Rivista "IBC" XXII, 2014, 2

Dossier: Storia dal "quotidiano"

musei e beni culturali, dossier /

Sulle pietre, Ariminum

Giancarlo Susini
[storico e archeologo, già consigliere dell’IBC]

Quante volte Rimini fu capitale? Certamente, nell'immaginario collettivo, lo è del turismo balneare, poi per tanti lo è dei meeting e dei congressi di partito; tra qualche tempo lo sarà di una nuova provincia dell'Italia repubblicana; tra medioevo e rinascimento lo fu di una grande scuola pittorica, che ora celebra la sua apoteosi in una delle sezioni del crescente Museo della Città.

E infine, Rimini fu una capitale ventitré secoli prima d'ora, quando i romani fondarono alla foce del Marecchia, una specie di repubblica latina, che sembra già esistesse come paesotto abitato dai Galli o addirittura come feudo di un re etrusco, Arimneste: si trattò, allora, proprio alla vigilia della prima guerra punica, come di un boccaporto stanziato in Adriatico, verso l'Europa e i paesi dell'Est, cioè come sarà Zanzibar o Calcutta per gli inglesi dell'evo moderno, o Nuova Amsterdam, poi divenuta New York, per gli olandesi e poi per gli irlandesi e gli inglesi di là dell'Atlantico.

Perché se ne parla? Perché tutte le volte che si apre una nuova sezione dell'immenso Museo della Città a Rimini (oggi riapre, nel giardino cortile della nuova sede, nell'ex collegio dei Gesuiti, il Lapidario romano, e viene aperta altresì la prima sezione della Pinacoteca con opere dal Tre al Settecento firmate tra gli altri da Cagnacci, Coda, Guercino; e l'intera giornata, fino alla vernice prevista per le 18.30, sarà dedicata nella Sala Ressi a una serie di tavole rotonde sull'organizzazione museale) si riassetta e si modifica in qualche modo il percorso interno al giardino del museo, dove sono raccolti i monumenti delle scritture antiche di Rimini romana. La prima volta accadde nel 1981, dieci anni fa (mi viene a mente quell'architetto di Colonia, in Germania, che mi diceva: un museo non resta vivo se ogni dieci anni non cambia pelle): era il centenario di Bartolomeo Borghesi, il saggio romagnolo scopritore della scienza epigrafica universale, e a ordinare il Lapidario antico fu Angela Donati, una donna universalmente celebre come studiosa di antiche scritture, ora professore nell'Alma Mater.

I romani, infatti, ricordiamocelo, parlavano alla gente con la scrittura, ma alla gente di tutti i tempi: ce lo ricorda Sabatino Moscati quando cita Galileo che diceva come sopra "tutte le invenzioni stupende" era quella di "parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno da qui a mille e diecimila anni" (Passeggiate nel tempo, De Agostini, 1990). I romani parlavano a Rimini con i monumenti delle famiglie nelle necropoli lungo le vie: quei monumenti ricostruiti oggi nel Lapidario e che ci parlano di schiavi e liberti venuti da tutto il continente; si leggono poi i monumenti che erano nel foro della città, dove parlò Giulio Cesare, in un torno di tempo tra 50 e 49 avanti Cristo, che per velocità di avvenimenti si assomiglia troppo a quel che è accaduto e accade oggi tra '89 e '90; poi si leggono i regolamenti degli antichi santuari, con gli arredi (i calici dipinti), e i monumenti fatti costruire da gente che aveva soldi, le sculture raffinate e le terrecotte di marca. Mentre fuori, all'aperto, la gente leggeva e legge tuttora le scritte sull'arco di Augusto e sul ponte di Tiberio. Proprio come veniva fatto di pensare a Galileo.


[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 12 luglio 1990]



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