Rivista "IBC" XXI, 2013, 2
Dossier: Un racconto che si rinnova - Verso il 70° della Resistenza e della Liberazione
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"Il cinema non è tutta la storia, ma senza di esso non potrebbe esserci conoscenza del nostro tempo" (Marc Ferro, Annales, 1968). Basterebbe questa decisa affermazione del grande storico francese a legittimare il ruolo e le potenzialità narrative del mezzo cinematografico, di fronte a un nuovo, importante anniversario come il 70° che si va aprendo, oramai in assenza di protagonisti e testimoni per un tempo estremo, sempre più difficile da raccontare.
Da una generazione a questa parte, ridare memoria e valori di riferimento ai nuovi cittadini è l'obiettivo principale di queste scadenze, affinché l'esperienza storica vissuta dagli italiani negli anni Quaranta sia ancora in grado di produrre responsabilità civile, consapevolezza del passato e domande sulla democrazia.
Il racconto per immagini, infatti, offre ancora enormi riserve documentarie e sintesi preziose per avvicinarsi a quelle vicende, come avviene per tutte le grandi svolte storiche che hanno deciso il corso del XX secolo.
Ma il cinema è testimone e al tempo stesso prodotto della storia, agente dei cambiamenti e ostaggio del contesto produttivo in cui nasce, per cui, ogni volta che il suo sguardo è tornato sugli anni della guerra, ci ha mostrato qualche frammento in più di quel tempo rivisitato, e ha indotto anche qualche nuova riflessione sulla stagione nella quale è stato realizzato. Così noi oggi possiamo misurare la distanza che ci separa da quegli eventi attraverso varie lenti e notare anche le numerose censure e i divieti intercorsi ogni volta che emergevano interpretazioni non allineate. In questo modo si è strutturata la memoria ufficiale che il paese ha via via elaborato sul mito fondativo della nostra repubblica, nata per certo dalla lotta di Liberazione, ma anche tra le macerie morali e materiali di una guerra perduta e di una lunga dittatura.
Il grande cinema hollywoodiano che ha celebrato per decenni la vittoria alleata in Europa e nel Pacifico si poteva avvalere di risorse produttive tali da alimentare un genere - il film d'azione militare - all'interno del quale lo sforzo bellico della patria aggredita, il mito della civilizzazione e dell'amicizia fra commilitoni bastavano a sostenere un grande spettacolo internazionale, ove il nemico era sempre di fronte e soprattutto con un'altra uniforme. Una costruzione lineare, di facile successo: eppure autorevoli fonti ci dicono che negli USA, per un lungo dopoguerra, i film antinazisti ebbero successo solo a due condizioni: che non esaltassero la resistenza nei paesi occupati e che non mettessero in discussione il principio della libera iniziativa delle imprese.
Quanto più complessa e interessante sia stata la vicenda italiana, di un cinema senza mezzi, fortemente ideologico e culturalmente impegnato, lo si può dedurre dallo stretto rapporto che il nostro cinema d'autore ha da sempre intrattenuto con la storia civile e con la buona letteratura di questa nazione. Il più delle volte esso si è posto come obiettivi principali l'etica del sacrificio e il dovere di ricordare, affinché la tragedia vissuta da quella generazione, lacerata anche da lotte intestine, fosse monito e lezione a tutte le successive.
Ecco perché, in occasioni come gli anniversari, il cinema italiano viene chiamato a deporre al banco dei testimoni, per tracciare un profilo identitario delle nostre matrici, un bilancio delle colpe e dei meriti per cui un paese vorrebbe uscire più maturo dalla propria storia, facendo ricorso a tutti i codici narrativi che la tradizione culturale gli riconosce: la tragedia, l'epica, la farsa e la denuncia.
Benché le tensioni della guerra fredda, i successivi interventi censori e il defilarsi dei maggiori produttori abbiano spesso reso difficile la vita ai nostri autori più seri, si può ancora guardare al cinema di guerra come al grande specchio della memoria nazionale in grado di riflettere tra il pubblico più ampio gli eventi decisivi e la miglior narrativa di quel tempo.
In molti infatti concordano nell'affermare che all'interno della cultura italiana del dopoguerra il fatto veramente innovativo sia stato il cinema, che esplose fin dal 1945 come autentico fenomeno di massa, dopo aver attraversato, quasi in forma clandestina, gli ultimi anni del regime.
In quell'esperienza feconda, oltre ai cineasti, furono coinvolti scrittori, giornalisti, artisti, critici e docenti, tutti impegnati a realizzare scene della nuova Italia che stava rinascendo.
È persino curioso notare come la prima ampia rappresentazione del movimento resistenziale sia nata contemporaneamente all'accadere di quella stessa storia, nell'ultimo anno di guerra. Fondamentali i primissimi film, anche per gli anni a venire.
Il celebre Giorni di gloria, pietra di paragone del genere resistenziale, è infatti un film di montaggio, realizzato a più mani, mescolando riprese dirette degli eventi salienti e brani difiction girati a distanza di pochi mesi dall'accaduto, per descrivere l'Italia in lotta: l'occupazione tedesca, la nascita delle prime formazioni partigiane, l'attività di sabotaggio e la diffusione della stampa clandestina, il massacro delle Fosse Ardeatine, i processi ai fascisti e le fucilazioni, la guerriglia nel Nord Italia, la fine del Duce, la liberazione di Milano e l'inizio della ricostruzione. Documentari già disponibili e riprese a tema si fondono insieme, con alterne provenienze, superando l'antica divisione fra creativi e documentaristi, pur di ricomporre la prima immagine ufficiale della resistenza italiana, sostenuta dall'apporto di nomi quali Mario Serandrei, Luchino Visconti, Umberto Barbaro, Giuseppe De Santis e Umberto Calosso.
Pochi mesi dopo, sempre nel 1945, Roberto Rossellini ci darà opere come Roma città aperta (nessun programma o sito, per descrivere quel clima, riesce ancora oggi ad affrancarsi dall'ultima corsa di Pina/Anna Magnani dietro al camion tedesco) e affreschi come Paisà, realizzato nel 1946. Girato con ampie sequenze in esterno, Paisà ci offre per primo sguardi preziosi sull'Italia del tempo, annullando anch'esso ogni distanza fra cinematografia d'autore e documentario in presa diretta.
Sempre nel 1946 vennero realizzati anche Il sole sorge ancora, di Aldo Vergano, e Caccia tragica, opera prima di Giuseppe De Santis, entrambi commissionati dall'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI): il primo fu ambientato in un cascinale lombardo, il secondo nella campagna ravennate. L'apporto delle classi subalterne alla lotta di Liberazione e la presa di coscienza dei ceti rurali non avevano ancora trovato un grande romanzo ispiratore: fu dunque l'ANPI a trovare i fondi e a incaricare i giovani più impegnati per realizzare, sempre in economia, grandi narrazioni popolari che avrebbero consolidato l'epos, la drammatizzazione e il mito di quella parte di guerra che si voleva ricordare.
Del tutto rimosse le guerre volute dal regime in Africa, nei Balcani e in Russia, la grande stagione del neorealismo italiano si concentrava a quel tempo sulla guerra in casa, sulle violenze del nazifascismo, sulle tensioni della guerra civile e sulle miserie del dopoguerra. Era perciò molto più facile raccogliere spunti di cronache minori, contributi di sensibilità diverse, intuizioni della vivacità culturale di quel tempo, che vide nel cinema uno spazio di rivalsa, capace di educare e formare di nuovo le coscienze, così come il fascismo aveva fatto a suo tempo, con finalità opposte e avvalendosi del monopolio dell'informazione.
Il cinema rinato di quegli anni fu il collettore delle migliori energie del paese, disposte a spendersi in ogni ruolo. Per Paisà per esempio, benché prodotto con la collaborazione alleata della Foreign Film Production, Rossellini potè avvalersi della collaborazione del giovane Federico Fellini, di Vasco Pratolini e di Sergio Amidei.
Il sole sorge ancora, drammatica storia di redenzione di un giovane militare italiano che dopo l'8 settembre aveva trovato rifugio e protezione presso una seducente proprietaria sopravvissuta all'età dei telefoni bianchi, è sostanzialmente l'unica opera cinematografica della stagione neorealista modulata in termini marxisti, di lotta di classe, in cui la fucilazione congiunta del prete e dell'operaio comunista (che cadono insieme, disposti a croce) anticipa un tema molto caro alla successiva vulgata resistenziale.
La scena finale, con la rivincita in massa dei partigiani a cavallo, guarda decisamente verso Est, nell'attesa di una riscossa popolare che la storia italiana non avrebbe mai conosciuto.
Al soggetto, ispirato a una reale fonte giornalistica, misero mano Guido Aristarco, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani e Aldo Vergano, che poi, per contenere i costi di produzione, presero parte tutti alle riprese del film, insieme anche al poeta Alfonso Gatto.
Apparentemente fuori dalla stagione armata, ma in realtà ancora attento a proiettare lo scontro di classe sulla vita lavorativa che riprendeva a scorrere tra i segni freschi di una guerra intestina, Caccia tragica è la storia di una cooperativa agricola minacciata da malviventi ingaggiati da un proprietario terriero nei dintorni di Ravenna.
Potrebbe sembrare un intreccio sapiente tra noir hollywoodiano e "miti populisti della terra e della giustizia popolare", come ebbe a scrivere Gianni Volpi; in realtà la sceneggiatura, collocata in un territorio così ben riconoscibile, riuniva gli apporti di Cesare Zavattini, di Michelangelo Antonioni, di Carlo Lizzani, di Umberto Barbaro e di Gianni Puccini, che nel 1968 avrebbe firmato la regia de I sette fratelli Cervi.
Dietro a questo prestigioso sodalizio maturò anche una vicenda produttiva che ci aiuta a comprendere ancora meglio il valore sociale del mezzo cinematografico, decisivo e artigianale, come sono spesso le migliori intuizioni italiane.
Lungo tutto il primo decennio postbellico in Italia non era ancora apparso il fenomeno televisivo e il cinematografo godeva di un dominio assoluto nel trasmettere visioni, nell'alimentare aspettative, nel consolidare narrazioni di quanto era appena trascorso. Gli apparati produttivi nazionali, spostati da Roma a Venezia nel 1943 e troppo compromessi col fascismo, erano stati trascinati nella sconfitta, lasciando il posto all'invasione dei film americani che avrebbero preparato la strada al "Piano Marshall" e all'egemonia statunitense. In quel clima di precarietà tardava a farsi strada un preciso orientamento della cinematografia nazionale: nel 1946, a fronte di 46 film prodotti in Italia, ne furono importati complessivamente 874, di cui 668 americani. Nel 1948 furono 54 i film italiani a contendersi il nostro pubblico, di fronte agli 874 realizzati all'estero, di cui 668 provenienti dagli USA.
Furono allora due giovani ex partigiani ravennati, Egidio Errani e Gino Agostini, provenienti rispettivamente dalla 28° e dalla 36° Brigata Garibaldi, ad approfittare di quel vuoto d'impresa per avviare, con mezzi di fortuna di cui oggi si potrebbe sorridere, nelle arene estive e nelle case del popolo ancora prive di energia elettrica, dapprima la proiezione, poi la distribuzione organizzata e infine la produzione stessa di alcuni titoli famosi, per dare visibilità all'esperienza della lotta partigiana nella quale erano cresciuti. All'inizio degli anni Cinquanta il loro CREEC, il Consorzio regionale emiliano esercenti cinematografici, gestiva già oltre cento sale cinematografiche in questa regione e poteva garantire la circolazione di titoli altrove osteggiati o ignorati, giungendo più tardi anche a sostenere vere e proprie produzioni
L'irrompere della televisione, a metà degli anni Cinquanta, avrebbe interrotto la centralità di quella narrazione, archiviato quell'Italia di Zavattini, a beneficio dei documentari e di programmi meglio orientabili, che raramente chiamavano in causa scrittori e intellettuali.
Ma anche nei decenni successivi, durante i quali il cinema italiano cercò di raccontare in varie stagioni e con finalità diverse gli anni della guerra, esso ha fatto spesso ricorso alla memorialistica e alle fonti letterarie, nelle quali l'offesa della violenza subìta e la difficile scelta delle armi offrivano maggiori suggestioni narrative per descrivere sempre più spesso un paese sconfitto e le sue possibilità di riscatto.
L'energia descrittiva, anche se più rarefatta, prosegue sulla stessa linea sino ai primi anni Settanta a opera di autori come Carlo Lizzani (Achtung! Banditi! del 1951; Cronache di poveri amanti del 1954; Il gobbo del 1960; Il processo di Verona del 1964; Mussolini ultimo atto, del 1974), Giuliano Montaldo (Tiro al piccione del 1961; Gott Mit Uns del 1969;L'Agnese va a morire del 1976), Florestano Vancini (La lunga notte del '43 del 1960), Nanni Loy (Un giorno da leoni del 1961 e Le quattro giornate di Napoli del 1962), Luigi Comencini (Tutti a casa del 1960 e La ragazza di Bube del 1963), Valentino Orsini (Corbari del 1970 eUomini e no del 1980). Solo per citare alcuni dei nomi più conosciuti.
Buona parte di questi titoli hanno ancora una chiara discendenza letteraria e così pure accade se ci allontaniamo dai fatti d'arme, di mera pertinenza maschile, per considerare anche una storia di genere che vede le donne, e gli alleati, testimoni del degrado e della sconfitta. Dietro a film come Tombolo paradiso nero (1947), La ciociara (1950) e La pelle(1981) stanno, rispettivamente, le penne autorevoli di Indro Montanelli, Alberto Moravia e Curzio Malaparte.
Alla metà degli anni Settanta risale invece un elemento di discontinuità rispetto alle opere già citate: non si mette più al centro la necessità di rappresentare quella storia, ma l'attualità di interrogarsi su di essa, di porla in relazione con temi più vasti, come la difficile costruzione di una memoria comune o la complessità di certe interpretazioni fino ad allora inespresse.
Sono i lavori di Bernardo Bertolucci (Il conformista, 1970; La strategia del ragno, 1972; eNovecento, 1976), di Pier Paolo Pasolini (Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975), di Gian Vittorio Baldi (L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, 1975), dei fratelli Taviani (La notte di San Lorenzo, 1982), di Renzo Martinelli (Porzus, 1997), di Guido Chiesa (Il caso Martello, 1991; Il partigiano Johnny, 2000), di Daniele Luchetti (I piccoli maestri, 1998), di Massimo Guglielmi (Gangsters, 1992), di Daniele Gaglianone (I nostri anni, 2000). Fino all'ultima opera di Giorgio Diritti (L'uomo che verrà, 2009), che ritorna su nervi scoperti della nostra esperienza più drammatica. Questi film non si limitano più a legittimare la storia celebrata dal neorealismo, ma la rivivono con gli occhi curiosi delle nuove generazioni, ancora disposte però a riconoscere, attraverso lo schermo, il dolore comune che avvolge l'identità di questo paese.
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