cenno l'assessore Davoli stamani. Bisogna leggerlo, la distribuzione è gratuita e lo consiglio a tutti per una profonda e illuminante esperienza culturale. Naturalmente non compare in questo libretto nessuna delle parole proibite che prima esemplificavo, ma solo un intrigo fittissimo di parole come sviluppo, rete, sviluppo in rete, globalizzazione, mobilità, pubblico/privato, aspazialità dell'economia (questa poi non è che si capisca tutta). Compare anche la formula "accumulazione di capitale cognitivo". Allora uno del nostro mestiere che lo legge dice: forse qui c'è qualcosa per noi: accumulazione di capitale cognitivo, chissà! E poi ci sono delle simpatiche sigle "V.V." e "A.V.". che ogni due o tre capoversi rispuntano fuori: V.V. è variante di valico e A.V. è alta velocità, due sigle mistiche ripetute confidenzialmente all'infinito come "Ciccina" alle fidanzate. L'alta velocità! C'è da domandarsi: Alta velocità per andare dove? Ricordate la pagina di Gadda, quando scappa dalla sua casa di Firenze perché arrivavano i bombardamenti alle 11, "tutte le mattine alle 11 liberatori nell'aria", scrive. E lui a correre con un solo uovo di tre giorni prima, peraltro marcio, nello stomaco; correva per i campi verso Bagno a Ripoli e guardava in alto e vedeva il cielo aprirsi tra le nuvole e gli sembrava che si affacciasse il Padreterno e gli vociasse addosso: "Ma dove corri, imbecille?" Ecco, dove volete andare con l'alta velocità? Nel gioco del calcio - come peraltro nella vita, ci insegnano Berlusconi e Veltroni - ci sono tre velocità, io questo lo so bene: c'è la velocità del giocatore, la velocità della palla e la velocità del giocatore con la palla. Se, mettiamo, la palla è il sapere strategico che dicevamo prima, qualcuno dovrà mettercelo questo sapere nella palla; solo dopo, ogni lancio sulle autostrade dell'informatica potrà servire a qualcosa, perché se vi lanciamo palle vuote o, peggio, avvelenate, evidentemente accelera solo il disastro tutta questa velocità. Qualche anno fa in convegni come questo ci ubriacavamo di chiacchiere sull'editoria elettronica e, giustamente le majors dell'informatica si sono messe a investire sui testi multimediali e i Cd-Rom. Ora alla Fiera di Francoforte, due settimane fa, è esplosa la crisi del Cd-Rom e le majors si sono ritirate dal mercato, come abbiamo letto su tutti i giornali. Cosa vuol dire questo? Vuol dire almeno due cose, se non altre ancora: che i Cd-Rom sono fatti male e che il pubblico che li sa usare è scarso. Ecco allora che c'è bisogno prima di tutto di alfabetizzazione diffusa tra i lettori di questi libri elettronici e che c'è bisogno di intelligenza creativa, proprietà di linguaggio e dominio delle fonti da parte degli autori di questi nuovi testi. È legittimo sospettare che, se i Cd-Rom sui musei fanno pena e quelli che utilizzano le fonti archivistiche e librarie sono infarciti di errori, è perché il nuovismo imperante tende ad espellere dai nuovi processi produttivi proprio i depositari del sapere finora accumulato sul possibile trattamento dei beni culturali? Per contro, il tasso incrementale degli utenti di Internet è alto anche dalle nostre parti. In cartella dovreste trovare le schede di alcuni siti Internet esaminati da un gruppo di lavoro della nostra Soprintendenza, siti che recano bibliografie, banche dati bibliografici. Da questo vaglio viene fuori che su 100 di questi siti presentati con grandi maschere allettanti, quelli utili sono poi pochissimi e si incappa spesso nelle peggiori bufale. Solo limitatamente alle banche dati alfa-numeriche - parlo di quello che diceva Crocetti che è sicuramente di più importante impatto e, in ogni caso, senza distinguere tra informazione primaria e informazione secondaria - la quantità di notizie che l'insieme delle biblioteche, degli archivi e dei musei emiliano-romagnoli hanno finora reso disponibili su Internet è rappresentata da un decimale con uno 0 prima e un altro dopo la virgola. Pochissimo, anche calcolando i dati delle 140 biblioteche emiliano-romagnole collegate con SBN, il cui catalogo recente è in Internet.

L'unica consolazione è che il pochissimo che riusciamo a fare lo facciamo con molto, molto poco: facciamo pochissimo con molto meno. Sempre in cartella trovate alcuni dati sulla spesa bibliotecaria dei Comuni, rilevata da un'indagine condotta tra Regione e Soprintendenza: sono dati che si commentano da soli. Ma sapete quanto spende la Regione Emilia-Romagna per la cultura? Da un rapido confronto dei bilanci preventivi dal 1990 al 1997 - poi ci sono le variazioni di bilancio ma i preventivi sono quelli della scelta - il brodo ricco si è concentrato in due anni, il 1990 e il 1995, con lo 0,34%; l'anno scorso siamo scesi a 0,29%, quest'anno a 0,27%. Con la sanità da ripianare, lo ricordava l'assessore Davoli stamattina, e gli indirizzi della programmazione del libretto che citavo, non oso neanche pensare che cosa ci può aspettare negli anni a venire! In questa situazione, serve cambiare la legge regionale sulle biblioteche? Secondo me no, se questo dovesse restare l'andamento della spesa regionale che, calcolata per le sole biblioteche, non supera lo 0,5% del bilancio regionale. Una legge regionale nuova può servire solo ad alcune minime condizioni che impediscano di peggiorare una situazione già assai grama: 1) che il budget sia consistente e comprenda in espresso spese per la messa in rete del patrimonio, di tutto il patrimonio - abbiamo visto che in Internet ce n'è una quantità infima - per l'edilizia bibliotecaria, per l'acquisto di fondi librari e documentari soprattutto rappresentativi della cultura del diciannovesimo e ventesimo secolo; 2) che la nuova legge estenda la sua giurisdizione ai nuovi archivi e alla sfera della comunicazione, istituendo modalità di finanziamento rapide e prioritarie sul versante della innovazione e della sperimentazione di nuovi servizi; 3) che imponga il metodo della programmazione, un'altra parola che non si usa più o la si usa in maniera del tutto impropria, poiché oggi si fanno i progetti che la surrogano puntando sovente non su quello che più serve, ma su quello che luccica di più; 4) che l'integrazione programmata di risorse e servizi tenda alla scala sovraprovinciale e, progressivamente, sovraregionale rispetto alle regioni limitrofe e quanto meno proceda con maggiore aderenza ai flussi dell'utenza e alle afferenze storiche dei patrimoni culturali; 5) che i meccanismi di finanziamento siano basati sul principio di sussidiarietà, ma prevedano surroghe di eventuali inadempienze nell'attuazione dei programmi, affinché i trasferimenti dei fondi ai Comuni e alle Province non perdano di incisività e produttività.

Il resto è pura emergenza, per la quale la legge regionale 42/83 basta e avanza, come tutti gli interventi di starnane hanno confermato. Stamattina ho ascoltato con molto piacere gli accenni al problema della professionalizzazione, però attenzione non ci illudiamo: le forme scolari o parascolari di formazione non sono sufficienti. Se un qualche segno positivo la gestione della legge e la vita stessa della Soprintendenza possono indicare, rispetto all'esperienza trascorsa, è quello del lavoro sul campo; e anche la formazione è avvenuta così poiché non la fa l'Università, neanche le Facoltà o i corsi dei beni culturali, non la fanno certamente i Centri di formazione professionale, privi anche di strutture didattiche funzionali. La formazione vera è il lungo tirocinio del lavorare sugli oggetti degli archivi e delle biblioteche e in questo senso devo dire che si è accumulata una forte crescita e una notevole attenzione alle questioni della professionalità che ha permesso un passaggio non traumatico alle standardizzazioni che sempre più comportano l'introduzione di queste tecnologie e il lavoro in rete. I bibliotecari non rifiutano certo l'innovazione, ma sanno che bisogna saperle fare queste cose e lasciarle agli informatici è un disastro. Anche da questo punto di vista occorre che le parole buone d'un tempo "programmazione e pianificazione dei servizi" siano mantenute nella nuova legge e nella nostra testa, perché solo se queste parole verranno mantenute e illumineranno l'introduzione delle parole nuove, dei nuovi processi e dei nuovi percorsi, avremo qualche garanzia di tenuta, altrimenti no.

Occorre anche che venga valutato meglio (non ne ho sentito parlare stamattina, ma non si può certo parlare di tutto) un aspetto molto positivo della vecchia legge che è quello delle convenzioni. Si parla tanto di pubblico/privato: quella legge era lungimirante al proposito, corretta e saggia su tutta la questione non solo del pubblico/privato, che oggi tanta parte dei nostri sonni rovina, ma anche sul problema della chiesa e del patrimonio ecclesiastico. Le altre Regioni le conosciamo bene, non c'è una Regione che non abbia una legge simile a quella delle tabelle famose con cui il Ministero eroga a fondo perduto soldi agli enti ecclesiastici, alle accademie, agli ordini religiosi, alle Curie. Il modello della legge 42 secondo me è notevole perché con molto minor dispendio è riuscito a rendere funzionati ad un servizio pubblico globalmente inteso biblioteche private, laiche o religiose (da quelle degli ordini religiosi spesso ricchissime a quelle di istituti come il Gramsci, il San Carlo, le Scienze religiose, l'Oriani, etc.) contribuendo esclusivamente ai servizi effettivamente resi. Dovrei ancora parlare, come ho potuto altre volte, della trasformazione della biblioteca in quello che verrà: non precostituiamo troppi schemi, non lo sappiamo se fra vent'anni saranno mediateche o se avremo trovato qualche altro termine per dire comunque i processi complessi che adesso stanno maturando confusamente. Il problema è che la biblioteca, come diceva stamattina Lorenza Davoli, resti al passo e che i bibliotecari siano saggi, capiscano appunto che può anche cambiare tutto, ma è necessario che non cambi niente del nostro modo di concepire la funzione della biblioteca e la natura del nostro lavoro.

In effetti la sottocultura che ci domina ci induce quasi a fingere di cambiare tutto perché non cambi niente. Perché non cambi, cioè, la funzione storica della biblioteca moderna. Non parliamo di Roma o della Grecia, dico la biblioteca che dal Quattrocento, dal Cinquecento in poi ha svolto il compito di mediazione e diffusione della conoscenza. Con in più la possibilità di realizzare quello che è stato sempre un grande sogno (prima accennavo alla rivoluzione culturale, come veniva chiamata antonomasticamente e pomposamente, degli anni sessanta e settanta), il sogno di dare a tutti il diritto di parola. Allora volevamo creare nei luoghi bassi, nelle piazze, nei luoghi di riunione, dovunque, le condizioni per dare la parola a tutti. Oggi il passo è forse più agevole, proprio puntando sulle nuove tecnologie di cui le biblioteche possono fare tesoro. Disponendo di Internet, la biblioteca non può limitarsi a mettere a disposizione gli strumenti della conoscenza, quand'anche non solo tradizionali scritti ma anche su tutti i nuovi supporti visivi, sonori, multimediali, massmediali, ecc.: certo questo è già un passo enorme da fare, abbiamo già i primi inizi interessanti ma certo non possiamo dire che questo sia già un obiettivo perseguito in maniera omogenea sul nostro territorio. Ma soprattutto la biblioteca deve diventare il luogo della comunicazione. Grazie a Internet la biblioteca non può che essere il luogo in cui chi ha qualcosa da dire lo dice: non lo dice a Paolo Messina, qui seduto, direttore dell'Archiginnasio; lo dice a chi su queste reti ha orecchie per recepire messaggi e scambiarli. Questo deve diventare la biblioteca; la biblioteca finalmente non più soltanto come erogatore e distributore della conoscenza e del sapere ufficiale o del controsapere, della controcultura, come anche per certe fasi e per certi ambienti è riuscita ad essere, ma anche il megafono di chi non ha altro diritto di parola, di chi ha qualcosa da dire e ha bisogno di un luogo in cui dirlo insieme ad altri, attraverso queste che chiamiamo autostrade dell'informatica. In questo senso, lo slogan della nuova fase della biblioteca, della mediateca o comunque la vogliamo chiamare, non dovrebbe più essere "leggere è uguale per tutti" ma "comunicare è uguale per tutti", perché questo è il bisogno primario che viene messo a repentaglio da questo tipo di società e da questo tipo di cultura di massa.

Pubblicato in Leggi in biblioteca, a cura di Rosaria Campioni, atti del convegno "Leggi in biblioteca", Reggio Emilia, 7 novembre 1997, Pàtron Editore, Quarto Inferiore, 1998, pp. 59-65.

 

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